Lo stilista italiano più apprezzato al mondo, parla di sé e del suo settore nel domani. Senza filtri. Perché «definirsi non è mai facile. Ma è un esercizio che dopo gli ottant’anni non si può rimandare»

«Parlare di sé e definirsi non è mai facile, ma è un esercizio che superati gli ottant’anni non si può più rimandare. Ti aiuta a segnare un punto fermo, a guardarti dentro e fuori con onestà». Giorgio Armani, lo stilista italiano più apprezzato e amato al mondo, “Re Giorgio”, come lo definisce chi di stile e di moda se ne intende (ma non soltanto), lo ha fatto “Per amore”, citando l’omonimo libro pubblicato di recente da Rizzoli che nasce a sua volta da un coffee table book uscito nel 2015 in occasione dei 40 anni del marchio globale che porta il suo nome. Dalla narrazione per immagini, Armani è passato a quella per parole, nonostante sia «un uomo di fatti, di azioni più che di celebrazioni o, peggio ancora, di autocelebrazioni».

 

Quello che ne è venuto fuori è un Armani senza filtri, un uomo che parla di sé, della sua giovinezza a Piacenza, degli studi di medicina interrotti, della carriera con Sergio Galeotti con cui tutto ebbe inizio e delle persone a lui vicine, del successo, delle abitazioni (Milano, Pantelleria, Forte dei Marmi, dove ha passato il lockdown) e degli animali, anche quelli che non ci sono più (il gatto Isolina), condividendo la sua idea di creatività e ciò che lo affascina nel mondo di oggi, ciò che non funziona e che a volte si ferma, non sempre con la nostra volontà. La sua sfilata del 1998 in Place Saint-Sulpice, a Parigi, ne è l’esempio, annullata solo tre ore prima dell’inizio per motivi di sicurezza, prontamente risolti, e poi per mancanza di autorizzazione, con milleduecento invitati in attesa di entrare. La sfilata fu fatta comunque per pochi intimi e tutto il cibo previsto per la cena fu dato ai senzatetto della zona. Abbiamo ancora in mente quelle immagini ai vari tg italiani della sera, come ricordiamo quelle di un’altra sfilata, sempre a porte chiuse, nel febbraio del 2020, all’inizio della pandemia, dove la musica fu sostituita dal rumore assordante del silenzio. Le critiche ci furono, ma gli scivolarono addosso.

«Decisi di sfilare perché sentii il dovere morale di proteggere il mio team e il mio il pubblico», spiega: «La pandemia ha preso due anni della nostra esistenza, è stato un evento sconvolgente che ci ha ricordato quanto siamo piccoli e fragili, un evento che mi ha ricordato gli anni della mia infanzia, anni di restrizioni e di paura per la sopravvivenza».

 

«Abbiamo parlato tanto, noi della moda, industria tra le più importanti in Italia e non solo, ma anche tra le più inquinanti, basata com’è su produzione e circolazione scellerata di merci. Abbiamo cercato di trovare soluzioni per un futuro migliore, di razionalizzare e di moralizzare, ribaltando assurdità nonsense che negli anni sono diventate il nostro modo di agire. Ma oggi, due anni e mezzo dopo, vedo che, parole a parte, non è cambiato molto. Anzi: non è proprio cambiato nulla», prosegue.

 

In effetti, oggi c’è lo stesso numero esponenziale di collezioni, la stessa foga di esserci, le stesse sfilate presentate con gran dispendio di mezzi. «Siamo tornati esattamente dove eravamo. Forse con ansia maggiore, come a compensare il periodo in cui tutto ciò non si è potuto fare». Anche lui ha messo in scena una grande sfilata a Dubai per i dieci anni dell’Armani Hotel (il primo è a Milano, in via Manzoni), «ma era una celebrazione programmata da tempo e ho voluto portare a termine il progetto». Ovvio, vien da pensare, per uno che vuole sempre il meglio, che aspira alla perfezione e che si impegna al massimo per raggiungerla. Ovvio per uno che ama il silenzio e l’essenzialità, che detesta il chiasso e l’eccesso, «anche solo metaforici», che si fida di poche persone e che ha bisogno del sostegno di una famiglia attorno a sé fatta di legami di sangue — la sorella Rosanna e i nipoti Silvana, Roberta e Andrea con le figlie Maria Vittoria e Margherita — e di legami affettivi – “il fido” Leo Dell’Orco su tutti — che ha coltivato negli anni.

«L’emergenza attuale», disse in quei giorni di chiusura globale in una lettera indirizzata a un quotidiano e lo ribadisce ancora, «dimostra come un rallentamento attento e intelligente sia la sola valvola d’uscita, una strada che finalmente riporterà valore al nostro lavoro e che ne farà percepire l’importanza vera al pubblico finale. Il declino del fattore moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo per essere realizzato e per essere apprezzato».

 

Nella moda del futuro, dunque, «il lusso non può né deve essere fast». Un outsider vero e proprio, dunque, un Armani «rigoroso, preciso, pignolo, intransigente, leale, costante, determinato e appassionato» – per usare gli aggettivi che ama di più per definire sé stesso – ma anche e soprattutto «eccentrico», che non è necessariamente sinonimo di flamboyant, teatrale ed eccessivo, ma nel senso del purismo assoluto, della rinuncia a ogni forma di decorativismo almeno quanto l’abbondanza consapevole di decori, il dialogo con altre forme espressive, la bizzarria nata dalla cultura. «L’eccentricità» – parola usata anche per il titolo di una mostra di undici anni fa (Eccentrico) che ripercorreva la sua linea creativa attraverso abiti e accessori dal 1985 in poi, dalla prima linea a Emporio Armani, da EA7 a A/X fino alla linea di alta moda Armani Privé — «è indipendenza di pensiero come d’azione» e di questa indipendenza sono testimoni quasi cinquant’anni di collezioni, invenzioni fantastiche da offrire come esempi.

 

Lui, che ha costruito il suo impero sull’osservazione del reale e che vive la realtà al massimo, è riuscito a vestire le donne vere e gli uomini veri con mille sfumature di grigio, o del greige, questo è sicuro, ma anche con tanto colore che nel suo caso, però – ed è ciò che lo rende unico — non è mai troppo urlato o aggressivo. Quando c’è, si vede, dà quel tocco in più che fa la differenza, impreziosisce, distingue e non disturba mai. La nuova collezione uomo Autunno/Inverno 2023-24, appena presentata nel suo teatro di via Borgonuovo, con i suoi uomini gentili e impeccabili come le donne che li accompagnano all’uscita finale, ne è l’ennesimo esempio: una maniera per ripensare ancora una volta le regole della formalità borghese senza essere mai banale. «Less but better», diceva il designer Dieter Rams, una frase che Armani ha fatto sua portandola dentro di sé a differenza di qualcun altro che, senza gusto e omologato al sistema, magari l’avrebbe tatuata su un polso o un bicipite. La sua non è una definizione minimalista, ma una essenzialità fatta per seguire il corpo e i movimenti, non una sfida estetica ma una ricerca di naturalezza, di continuità tra abito e persona.

«Non abbiamo bisogno di tanto», aggiunge, «e non dobbiamo per forza vivere circondati di cose, non fa bene a noi, alla nostra mente e al pianeta che abitiamo. Ho ricevuto questo imprinting da piccolo ed è indelebile: a casa nostra c’era poco, ma non mancava nulla, soprattutto non mancava la dignità».

 

Esiste un guardaroba ideale? «Certo, ognuno ha il suo, ma per me è un distillato di capi senza tempo che donne e uomini possono combinare, ogni volta, nel modo che li rappresenta meglio in quel momento. Del resto, le cose belle non hanno una data di scadenza, non diventano improvvisamente brutte al finire della stagione, anzi acquistano bellezza e personalità negli anni».

 

Non è un caso che tutto il suo lavoro (anche la linea Armani Casa) sia basato su questa idea, su un’evoluzione sottile e millimetrica di capi classici, di una modernità fatta per durare nel tempo, una filosofia del vivere e del vestire che è sostenibile, che invita al riutilizzo ed evita lo spreco, una modernità del vestire che non separa mai il bello dal buono, l’etica dall’estetica. «Penso che la coscienza ambientale sia il movimento di pensiero più forte emerso negli ultimi anni. Sta al tempo presente come la contestazione sessantottina alle idee allora dominanti. Non si può produrre il bello a scapito del pianeta che ci ospita, che è unico e che dovremmo consegnare il più possibile intatto alle generazioni che ci seguiranno, come dovremmo consegnare intatte, e più verdi possibili, le città che abitiamo, immaginando dimensioni del vivere più armoniche e a misura d’uomo».

Il processo di miglioramento continuo cui mira passa attraverso la catena produttiva, il coinvolgimento dei fornitori, la scelta delle materie prime, ma anche l’organizzazione degli eventi e tutta una serie di donazioni volte a beneficio delle aree verdi. Primi passi e primi tentativi, certo, soluzioni personali e non generali, ma ad avercene. «Per un uomo di successo come me, restituire non è una buona azione, ma un dovere verso la comunità, un imperativo cui non ci si può sottrarre. La società, intesa come unità globale degli umani, è come la natura; l’ambiente siamo noi, ci appartiene come noi apparteniamo a esso e dovremmo tutti fare in modo che il nostro passaggio sul pianeta non sia occasione di distruzione, ma di costruzione».

 

Per un dopo che, se lo vogliamo, potrà essere migliore per tutti. Il suo come sarà? «Detesto l’idea di mettere il punto e scrivere “the end”, ma mi rendo conto che farlo è necessario. Voglio che il frutto di tanta fatica, questa azienda alla quale ho dato tutta la mia vita e tutte le mie energie, vada avanti, a lungo, anche senza di me. Ho creato una fondazione e, a quanti si interrogano su questo scottante argomento, dico solo che il piano di successione l’ho preparato, che ci sarà un Armani dopo Armani, ma non lo rivelo adesso, perché ci sono ancora».