Artista, performer, musicista, imprenditore, da sempre Nico Vascellari spiazza il pubblico, indispettisce i critici, mescola le carte, si muove fuori e dentro il sistema dell’arte contemporanea. Ha deciso di non farsi rappresentare da alcuna galleria ma le sue opere fanno parte delle collezioni di importanti musei sparsi per il mondo. E ama le sfide. Come quando con la sua band tribal-punk, i Ninos Du Brasil, l’anno scorso in pieno lockdown, mentre club, teatri e musei erano chiusi, ha organizzato un tour in venti tappe in altrettante regioni d’Italia. Concerti nelle case nel rispetto delle regole Covid-19, come spettatori i soli abitanti: un esperimento diventato un film, “Ionoi”, andato in onda su Sky Arte. A 46 anni l’artista di Vittorio Veneto, nel trevigiano, sta per realizzare il progetto più ambizioso: aprirà a ottobre la sua nuova factory, un ex ufficio postale di oltre 400 metri quadrati nel quartiere Marconi, a Roma, una zona vicino al Tevere con un patrimonio di archeologia industriale ancora da valorizzare. Lo spazio comprende uno spazio espositivo, un ufficio, un magazzino e un palco aperto a musicisti, artisti, performer. E soprattutto al pubblico. «Si chiamerà Codalunga, per il momento», annuncia Vascellari su Zoom, occhiali da sole, capellino nero e t-shirt della band hardcore californiana Uniform Choice, mentre viaggia in treno verso Nola, vicino a Napoli, dove si trova la fonderia con cui collabora. Per la factory ha scelto il nome del suo progetto più longevo, in piedi dal 2005, e dei due negozi temporanei aperti in queste settimane nella Stazione Termini e nella Stazione Centrale, nel capoluogo lombardo, dove si vendono felpe, poster, peluche e le t-shirt con gli anagrammi “Dream merda”, “Milano limona” e “Resist sister” che lo hanno reso famoso.
Con quale spirito nasce lo spazio Codalunga?
«L’ho individuato dopo varie ricerche, sarà il mio quartier generale. Ospiterà mostre e interventi di altri artisti ma anche un negozio Codalunga. Lo spazio verrà inaugurato con tre giorni di eventi».
Si ispira alla factory di Andy Warhol?
«Questo riferimento non mi dispiace, con le dovute differenze di contesto e di tempo. Ho sempre guardato con interesse alla storia di Andy Warhol, sento vicino il suo approccio così versatile. È stato un grande precursore, come dimostra la celebre frase “In futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”. Lo specchio della società in cui viviamo».
Lei ha sempre dato importanza al rapporto con il pubblico. Sono molto distanti il mondo underground, che segue la band Ninos Du Brasil, e i fruitori dell’arte contemporanea. Vuole far entrare in collisione i due sistemi?
«Mi interessa unire cose che sembrano distanti, se non addirittura opposte. È una parte emblematica della mia pratica artistica, un po’ come l’anagramma “Dream merda”. Fin dall’inizio ho capito che mi interessava proporre il mio lavoro a un pubblico eterogeneo: da sempre chi mi segue per la musica trova le performance artistiche fighette o snob, mentre il mondo dell’arte contemporanea considera la musica semplici concerti. A me interessa stare in quella zona di mezzo dove non soddisfo nessuno del tutto ».
Di recente, Achille Bonito Oliva ha scritto su Robinson: «Oggi il sistema riesce a inglobare qualsiasi tentativo di rottura e di novità, sia che si tratti di gesti diretti come la politica che di gesti indiretti come la cultura». Si trova d’accordo?
«Sì, il mercato funziona così. Ma fuori esistono tantissime cose che il sistema dell’arte non riconosce proprio perché non hanno mercato. Da sette anni, ad esempio, non ho una galleria che mi rappresenti, ma non significa che il mio lavoro non venda o non sia riconosciuto all’interno delle collezioni pubbliche e private».
La prima opera che fece innamorare del suo lavoro Marina Abramovic fu Nico & the Vascellaris, la performance e la scritta al neon con cui a Trento, nel 2005, vinse il Primo Premio Internazionale della Performance. Cosa vi lega?
«Marina Abramovic presiedeva la giuria, conoscevo i suoi lavori ma per la prima volta l’ho incontrata di persona. Tra noi è nato un dialogo che ha attraversato questi anni».
Cosa avete in comune?
«L’interesse per lo scambio di energia tra il performer e il pubblico nel momento in cui si trovano a condividere lo stesso spazio. Per il resto esistono enormi differenze».
Codalunga è un progetto con una spiccata vocazione commerciale. Nel mondo dell’arte contemporanea qualcuno ha storto il naso.
«Commerciale? La maggior parte delle persone che critica non è mai venuta e non ha mai dimostrato interesse nel corso degli anni. Sta di fatto che è il primo spazio aperto da artisti negli anni Duemila e a oggi è il più longevo. Codalunga nasce nel 2005 a Vittorio Veneto, il mio studio era un negozio con ampie vetrine su strada, passavano di continuo persone che non sapevano nulla di arte contemporanea ma erano curiose di sapere cosa accadeva lì dentro. Da allora a Codalunga hanno partecipato 250 artisti di tutto il mondo».
Musica, performance video, arte contemporanea, pop up store. La sua produzione artistica è un modo per sfuggire alle etichette?
«Non mi curo delle etichette. In questo modo riesco a lavorare rivendicando la mia indipendenza intellettuale, poetica ed economica. Mi colpiscono lo stupore e l’incomprensione della critica, ma è un prezzo che sono disposto a pagare».
Il mondo dell’arte contemporanea è attraversato dalla rivoluzione degli Nft, i certificati di autenticità digitale per le opere fisiche. Cosa ne pensa?
«Gli Nft potrebbero rappresentare una possibilità, ma come ogni forma d'arte deve nascere da una impellenza. Non li trovo attraenti né seducenti, infatti se ne parla per i risultati di vendita, non per la qualità delle opere. Finora non ne ho fatti, mai dire mai».
Da diversi anni lei è il compagno di Delfina Delettrez Fendi, figlia di Silvia Venturini Fendi, oggi cura la direzione artistica degli show della maison. Come è nata questa collaborazione?
«Diverso tempo fa venivo invitato alle sfilate di Fendi, Silvia Fendi conosceva e stimava il mio lavoro. Nel corso degli anni, per le note ragioni, la vicinanza alla maison è cresciuta. Con Silvia Fendi ci siamo trovati a parlare di aspetti creativi degli show, le ho parlato di un’idea che poteva stravolgere l’uso del suono nelle sfilate, le è piaciuta e così abbiamo cominciato a lavorare insieme. È entusiasmante».
Negli ultimi anni il rapporto tra moda e arte contemporanea si è intensificato. Vengono in mente gli interventi di Pistoletto, Turcato, Pesce. Lo storico dell’arte Gabriele Simongini, nel saggio “Arte e identità della specie umana” (Manfredi edizioni), sostiene che «l’arte è oggetto di un’aggressione parassitaria da parte della moda». Cosa ne pensa?
«Posso essere d’accordo ma non è una novità e riguarda anche altri Paesi. Basti pensare alle collaborazioni di Damien Hirst, Jeff Koons, Anne Imhof. Il punto è un altro: non credo che il sistema dell’arte sia in grado di garantire la libertà espressiva degli artisti. Sarebbe interessante capire perché tanti artisti collaborano con le maison di moda, viste le enormi difficoltà che hanno le istituzioni italiane nel sostenerli».