I mondi digitali sono sempre più accoglienti e percepiti come un rifugio. E, chiaramente, i pericoli sono aumentati. Ma dare la colpa ai nuovi prodotti è superficiale. Un documentario sui “Futuri probabili” punta il dito contro la precarietà esistenziale

Il fatto è che i videogiochi sono tra noi da più di quarant’anni. Ci sono da quando all’inizio degli Ottanta erano dei passatempi a cristalli liquidi, il cui compito rimaneva segnare l’ora esatta e ciò che veniva intorno, spesso piccoli puzzle o rompicapo, serviva giusto a distrarsi. Sono tra noi dai primi, enormi cabinati in stile monoliti, che anche in Italia radunavano giovani nelle sale da giochi, oggi rievocate pure con nostalgia. Pac-Man e Space invaders, cioè mattoni della cultura condivisa, erano videogiochi. E ancora: sono nei racconti incantati dei bambini che trovano il Sega Master System sotto l’Albero, cronache di un paese edonista, tre televisori per casa; nella pubblicità con Jovanotti del primo Nintendo, nel film d’avventura “The wizard” (1989) che è un romanzo di formazione di un ragazzino che diventa un prodigio di “Super Mario Bros. 3”, nel vincolo di sangue ‒ e siamo già nei Novanta ‒ tra amichetti che si vedono davanti ai joystick, all’ora dei compiti, in un culto diffuso e carbonaro, ché allora non erano mica alla moda. E sono nella Playstation (1995) che li rende cool, nella Wii (2006) che li trasforma in un affare per famiglie, nei “giochini” dei primi smartphone, là dove nel deserto di altre funzioni ricoprivano una parte fondamentale.

 

 

Eppure, anche se la storia dimostra il contrario, tuttora vengono percepiti come interesse esclusivo dei giovani, forse per la distorsione per cui il concetto stesso di gioco deve restare fuori da ogni vita adulta. E un po’ per pregiudizi, paternalismo, e un po’ per tutela vera e propria, la sensazione è che i ragazzi vadano protetti a prescindere. Si pensa ai bei ricordi, ma i richiami all’ordine c’erano già trent’anni fa, con genitori terrorizzati dall’idea che i figli perdessero tempo e fantasia davanti allo schermo, cacce alle streghe e demonizzazioni. E poi la violenza, con questi sparatutto che, si diceva, istigavano a una visione distorta della realtà, sempre con una pistola in mano. Chiaramente restano semplificazioni: di molti titoli è stata riconosciuta la portata artistica, e l’eventuale dipendenza che possono causare non è l’unica prospettiva da cui osservarli, anzi.

 

Però proprio la dipendenza è un fenomeno concreto, in crescita, tanto che nel 2022 l’Organizzazione mondiale della Sanità l’ha inserita ‒ la chiama “gaming disorder” ‒ nel manuale internazionale di classificazione delle patologie, con sintomi facili da immaginare: dalle conseguenze tipiche di qualsiasi dipendenza (abbandono degli studi, disinteresse per la socialità) allo sviluppo di ossessioni, stati d’ansia e depressioni, fino alla sedentarietà. Ne sono vittime in particolare i giovani, soprattutto maschi. Appunto: perché proprio adesso, è cambiato qualcosa rispetto a trent’anni fa? Qualcosa è cambiato, sì. E prova a spiegarlo un report della Fondazione Leonardo che sarà presentato il 24 agosto al Meeting di Rimini, con un documentario che raccoglie interviste a ragazzi ed esperti in stile “Comizi d’amore”. S’intitola “2030-2040 Futuri Probabili”, la ricerca è sostenuta da Intesa Sanpaolo, ha un compito più ampio e si chiede che adulti saranno quelli della generazione zeta e chi sta per entrare nell’adolescenza, ragionando su etica e visione del mondo in generale. Però non può prescindere dal gaming, che occupa una bella fetta della vita dei protagonisti dell’inchiesta, in un rapporto stretto e pressoché incomprensibile perfino per i videogiocatori più grandi.

 

A un certo punto del video, una bambina spiega come Minecraft, cioè un classico del genere che crea un mondo virtuale in cui ragionando “per blocchi” si può costruire tutto, possa stimolare la creatività e avviare qualcuno alla professione d’ingegnere. Non sbaglia, le opportunità ci sono. Però poi le si domanda: e se i videogiochi fossero anche capaci di farci percepire gli odori? Lei resta sbalordita: «Sarebbe bellissimo…». Il punto è lì.

 

Negli ultimi anni la dimensione virtuale, che copre concetti abusati che vanno dal metaverso fino ai social stessi, si è sviluppata sempre di più e sempre meglio. Da tempo si parla di “onlife”, il termine del filosofo Luciano Floridi che indica le nostre vite in cui le dimensioni online e offline sono finite per appartenersi a vicenda, e il confine tra l’una e l’altra è sfumato. Siamo partiti con gli smartphone, ora non si torna indietro e non ci resta che gestire. In un contesto del genere, ai videogiochi si è aperta una prateria: grafica, trama e profondità si sono evolute, ma in generale l’esperienza è diventata più immersiva, realistica, accogliente. Così, è scontato, è venuta fuori anche la malafede di molti sviluppatori, inseriti in un giro da miliardi di dollari e che con tecniche varie stimolano i neurotrasmettitori dei giocatori, alimentando quelle dipendenze da incidenti domestici, episodi di epilessia, difficoltà a gestire la rabbia e storie ragazzi costretti a frequentare ospedali per il recupero, come succede sempre più spesso negli Stati Uniti. Però non può neanche essere tutto ridotto a questo: è il discorso più vecchio del mondo, non è il videogioco in sé ma il modo in cui ci si rapporta al videogioco. E allora arriviamo al secondo aspetto della questione: per i giovanissimi la realtà virtuale è molto più attraente di quanto lo fosse per i loro coetanei vent’anni fa; e non è questione di qualità visiva o interazioni, la cui percezione è sempre relativa.

 

È un concorso di fattori, semmai. Li elenca per esempio Vincenzo Marino nel suo “Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z” (nottetempo), in cui prova a ricostruire il rapporto tra Internet e adolescenti di oggi, così diverso da quello delle generazioni precedenti e che ha garantito loro un altro sguardo sul gaming. Svanito l’effetto per famiglie della Wii e sotterrati i tempi in cui era un argomento di cui parlare a bassa voce, per molti oggi i videogiochi rappresentano una delle forme principali di intrattenimento. Titoli come lo sparatutto “Fortnite”, di cui si è detto già tutto, spesso sono imprescindibili nella loro dieta mediatica, e il fatto di poter giocare a distanza, tutti insieme, li rende delle piattaforme social in cui ritrovarsi o fare nuove amicizie, ora che per loro Instagram e Facebook hanno perso valore. Un po’ come quando, nei Novanta, s’invitava l’amico di scuola per giocare con il Super Nintendo. Stavolta però è più semplice e amplificato. Nessuno si muove da casa ma la ricerca di quel senso di comunità, che i millennial invece hanno perso, continua. Così un videogioco diventa un connettore sociale più che un modo per competere, e a volte si traduce in una sorta di ossessione per gli streamer, persone cioè che trasmettono le proprie partite a un determinato titolo, di solito tramite Twitch. A chi la osserva non resta che commentare e donare soldi per farla continuare, senza mettere mano al joystick. Cos’è, questo, se non sentirsi parte di un qualcosa di più grande, l’equivalente di quando negli anni Novanta si compravano le magliette dei propri gruppi preferiti?

 

C’è poi un altro tema, quello già trito per cui la generazione zeta è così diversa dalle precedenti e che ovviamente si rispecchia anche nel rapporto con i videogiochi. Accertato come in linea di massima siano ragazzi costretti a fare i conti con l’infelicità, i primi nati con il mito della decrescita incorporato e con l’idea di un futuro ‒ se di futuro si parlerà, dicono ‒ peggiore di quello vissuto dai genitori, costretti a proteggere la propria salute mentale più di chi era giovane nei decenni precedenti. La stessa “2030-2040 Futuri Probabili” dà voce a ragazzi che raccontano gli stati d’ansia quotidiani. Ecco, in un contesto del genere la realtà virtuale è un rifugio apparentemente sicuro, un luogo d’evasione dalla realtà. Poi, appunto, ci pensano le case produttrici che se ne approfittano e gli smartphone che hanno distrutto i confini a riempire di pericoli quella che potrebbe essere solo una normale caratteristica generazionale. E ancora, come sempre, verrebbe da pensare che i ragazzi, per quanto svegli, non hanno gli strumenti per orientarsi e difendersi, e andrebbero protetti. Però poi ci siamo noi, noi grandi, con i nostri sguardi persi nei telefoni. E allora si capisce perché stavolta è così difficile salvarsi.