Frasi e parole su sacchetti di marchi di lusso diventano richiestissime opere cult. A Milano va in scena l’artista-architetto che spopola sui social e nelle gallerie

Pietro Terzini, l’artista di Instagram che trasforma le shopper in pezzi da collezione

Cose, parole, oggetti e il loro reimpiego. Se in una sorprendente mostra, “Recycling Beauty” alla Fondazione Prada di Milano, curata da Salvatore Settis con Anna Anguissola e Denise La Monica, è il silenzio delle parole a far sì che le cose prendano forza, nel mondo creativo e mai banale di Pietro Terzini, l’architetto-artista più popolare su Instagram e in quel suo specchio che è il presente reale, le parole si imbevono di senso e vanno oltre le cose stesse, superandole addirittura, se non migliorandole.

 

Classe 1990, nato a Lodi, Terzini ha conquistato in poco tempo Milano, la città dove vive, e con essa il mondo della moda e del design. Come? Scrivendo singole parole o frasi intere su sacchetti e packaging di brand di lusso per dare un significato geniale alla sua opera che emerge su quei loghi e colori riconoscibilissimi (il blu Tiffany, l’arancione Hermès e cosi via), fino a formare un tutt’uno che non li offusca mai. Un prodotto già esistente, un logo, una frase con doppi o più sensi che diventano così le sue espressioni, dimostrando appieno la tesi del Lavoisier secondo la quale ogni materia non può essere distrutta, ma solo trasformata. Subito dopo, diventano quelle di un pubblico che conosce certi prodotti, che li ammira e li desidera, che li osserva e, in alcuni casi, quando può permetterselo, li ottiene persino. «Mi sono laureato in Architettura al Politecnico, racconta lui, ho fatto un Master alla Bocconi e iniziato a lavorare prima in studi di archistar internazionali e poi, per sei anni, come Head of Digital nelle società di Chiara Ferragni, ma la mia vocazione è sempre stata creativa». Lo confermano anche i suoi genitori, la signora Gabriella e il signor Giulio, la sera dell’opening della prima personale organizzata da Glauco Cavaciuti nel suo spazio milanese, poco distante dal palazzo della Triennale. Si intitola “Shoppers” non certo a caso e presenta 52 nuove opere di Terzini, quadri di grandi e piccole dimensioni che vanno a raccontare la moda da un altro punto di vista: il suo. «Quando ero in ufficio vedevo sempre passare buste e scatole di grandi firme», aggiunge: «Tutto è iniziato dall’idea di donare nuova vita a un packaging che, da lì a poco, sarebbe andato nel dimenticatoio. Volevo fare qualcosa che potesse funzionare sui social media, ma, allo stesso tempo, che potesse essere anche fisico.

 

A casa avevo una camera molto bianca, prendevo quelle scatole e la arredavo. Una collega, con un fare un po’ inquisitorio, un giorno mi disse: perché le porti a casa tutte? Per salvarmi, presi al volo il coperchio di una di quelle scatole, la attaccai al muro, e le dissi: “Vedi, questo è un quadro”. Ho capito in quel momento che il packaging poteva essere qualcos’altro, ma non avevo ancora sviluppato un’idea su come poterlo rendere contemporaneo e appetibile, quindi condivisibile. In quegli anni Instagram stava esplodendo e in maniera naturale mi è venuta l’idea di giocare con le parole che sono l’elemento tipico dei meme da applicare su questo elemento fisico».

 

La prima a essere realizzata è stata la scritta con acrilico sui sacchetti di Vuitton: “The Best Things Are Not Things” (Le cose migliori non sono cose). L’altra cult è “Love didn’t meet her t her best/it met her in Hermèss”, nata da una foto fatta all’ingresso del cantiere del negozio in via Monte Napoleone a cui aggiunse quella scritta con l’iPhone. La più recente è “Lock Your Love” con i sacchetti di Tiffany dove le tre “o”, unite insieme, formano un nuovo prodotto della maison, ma ci sono anche “Prada from Nada”, “Gucci Gang”, “P-Etro” e una tela bianca con la scritta “You”, «che se la regali, spiega Cavaciuti, è il tuo tutto». «Terzini emoziona i ventenni come i collezionisti sessantenni», spiega. Il suo, aggiungiamo noi, è un gioco continuo tra essere e avere, spirito e materialità, grafica e concetto, provocazione e interazione, protagonisti assoluti di questi pezzi unici che non possono essere copiati, ma fatti di volta in volta. «I sacchetti li prendo ovunque, fuori i negozi o vicino la spazzatura quando non me li danno i miei amici. Sono la mia tela, la superficie su cui faccio qualcosa», precisa l’artista che oggi è anche un richiestissimo consulente strategico di marketing per brand e campagne pubblicitarie, con un profilo personale su Instagram e un altro, “Friday Fries” con frasi come: “Don’t follow the light be the light”.

Lo scorso Natale, sulla Torre Velasca, uno dei simboli dello skyline milanese, ha dato vita a un’opera ready-made con parole di luce sulla facciata che componevano la domanda “What do you really want? (cosa vuoi veramente?)”. La sua è un’arte d’immediata lettura che arriva velocemente a un pubblico più ampio, frutto di un’attenta osservazione della realtà in cui viviamo, un mondo globalizzato, consumista e interconnesso dove le griffe, grazie alla pubblicità e ai social, sono sempre più presenti nella vita delle persone, promuovono prodotti e stili di vita.

«Con il logo e il colore, quei sacchetti rappresentano l’identità del brand, ma anche i soldi spesi per comprare ciò che c’è dentro, il lavoro di chi l’ha prodotto, lo spirito con cui è stata comprata o regalata quella cosa. Io mi approprio di quell’involucro e così li decostruisco e li riattivo per descrivere in modo diretto e senza retorica la nostra contemporaneità». Alla fine, quindi, è più potente il sacchetto che ciò che c’è dentro e quel mondo lì è l’universo che rappresenta.

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