Una ragazza torna a casa dalla madre. Un enigma. I figli immaginati e i dialoghi interrotti. È “L’età fragile”, il nuovo romanzo della scrittrice abruzzese. Un inno alla forza con parole nuove

Il romanzo “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio inizia immerso nel silenzio di una mattina. Una donna si alza, è in casa sua, ma il disordine che trova in salotto le ricorda di non essere più sola. Sua figlia è tornata a casa e lei inciampa nelle sue tracce: del pane sbocconcellato, un libro, una coperta ammucchiata in un angolo. Amanda è ancora a letto, ma sua madre non vuole svegliarla. Le prepara la colazione: biscotti, latte, una tazza dei tempi dell’adolescenza. Usa gesti titubanti, non sa se tanta solerzia sarà apprezzata, ogni domanda irrita la figlia, quella figlia che è sempre magra, che è sempre imprevedibile. Vibra nelle prime pagine di questo libro una dolce distanza.

 

Leo Spitzer, grande linguista del secolo scorso, nel suo “Piccolo Puxi. Saggio sulla lingua di una madre”, descriveva la lingua fatta di suoni ed emozioni che la moglie aveva inventato per il figlio appena nato. In questo miracolo linguistico il piccolo Wolfgang era diventato Puck, Pückchen, Pucksi, Puxi; ma anche Bübi, Mausi, Katzi... Tutti noi lo facciamo: accumuliamo per i nostri bambini nomignoli, sinonimi non-sinonimi che sono una specie di accerchiamento progressivo, un modo per dire con la maggiore approssimazione possibile quel sentimento che sfugge da tutte la parti e non riesce mai a essere contenuto in un solo nome.

 

Qui non ci sono soprannomi, né nuovi nati: ma una figlia universitaria, che è tornata in Abruzzo da Milano con la vita tutta storta, tutta diversa da quella che i suoi genitori avevano immaginato per lei. Sì, immaginato. Ogni figlio è prima di tutto un atto di immaginazione, è fatto di parole ancora prima che di carne. Abbiamo scelto il suo nome, ci siamo figurati il suo aspetto, abbiamo scommesso sulle sue doti caratteriali. E poi, dopo che è nato, continuiamo a tessere la trama della sua vita. Dai nomignoli all’età adulta. Si laureerà? Si sposerà? Avrà dei bambini? «I figli sono fantasmatici», dice Donatella Di Pietrantonio: «Sono prima di tutto figli sognati». Sono esseri letterari.

 

Ma la vita non è letteratura, non rispetta le regole, prende sempre altre strade. Dalla distanza tra i nostri figli immaginati e quelli veri nascono tutte le incomprensioni, tutti i singhiozzi della comunicazione tra generazioni. È soprattutto di questo che parla il romanzo: della fragilità dei rapporti che si snodano tra non detti e dialoghi spezzettati; del dolore infuocato che scaturisce da una quotidianità domestica. Della vita di noi tutti.

 

Lucia in queste prime pagine scrive un biglietto alla figlia che tra poco si sveglierà: oggi sto dal nonno. Poi aggiunge un cuore che subito cancella. È un gesto preciso che racconta di un pudore. E il pudore è la titubanza del dialogo, è il desiderio di una connessione che si stenta a trovare.

 

«Anch’io ho cancellato qualcosa lì mentre scrivevo. Lucia cancella il cuore perché Amanda lo avrebbe trovato infantile, ma ho tolto quella frase», racconta l’autrice. I non detti che sono sostanza tematica di questo libro, lo sono anche in chiave stilistica. Con la differenza radicale che il non detto in letteratura arricchisce la pagina: suggerisce invece di dire, sfuma per ampliare il senso di quello che si sta rappresentando. La grande scrittrice americana Flannery O’Connor non si stancava di ripetere che la letteratura non deve mai spiegare l’esistenza, ma deve far sentire il mistero della vita. E Donatella Di Pietrantonio ci riesce benissimo.

 

La figlia Amanda torna a casa ed è un enigma. Lei che aveva tanto voluto vivere a Milano per studiare, lei che vedeva nella grande città il propulsore dei suoi desideri, ha deciso di tornare: tutto chiuso, tutto finito, basta esami, basta coinquiline. Ma senza vere spiegazioni, senza frasi urlate: la sua è una ritirata. Amanda ci appare come il protagonista di un racconto di Kafka che nella sua tana sotterranea scava percorsi ritorti su loro stessi e diramazioni che portano a vicoli ciechi per difendersi dal mondo esterno, fino a fare della tana un labirinto, abisso dentro l’abisso, un’ossessione. O almeno noi lettori pensiamo sia così. «Lucia non sa come penetrare il silenzio di questa figlia che ritorna diversa, che si chiude in camera e porta con con sé un disagio, l’interruzione di un percorso di vita di cui non parla», racconta l’autrice. Prima di tutto c’è lo sbigottimento di Lucia, lo spaesamento di questa madre di fronte a una figlia che non le ha mai dato pensieri ma ora sembra diversa - ora è “spenta.” Dalla filosofia abbiamo imparato che l’altro è inconoscibile, ma non riusciamo ad accettare che inconoscibili siano i nostri figli. La loro afasia suona come il rifiuto della narrazione che abbiamo intessuto per loro. Ancora una volta l’incomunicabilità si fa nel silenzio, che è asciuttezza stilistica, equilibrio alchemico di un’autrice che dice solo il necessario.

 

Anche il fatto di cronaca nera a cui il libro ritorna – un femminicidio avvenuto trent’anni prima al Dente del Lupo, porzione di montagna dove la famiglia di Lucia ha una proprietà – può essere letto come il male a cui può portare l’incomunicabilità tra le persone.

 

Il libro di Donatella Di Pietrantonio parla alla nostra vita e alla letteratura; è pieno di cortocircuiti con scrittrici come Marilynne Robinson o Elisabeth Strout. In “Mi chiamo Lucy Barton” di Strout, una scrittrice viene ricoverata per un’operazione. Un giorno l’anziana madre la va a trovare. Si ferma con lei e le racconta storie per tutta la notte, riempie il silenzio con le sue parole. Tuttavia, l’incontro con la madre non è mai facile: in questo caso è l’incontro con un passato di povertà e privazioni che lei vorrebbe dimenticare. Mamma mi vuoi bene?, le chiede la figlia ad un tratto, e la donna non risponde. Per una volta tace. Non è disamore: semplicemente non ha le parole che dicono i sentimenti, perché ci sono vite che si fanno solo nella concretezza e non hanno tempo di badare a quello che abbiamo dentro. Eppure, la figlia ne è felice; felice di averci scherzato su, di essersi per una volta avvicinata all’argomento. Nel romanzo di Di Pietrantonio, è lo stesso per il padre di Lucia. Un uomo che è tutt’uno con la terra scabra e ruvida in cui è nato e vissuto, che non conosce il linguaggio dell’affetto, non abbraccia, non fa carezze. Dei suoi genitori Lucia dice: «Mi hanno concepita restando muti, lui per ignoranza, lei per pudore».

 

La fragilità che si trova nel titolo non è solo dei singoli, ma anche quella dei rapporti tra le persone, attraversati talvolta da un lessico mancato. «In alcuni luoghi è tale l’inibizione dei sentimenti, che i dialetti sono privi di alcune parole», dice Di Pietrantonio. «Anni fa ho fatto l’elenco di tutti i termini dialettali che indicavano le varie forme della zappa: ne ho contati dieci. Ma non c’è una sola parola per dire amore».

 

Il romanzo di Donatella Di Pietrantonio è per contrasto un inno alla forza che è sempre e solo conoscenza e contezza della fragilità, la propria e quella degli altri. L’ammissione della fragilità in tutto il suo spettro prismatico – che solo la letteratura riesce a mostrare – ci riconcilia con il nostro essere umani. Con la nostra empatia e con la possibilità di riprendere un dialogo interrotto.