È boom per le produzioni del grande schermo. Effetto del tax credit e della voglia di ripartire. Ma il pubblico è cambiato. La distribuzione soffre. E a farne le spese è il cinema d’autore

Notizia numero uno: Cinecittà è in pieno boom. Non si contano i film e le serie tv al lavoro negli stabilimenti inaugurati nel 1937 da Mussolini, un leader mondiale dell’entertainment come Fremantle ha siglato un accordo quinquennale affittando tra l’altro sei teatri di posa sulla Tuscolana, perfino Nanni Moretti, il re del cinema indipendente e degli ambienti dal vero, stavolta torna negli studios cari a Fellini per girare “Il sol dell’avvenire”.

Notizia numero due: CGR Cinémas, secondo circuito di Francia, ha deciso di mettere in vendita le sue 74 sale per un totale di 700 schermi, buona parte dei quali destinati ai titoli d’essai, e si capisce che gli amanti della Settima Arte si allarmino. Se cade la Francia, il paese in cui il culto del cinema è difeso a suon di leggi e accordi con tv e piattaforme, la forbice che divide i blockbuster dal cinema d’autore (forbice di visibilità oltre che di incasso) è destinata ad allargarsi in modo esorbitante.

Notizia numero tre: mentre il consumo in sala langue, i cinema chiudono (quasi 500 sale in Italia non hanno ancora riaperto né si sa se lo faranno) e la quota di mercato nazionale continua a scendere, i grandi marchi stranieri fanno shopping scalando le massime produzioni italiane (dopo Cattleya, Palomar, The Apartment, Wildside, le ultime sono Lux Vide e Groenlandia). Un po’ perché abbiamo professionalità e paesaggi unici al mondo (sintetizza un produttore: per quanto i costi scendano, certe cose non le puoi fare a Malta o in Bulgaria). Un po’ perché la legge italiana è molto generosa con le produzioni e il nostro tax credit al 40 per cento fa gola a tutti. Tanto che qualcuno denuncia l’ennesimo paradosso: «La legge sul cinema del 2016 doveva dare basi industriali più solide al settore, rendendoci competitivi sul piano internazionale, ma ha finito per fare un regalo ai grandi gruppi stranieri», accusa Umberto Carretti, coordinatore nazionale dei Lavoratori della Comunicazione CGIL. E non è tutto.

Un tax credit così ricco finisce infatti per essere fin troppo “inclusivo”. A tuffarsi sull’opportunità non sono solo professionisti capaci di stare sul mercato, ma soggetti nuovi e spesso improvvisati che sfornano prodotti di nessun interesse, né commerciale né culturale, intascando il guadagno sulla produzione ma infischiandosene se poi il film non lo vede nessuno. Dietro il boom produttivo, almeno in Italia, c’è anche questo. Ne derivano diversi fenomeni, non tutti positivi.

Da un lato aumenta vertiginosamente il lavoro, nel cinema non si trovano più nemmeno gli elettricisti, i sindacati calcolano che nel 2022 le troupe cinetv passeranno da un impegno di 1600 settimane di riprese annuali a 2300. Dall’altro però l’alluvione di “contenuti” intasa ulteriormente listini già saturi disorientando gli spettatori che per non sbagliare continueranno a premiare i soliti noti, accentuando la polarizzazione degli incassi e sospingendo titoli e marchi spesso eccellenti ai margini di un mercato sempre più interessato solo ai grandi numeri (i primi a riaprire e a riportare pubblico in sala furono le sale e le distribuzioni d’essai, ma non se ne ricorda già più nessuno).

Set pieni insomma, ma sale troppo spesso vuote. E non dipende solo dalla pandemia o dalle piattaforme, comodo capro espiatorio. La confusa sovrabbondanza dell’offerta, anche nel cinema in sala (ormai le campagne di lancio concentrano cifre sempre più alte su sempre meno titoli) ha il suo ruolo. Qualche dato restando in Italia, che come sempre è un buon laboratorio del futuro: ai primi di maggio si assegna il David di Donatello. Documentari esclusi, i titoli in gara sono circa 160 ma quelli prodotti nel 2021 superano sicuramente i 200, anche se un numero ufficiale ancora non c’è (si sa quanti hanno chiesto il tax credit in compenso: in tutto il settore audiovisivo sono 922). Non pochi di questi film sono oggetti inclassificabili anche per gli addetti ai lavori. In Francia, dove il sostegno pubblico è forte ma le verifiche assai più rigorose, i lungometraggi riconosciuti dal Centre National pour la Cinématographie nel 2021 sono addirittura 340. Una cifra senza precedenti che preoccupa perfino il presidente di Unifrance, Serge Toubiana, già critico e direttore della Cinémathèque parigina, di recente a Roma per i Rendez-vous del Nuovo cinema francese. «Una produzione così esuberante è un ottimo segno: vuol dire che ci sono sempre nuovi esordi e che il desiderio di cinema è ancora molto forte tra i giovani di ogni classe e provenienza. Ma come faranno tutti questi film a conquistare l’attenzione degli spettatori e trovare spazio in sala? Una parte finirà direttamente in tv o sulle piattaforme, è inevitabile, anche se in Francia la parola stessa è tabù. Ma il mancato passaggio in sala li indebolirà. I prossimi anni saranno decisivi per capire. Il sistema con cui fino ad oggi abbiamo sostenuto il cinema potrebbe franare all’improvviso».

Rilancia Ardavan Safaee, potente presidente dello storico gruppo Pathé, produttore di “Belle Epoque” ma anche degli ultimi film di Kechiche, da sempre attento al cinema popolare come a quello più esigente: «Questa massa di film che aspettano pazienti il loro turno a volte sembrano bestie portate al macello. Il cinema si fa per mandare la gente in sala. Punto. Se la gente non ci va, beh abbiamo sbagliato qualcosa. E non è moltiplicando il numero dei titoli che risolveremo il problema. Sia chiaro: la pluralità e la varietà dell’offerta sono fondamentali. Ma in questo momento la gente vuole soprattutto divertirsi. La pandemia ha cambiato le abitudini del pubblico maturo, quello del cinema d’autore. Sono loro a non essere tornati in sala. Dopo la pandemia dovremo ripensare tutti molto seriamente al modo in cui i film vengono concepiti, prodotti, girati, lanciati. Non credo che basterà tornare a fare come prima».

Si profila la fine della gloriosa eccezione culturale francese? Gli incassi sempre più magri racimolati da lavori eccellenti o premiati ai festival non sono un bel segnale (per citare solo gli ultimi, “L’accusa” con Charlotte Gainsbourg, “Parigi, tutto in una notte” con Valeria Bruni Tedeschi, “Parigi 13Arr.” di Jacques Audiard, “Un altro mondo” di Stéphane Brizé con Vincent Lindon, “Tra due mondi” di Emmanuel Carrère con Juliette Binoche).

Ma in Italia il problema riguarda l’intero segmento del cinema d’autore, il meno protetto dall’attuale ordinamento, che privilegia la produzione ma trascura distribuzione e esercizio lasciando che a imporsi sia la legge del più forte, che da “Spider-man” a “Ripley” o alle “Fate ignoranti” trasformati in serie tv privilegia il già noto e il franchise. Anche se fortunatamente le eccezioni non mancano perché il problema non è solo industriale, è culturale. Così, dove non arrivano sostegni e correttivi arriva la libera iniziativa di società piccole e agili, quasi sempre lontane da Roma. Che sia l’udinese Tucker, specializzata in cinema asiatico, che punta su un film certo non facile ma magnifico come “Drive My Car” di Hamaguchi, ora premiato con l’Oscar ma snobbato da tutti i concorrenti. O che sia “Piccolo corpo”, straordinario esordio della triestina Laura Samani, uno dei cinque candidati al David opera prima, già invitato alla Semaine de la Critique di Cannes, un club decisamente prestigioso. Poiché nessuna, sottolineiamo nessuna delle nostre distribuzioni si è fatta avanti per portarlo in sala, la produttrice Nadia Trevisan ha fatto tutto da sé contattando un insieme di cinema indipendenti sparsi per l’Italia e totalizzando in 2 mesi 150mila euro, cifra assai rispettabile oggi, specie per la storia parlata in friulano di una madre che vaga con la figlia nata morta nel Nordest primo Novecento (“Il silenzio grande” di Alessandro Gassmann per dire, tratto da un romanzo di Maurizio De Giovanni e distribuito da una società importante come Vision, da metà settembre ne ha fatti 127mila).

Insomma non è cambiato nulla dal 2005, quando un pugno di indipendenti imposero “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti programmandolo per mesi. Le leggi non premiano questo tipo di iniziative, nessuno protegge le opere più fragili, così i cinema continuano a chiudere come se fossero solo attività commerciali e non anche presidi culturali.

Eppure per rilanciare questo segmento decisivo basterebbe considerare le sale istituzioni necessarie al territorio come le biblioteche. Magari recuperando l’idea con cui quasi cinquant’anni fa l’assessore Renato Nicolini, sempre ricordato come l’inventore dell’effimero chissà perché, mise in piedi un solido circuito di biblioteche a Roma lanciando un bando per laureati disoccupati che creò una nuova, vivace classe di professionisti in cui i letterati si mescolavano agli architetti e agli scienziati. Servirebbe anche a riportare il cinema fuori dalla bolla autosufficiente in cui si è chiuso come racconta con allegra ferocia un film argentino con Penelope Cruz e Antonio Banderas in uscita proprio in questi giorni. Titolo ammonitorio: “Finale a sorpresa”.

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