Un giovane aspirante scrittore affascinato da un Maestro. Un epistolario interrotto. Un confronto tra generazioni nel segno della scrittura. A dieci anni dalla morte il racconto di un progetto mai realizzato

Antonio Tabucchi e quel libro mai scritto intitolato “Lettere dalla stessa stanza”

Il mondo di chi legge Tabucchi diventa tabucchiano. C’è una sorta di incantesimo letterario che si attiva da subito e per sempre: basta mettere piede in un suo libro, mettiamo quel “Notturno indiano” appena tornato in libreria in una bella edizione Sellerio che lo accosta a “Donna di Porto Pim”. La luce del crepuscolo sparge un’aria malinconica e sognante, che favorisce gli incontri con le ombre. Tra i primi anni Ottanta e i primi anni Dieci di questo secolo – in parallelo a scrittori dello stesso solco generazionale come Celati, Cavazzoni, Del Giudice – Tabucchi ha definito i contorni di un mondo tutto suo, la cui geografia mobile è vasta e poco italiana. Così avvolgente da restare addosso agli abiti, da impregnarli di aria atlantica, di odori di cibo, di calore pomeridiano.

 

Il mondo di chi legge Tabucchi diventa tabucchiano, perché questo autore amato in tutto il pianeta – scrittori come Salman Rushdie, David Leavitt, Jhumpa Lahiri, Mohsin Hamid, Julian Barnes lo evocano come un maestro – offre occhiali speciali per leggere la vita, la nostra e l’altrui, abituandoci a pensare che la realtà non è solo quella che si vede. E in questo senso, alla folla di personaggi che ha inventato, dal vagabondo di “Requiem” al “suo” Pessoa, da Pereira a Tristano, tutti ossessionati dal tempo che «invecchia in fretta» e da una certa confidenza con le voci dei trapassati e una certa simpatia per gli equivoci e le coincidenze, a questa folla si è aggiunto lui stesso. Il Tabucchi romanzesco evocato da scrittori quasi coetanei come Enrique Vila-Matas o più giovani come Andrea Bajani, che gli ha dedicato un intero romanzo, “Mi riconosci”.

 

O ancora, come Roberto Ferrucci, che nel suo “Storie che accadono”, appena pubblicato da People, si mette sulle sue tracce per le strade di Lisbona, città elettiva di Tabucchi, per capire da dove venissero le sue parole, i suoi racconti, per provare a stanare il mistero. E non è un caso che, in occasione del decennale della morte, escano due libri di conversazioni – “Zig zag” (Feltrinelli) e “La vita è imperfetta” (Aliberti) – in cui diversi interlocutori, Carlos Gumpert, Anteos Chrysostimidis e Marco Alloni, incalzano Tabucchi sul cantiere della scrittura. Lui risponde, nel modo magnetico, talvolta sibillino che era suo, parla di quadernetti dalla copertina nera e di impreviste visite da parte dei personaggi.

 

Ho la fortuna di avere nelle orecchie ancora il timbro della sua voce. Arrochita, appena un po’ nasale, con una lieve inflessione pisana. L’ho sentito canticchiare e inventarsi giochi di parole, ma soprattutto dettare, dettare a lungo. Sempre più spesso, con il passare del tempo, i suoi libri nascevano “a voce”. Sembrava che leggesse da qualche parte, e invece davanti aveva qualche volta una traccia, qualche volta niente. E c’erano già gli a capo, le virgole, i due punti, gli aggettivi giusti, c’era già tutto.

 

Sono nella privilegiata schiera di chi si è trovato ospite della sua officina: ragazzo affascinato dalla sua letteratura, cercai di intervistarlo riguardo ai suoi viaggi; intestardito nella volontà di incontrarlo, ecco che finalmente me lo ritrovo davanti, in un caffè di Boulevard Saint-Germain a Parigi, un pomeriggio ghiacciato di gennaio. Si toglie il baschetto, si sfrega le mani per scaldarle, e le domande comincia a farle lui. Nel periodo in cui lavoravamo insieme a una raccolta dei suoi scritti di viaggio (ricordo perfettamente l’istante in cui sul frontespizio della stampata scrisse il titolo che gli era venuto in mente: “Viaggi e altri viaggi”), mi disse di mettere da parte i messaggi, diciamo pure i più eccentrici, che ci scambiavamo. E che nascevano spesso da una mia curiosità, da un interrogativo a sua volta destato, mettiamo, da un post-it attaccato sul tavolo della cucina della sua casa di Vecchiano. Sul biglietto adesivo era scritto, di suo pugno: «Dov’è Céline?».

Avevo notato quella curiosa domanda a colazione, e gliene avevo chiesto conto. E lui, per iscritto, si era messo a raccontarmi della sua passione per l’inquieto scrittore francese, di cui aveva letto il “Voyage” nel ’64 a Parigi. «Ho ancora l’esemplare (un “livre de poche” con una copertina dove un uomo cammina a tentoni con le braccia tese in avanti), con tutte le parole in Argot sottolineate. Poi comprai un dizionario di Argot… Fu una scoperta e uno shock. Ma anche una fascinazione. E una rivelazione. Cominciai a leggerlo, tutto.

Ero un ragazzo di ventun anni, al liceo si leggeva ancora Fogazzaro, la prima guerra mondiale l’avevamo vinta “noi”, ma che era stata un macello non era scritto su nessun libro, io ne avevo una vaga idea dai racconti di mio nonno, che aveva combattuto nelle trincee della Marmolada, ma poi? E la seconda guerra mondiale l’avevamo persa solo perché da principio Mussolini si era messo dalla parte sbagliata, ma poi in realtà l’avevamo vinta “noi” anche quella. E poi c’era stato Auschwitz, ma anche di quello si sapeva poco, molto poco: Primo Levi, non molto di più. Céline faceva capire il macello del ventesimo secolo, ma anche tutta la sua merda, perfino stando dalla parte del torto.

Di Céline e su Céline ho un’intera biblioteca. Per qualche anno mi sono perfino abbonato a una rivista a lui dedicata da un’università della California. Ho anche tutte le traduzioni italiane, da quella iniziale di Alexis, monca e poco attendibile (Corbaccio), a quella ottima di Ernesto Ferrero, che però ha mantenuto il titolo sbagliato (“Au bout de la la nuit” non vuol dire “al termine della notte”, vuol dire dentro la notte, nel cuore della notte, nel suo ventre)».

Ecco, adesso ditemi se non vi sareste sentiti, leggendo queste righe, ipnotizzati. Lo ero. E questo strano dialogo, parallelo a quello di persona, è continuato per mesi. Disordinato, intermittente. Tutto fuorché un’intervista. Qualcosa come un epistolario sghembo, tra due persone venute al mondo a quarant’anni esatti di distanza, che sono – osservò – «un bel pezzo di tempo, sulla Terra». La definizione la trovò lui nell’agosto del 2011: «A me piacerebbe fare un “romanzo” con te fatto di sms (veri e falsi) sull’Italia di ieri e di oggi. Sarebbe una novità anche stilisticamente».

E in un altro messaggio spunta quasi un’ipotesi di titolo: «Ti invito a passare dieci giorni a Lisbona: la casa è grande, le mattine e i dopocena sono tutti tuoi, perché a quelle ore non lavoro. Dalle cinque alle otto, mi dai una mano e facciamo un sacco di cose, persino un carteggio, tanto nessuno potrebbe immaginare che ci siamo scritti lettere dalla stessa stanza».

Lettere dalla stessa stanza! Sarebbe stato, questo libro non-scritto (altra dimensione tipicamente tabucchiana), pieno di cose: Hannah Arendt e Walter Benjamin, un verso di Drummond de Andrade e una considerazione sul “Faust” di Sokurov, ma anche un accento sui würstel al curry, su qualche vecchia canzone napoletana, un raccontino “a voce” su un impagliatore di seggiole a Lisbona. Bisogna sempre controbilanciare il Sublime, sosteneva Tabucchi.

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