Il processo all’insegnante per plagio negli anni 60 mostrò tutta l’arretratezza del nostro Paese. Ma la reazione degli intellettuali e dell’opinione pubblica portò poi a un profondo passo avanti

Una colonia di formiche forma una collettività intelligente; proprio nel significato che assegniamo a questo aggettivo: l’interconnessione quale elemento che modifica, ampliandola, la capacità intellettiva singola. Interessante studiare le loro reciproche interazioni. Così scriveva Aldo Braibanti, grande osservatore del loro agire: «Il più importante segreto cibernetico, quello più vicino al limite là dove l’automa torna forza psichica, è chiuso in parte anche nel cervello delle formiche […]». Gli anni Sessanta erano alla loro metà e la società italiana era ancora densa di bigottismo e chiusura, senza quel respiro che soltanto nel 1968 comincerà a irrompere anche nella quotidianità e nella vita dei singoli. Così l’amicizia profonda fatta anche di amore, di gesti e di condivisione di vita che l’insegnante intellettuale Braibanti aveva allacciato con un giovane adulto poteva essere violentemente interrotta dal padre del giovane, che lo internò in manicomio pur di non accettarne l’inclinazione omosessuale.

 

Come sempre, la giustizia mise l’etichetta normativa a copertura dell’arretratezza culturale e Braibanti venne processato ai sensi dell’articolo 603 del codice penale che puniva “chiunque avesse sottoposto una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. L’ipotesi di reciprocità consensuale sfuggiva ai genitori e ai giudici e dunque rimaneva soltanto il plagio. Era il 1968 e, proprio mentre si riaprivano le finestre sociali, quelle giudiziarie rimanevano difensivamente chiuse: la Corte d’Assise di Roma, il 14 luglio, lo condannò a 9 anni di reclusione – l’appello mutò solo l’entità della pena. Era il primo e unico caso di condanna per tale reato. Il condannato era un uomo, reo di aver plagiato altri giovani uomini.

 

Al Festival di Venezia il film di Gianni Amelio dal titolo “Il signore delle formiche” ripercorre, ovviamente reinterpretandola, la vicenda. Ma quel doloroso processo non fu solo un caso giudiziario perché fu un caso politico e soprattutto un riferimento cruciale per l’abrogazione del reato di plagio, tredici anni dopo.

 

Un gruppo di intellettuali, tra loro Moravia, Eco, Pasolini, lesse nella condanna un desiderio di autoconservazione e quella mediocrità che teme la diversità e vuole annientarla per non essere costretta a misurarcisi. Umberto Eco pubblicò l’analisi semiologica dell’istruttoria. “Tutte le parole chiave del processo Braibanti – scrive – tendono a ribadire nella testa dei giudici, degli inquirenti e del pubblico questo concetto: Egli è diverso, perché tutto quello che fa si oppone al modello culturale nel quale troviamo la comune identità […]. Costui va quindi eliminato perché il solo ammettere la sua presenza costituisce una minaccia alla nostra coesione».

 

La pubblicazione fu una pietra miliare dello sviluppo di pensiero che portò nel 1981 la Corte Costituzionale a esprimersi sull’abolizione del reato di plagio perché né la medicina, né la psicologia, né la psichiatria possono verificare il limite tra adesione e sottomissione.

 

“Il reato impossibile” è il secondo volume della collana “Da dove” del Garante nazionale, nata per riportare alla luce e diffondere “discorsi e scritti che hanno rappresentato tappe decisive nell’affermazione dei diritti umani”. Tra questi, le sentenze del caso Braibanti e il prezioso saggio di Umberto Eco che ne dissezionava il linguaggio arcaico rivelatore di ciò che le supposte ragioni punitive in realtà nascondono. È gratuito e disponibile.

 

Mauro Palma è Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale