Un cartellone sovraccarico ed eclettico che guarda alla cronaca, alla storia, a vite eccezionali. E in cui gli equilibri tra sala e piattaforme si spostano sempre di più

La prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia non si tenne alle soglie dell'autunno ma in piena estate e precisamente dal 6 al 21 agosto 1932, anno decimo dell'era fascista. Non sappiamo se l'agosto di 90 anni fa fu torrido come questo, probabilmente no. In ogni caso il Cinema era un ragazzino che aveva appena imparato a parlare e aveva davanti a sé un radioso avvenire. Tanto che al Lido «sia pure per poco tempo si respirò un'aria di grande libertà non riscontrabile in nessun'altra realtà italiana coeva», come ci ricorda Gian Piero Brunetta in un volumone da 1200 pagine straripante di nomi e di storie che è il primo evento di questo anniversario (“La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. 1932 - 2022”, Marsilio).

 

Novant'anni più tardi la Mostra (dal 31 agosto al 10 settembre) continua a guardare avanti ma soprattutto si guarda intorno. Anche troppo forse, a giudicare da un cartellone sovraccarico quanto eclettico. Mai come in questo terzo anno dell'era Covid infatti il futuro del cinema è apparso più tumultuoso e confuso, sotto ogni profilo. Artistico, industriale e politico se Alberto Barbera, uno dei direttori più longevi che Venezia ricordi, si è concesso il lusso di denunciare la faciloneria con cui in Italia oggi si possono produrre film che poi nessuno va a vedere proprio perché pensati male e realizzati peggio. Un aperto attacco a un sistema sostenuto dalle leggi vigenti che L'Espresso è stato tra i primi a stigmatizzare ma che ha ben altro peso provenendo dal direttore di un'istituzione come la Mostra di Venezia. Anche se poi di bei film se ne fanno ancora e di registi italiani ce ne sono molti in tutte le sezioni.

 

Solo in Concorso ne figurano cinque. Gianni Amelio con “Il signore delle formiche” sul processo per plagio subito da Aldo Braibanti, Emanuele Crialese con l'autobiografico “L'immensità”, Susanna Nicchiarelli con “Chiara”, cioè santa Chiara, finalmente protagonista, a cui si aggiungono i due film girati negli Usa da Andrea Pallaoro (“Monica”) e Luca Guadagnino (“Bones and All”). Ma le sezioni parallele non sono da meno. Orizzonti schiera fra gli altri “Ti mangio il cuore” di Pippo Mezzapesa, debutto al cinema di Elodie, e “Princess” di Roberto De Paolis, racconto di formazione sperimentale scritto e girato con alcune prostitute nigeriane che interpretano se stesse.

 

E se la Settimana della Critica, riservata agli esordi, solitamente seleziona un solo film nazionale (“Margini” di Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti), alle Giornate degli Autori la presenza italiana è declinata nei modi più diversi, con attenzione speciale per temi e sguardi forti. Ma anche per le ibridazioni culturali più inattese. E qui, restando in Italia, pensiamo al “Padre Pio” di Abel Ferrara, testimone nel 1920 di una specie di prova generale del fascismo nascente. O a “Marcia su Roma” dello storico del cinema e regista inglese Mark Cousins che, partendo dalla rilettura di un film di propaganda del 1923 (“A noi” di Umberto Paradisi), crea un inquietante cortocircuito fra la situazione attuale e l'ascesa delle dittature nell'Europa del '900. 

 

Ma pensiamo anche alle scatenate protagoniste di “Las Leonas”, documentario di Isabel Achaval e Chiara Bondì prodotto da Nanni Moretti. Un gruppo di badanti e domestiche immigrate da diversi continenti, unite dalla passione per il calcio, che con i loro racconti finiscono per disegnare un'immagine insolita, toccante e a tratti disturbante del nostro Paese. Ricordandoci quanto è importante vedersi riflessi in occhi altrui. Mentre nelle sezioni ufficiali, malgrado la sovrabbondanza dei titoli, Venezia mostra il fianco proprio nella nitidezza dei percorsi proposti.

 

Cominciamo dal Concorso. L'onore dell'apertura va a un film dello statunitense Noah Baumbach, regista in continua ascesa, tratto da uno dei libri più ardui di Don DeLillo, “White Noise”. Produce Netflix, ed è la prima volta che il colosso dello streaming inaugura la Mostra. Un segno dei tempi, certo, del resto anche l'ultimo Baumbach, “Marriage Story”, correva per Netflix a Venezia nel 2019 e nessuno ebbe da ridire. Ma la pandemia non era ancora scoppiata e le sale non erano in caduta libera. Mentre quest'anno al Lido la “N” (così napoleonica) della casa di Reed Hastings sventola su altri tre titoli: “Blonde” di Andrew Dominik, biopic filologicamente correttissimo di Marilyn Monroe ispirato al libro di Joyce Carol Oates. “Bardo” di Alejando Gonzales Inárritu, che a Venezia deve buona parte della sua carriera. Infine, più inaspettatamente, “Athena”, pirotecnica ricostruzione di una rivolta di banlieue diretta da Romain Gavras e scritta con Ladj Ly, il regista di “Les misérables”. Mentre c'è la Metro Goldwyn Mayer, cioè Amazon, dietro gli amanti cannibali di Guadagnino, scandalo annunciato e film più secretato della Mostra. Ed è sempre targato Amazon “Argentina 1985” di Santiago Mitre, ricostruzione dell'epica battaglia giudiziaria condotta da due giovani avvocati contro i generali che avevano insanguinato il Paese tra il 1976 e il 1983.

 

Naturalmente nessuno invoca chissà quale assurda purezza. Ormai questi sono gli assetti di mercato. E poi lo streaming porta ovunque film inaccessibili ai più. Ma è giusto ricordare che in Orizzonti, o Fuori concorso, per non parlare delle sezioni autonome come le Giornate degli Autori o la Settimana della Critica, di titoli targati Amazon, Netflix o Disney non ce n'è. Ne consegue che lo spazio per gli indipendenti in Concorso va restringendosi. E che per chi fa festival è sempre più arduo impostare una politica culturale capace di influenzare non solo il gusto ma il mercato, saldamente in mano a un numero sempre più limitato di player.

 

Del resto vale anche il ragionamento inverso. Quanti film delle sezioni parallele vedremo in streaming tra un mese o tra un anno? Pochini. E quasi tutti su Mubi, l'unica grande piattaforma davvero sensibile al tema, che da quest'anno diffonderà i nuovi talenti del cinema italiano in collaborazione con le Giornate degli Autori. Basterà a rianimare il gusto per lavori che ci siamo rassegnati a dire “di nicchia”? No naturalmente, anche perché il cinema ha perso da un pezzo l'impatto e la sacralità degli anni d'oro, così ben raccontati dal libro di Brunetta. Niente paura comunque. In una Venezia sempre più inclusiva c'è spazio per tutti. Ormai sono le serie a modellare l'immaginario? Benissimo, se ne vedranno un paio anche al Lido, entrambe danesi e molto d'autore: la terza stagione di “The Kingdom” di Lars Von Trier, che proprio a Venezia debuttò negli anni Novanta (Mubi), e “Copenhagen Cowboy” di Nicolas Winding Refn (ancora Netflix). Entrambe Fuori Concorso naturalmente, la sezione jolly della Mostra.

Fuori Concorso troviamo infatti l'allegoria apocalittica e assai politica di Paolo Virzì, “Siccità”, ma anche il film postumo del compianto Kim Ki-duk, “Call of God”, e l'attesissimo “Don't Worry Darling” di Olivia Wilde, uno dei titoli più caldi del cartellone, per richiamo divistico e spettacolare. Sono Fuori Concorso il docu controcorrente di Oliver Stone, “Nuclear”, il documentario di Gianfranco Rosi sulle missioni internazionali di Papa Francesco (“In viaggio”) e l'esplosivo “The Matchmaker” di Benedetta Argentieri, ritratto di una jihadista britannica che per anni ha trovato mogli (occidentali) ai combattenti dell'Isis. Da abbinare idealmente al film di finzione su tema analogo del brasiliano Sérgio Tréfaut, “A noiva”, La sposa, che sta invece in Orizzonti. 

Anche se in fondo tutte queste sono illazioni della vigilia. Alla fine a Venezia contano soprattutto i premi. A chi andrà il Leone? A “Gli orsi non esistono” del grande iraniano Jafar Panahi, attualmente incarcerato dal regime? A “The Son” di Florian Zeller, il drammaturgo di “The Father”? O a “Gli spiriti dell'isola”, nuova fatica di Martin McDonagh, l'osannato autore di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”? L'anno scorso vinse a sorpresa una outsider assoluta come Audrey Diwan con “L'événement”. Non è detto che il miracolo si ripeta. Ma si può sempre sperare.