Protagonisti
La mia vita in concerto
Il secondo album di cover, il tour negli Usa, i live negli stadi italiani nel 2025. E un mare di ricordi. Il bluesman emiliano racconta quando scoprì Bocelli, gli incontri con De Gregori e Miles Davis. E un sogno impossibile: “Un duetto con Amy Winehouse. Sono un grande fan”
Vado in America, vendo il ghiaccio agli eschimesi». Scoppia a ridere Zucchero alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti, destinazione West Coast, Las Vegas e Arizona. Mentre prepara le valigie ha una gran voglia di parlare dalla sua rigogliosa tenuta, nome d’arte Lunisiana Soul, un po’ Lunigiana un po’ New Orleans in omaggio al sincretismo professato dal proprietario. Sono più di quarant’anni, infatti, che il cantautore emiliano vende il ghiaccio, ovvero il blues, agli americani, e non gli passa neanche per la testa di smettere. La prima volta nel 1983, all’epoca dell’ album di esordio in studio “Un po’ di Zucchero”, in viaggio verso San Francisco incontrò Randy Jackson, che di lì a poco entrò nella sua band. Prima che cominciasse la girandola infernale di concerti in tutto il mondo, album su album, duetti illustri. Ora, dopo il successo del tour mondiale e il secondo album di cover “Discover II”, nel 2025 tornerà in Italia negli stadi con la serie di live “Overdose D’Amore” (a giugno, il 19 ad Ancona, il 21 a Bari, il 26 a Torino, il 28 a Padova e a Roma in data da definire).
Zucchero, a quasi settant’anni c’è ancora spazio per emozioni impreviste sul palco? «A me piace il rituale del concerto, l’attesa di quattro o cinque ore prima di salire sul palco. Vivo insieme alla band e alla crew, ottanta persone che si spostano tutti i giorni. Ho la fortuna di avere musicisti con me da molti anni, posso cambiare scaletta all’ultimo momento. Mi capita di chiedere alla band: “Ricordate questa canzone?” e suonare un brano dopo diversi anni».
L’album “Discover II” è il secondo progetto di cover della sua carriera. Ha reinterpretato brani molto diversi tra loro, dal dantesco “Amor che muovi il sole”, cover di “My own soul’s warning” dei The Killers a “Acquarello”, uno dei più noti di Toquinho. Difficile collegare i punti. «C’è un filo che lega queste canzoni, le ho scelte da una selezione di 500 che avevo fatto durante il Covid. Brani che ho amato, che avrei voluto scrivere o interpretare io fin dai tempi in cui suonavo il sax tenore a tredici anni. Tutti hanno un sottile velo di malinconia, parlano d’amore ma anche d’altro come “Inner city blues” di Marvin Gaye, sul denaro che corrompe tutto. Oppure “Amor che muovi il sole”, che amo molto e ho adattato in italiano, o un’altra di una giovane band americana, i Bleachers, oppure “I see a darkness”, che parla di due amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Dentro ogni canzone c’è la mia vita».
A un ascolto più approfondito ha scoperto dettagli sorprendenti?
«Con “Knocking on heaven’s door” sono stato indeciso fino all’ultimo. Quando tocchi canzoni di un mito come Bob Dylan meglio attenersi al detto “vola basso e schiva il sasso”. L’ho fatta perché ho immaginato un film western con la musica di Ennio Morricone, con un arrangiamento del tutto diverso da qualunque versione mai realizzata. Per scegliere una canzone non basta che ti piaccia una melodia, deve far parte di te».
Ha fatto anche “Moonlight shadow” di Mike Oldfield e Maggie Reilly con sua figlia Irene alla voce.
«Irene era destinata a diventare veterinaria. Studiava all’università, anch’io se non avessi fatto il cantante avrei fatto il veterinario, ho dato più di trenta esami all’università di Pisa. Ho mollato perché mi ero sposato giovane e avevo bisogno di soldi. Una passione, quella per gli animali, che mi porto dietro. Abito in una fattoria con tutti gli animali domestici possibili e immaginabili. Non vivono in stalle ma in villette a schiera (ride) e mangiano le cose che coltiviamo nei campi. Passo le mie giornate migliori con i contadini».
Nella sua carriera ha duettato con tanti big internazionali, come emerge dal film documentario “Zucchero – Sugar Fornaciari” (2023) di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano. Tra i musicisti intervistati nel film, che lei conosce perché avete collaborato, prendiamo Bono, Sting e Andrea Bocelli. Perché dovremmo essere loro grati?«Conosco tutti da più di trent’anni. Non ci lega solo il fatto artistico, ma anche la chimica come esseri umani. Bono ha detto di essere molto orgoglioso per aver scritto quattro canzoni con me, raramente scrive
per altri, ha aggiunto che quei brani sono il rovescio della medaglia di quelli degli U2. È rimasto schietto, genuino. Invece Sting mi ha chiesto di essere il padrino di battesimo di sua figlia Coco. Tutti gli anni ci vediamo due o tre volte, abito a un’ora dalla sua casa in Toscana. Anche lui è un gentleman e “straight”, sen-za troppi fronzoli. Dei Police adoro “Every breath you take” e di lui solo trovo bellissime “Fragile” e “Fields of gold”. Hanno accompagnato la mia vita».
E Andrea Bocelli?
«L’ho scoperto che faceva piano bar in provincia di Pisa ma sognava di fare il tenore. Dovevo presentare il pro- vino a Pavarotti per “Miserere”, avevo bisogno di una voce. Tra i vari giovani tenori ho scelto lui. Volevo met- tere il pop insieme alla lirica e in quel periodo ero un po’ depresso, l’unico che mi faceva stare bene era Puccini. Il grande mercato di Bocelli è l’America, che vede in lui il belcanto italiano. Io faccio tutto un altro percorso: vado in America ad attingere alla musica afroamericana».
Anche i Rolling Stones vendevano il blues agli americani...
«Certo, gli Stones erano seguaci di Muddy Waters e di altri padri del blues afroamericano, ma lo facevano tutti. L’hanno ammesso anche i Beatles, Eric Clapton, i Led Zeppelin. Non c’è niente di male, hanno aggiunto il tocco british alla musica afroamericana. Ma io faccio lo stesso: quando dicono: “Zucchero fa il blues”, andiamoci piano. Ma non perché non sia in grado di farlo, so di saperlo fare perché ho suonato con Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck, ma anche con Solomon Burke, Ray Charles, Johnny Lee Hooker. Dunque andiamoci piano: il rock italiano non esiste, così come non esiste il blues italiano. Siamo sinceri: il blues è fatto da dodici barre, tre accordi. Dire che esiste il blues italiano equivale a sostenere che Casadei fa i valzer viennesi solo perché la sua musica è in tre quarti. Strauss è una cosa e Casadei fa i valzer, ma romagnoli. Per le mie canzoni attingo all’America ma improvvisamente arriva una melodia orgogliosamente italiana. Me lo disse a suo tempo Miles Davis, all’epoca della prima collaborazione per “Dune mosse”. A cena continuava a dirmi: “You have to sing in italian because you are different”, “devi cantare in italiano perché sei diverso da tutto il resto”».
A proposito di big, non tutti sanno che il testo di una delle sue canzoni più famose, “Diamante”, è stato scritto da Francesco De Gregori. Come andò?
«Volevo parlare di mia nonna Diamante, era sempre con me, un riferimento importantissimo. I miei lavoravano, li vedevo solo a cena. L’ho amata, era una donna non tanto alta, con gli occhi azzurri, tutta vestita di nero come una volta. Dava da mangiare alle galline, mi raccontava storie della guerra quando andavamo per i campi, aveva perso un figlio e un altro era stato deportato in un campo di concentramento. Mi sono detto che se avessi scritto un testo su mia nonna in prima persona – avevo già il titolo, “Diamante” – avrei rischiato di scrivere una canzone patetica, cerco sempre di evitarlo. Adoravo De Andrè, ma purtroppo non stava già bene, restavano Guccini e De Gregori. L’ho chiesto a quest’ultimo, mi sembrava il più adatto. Lui mi ha domandato: “Sì, ma di cosa vuoi parlare?”. “Una cosa tra la vita e la morte”, gli ho risposto, perché mia nonna nel frattempo se n’era andata. All’ultimo momento ho trovato una vecchietta emiliana in campagna e le ho fatto dire una frase che diceva sempre mia nonna: “Delmo, Delmo vin a’ ca, Delmo”, quando mi chiamava per farmi tornare a casa mentre giocavo a pallone vicino alla chiesa e veniva l’imbrunire. Lui ha capito perfettamente, ci siamo incontrati nello studio di registrazione a Modena. Si è ritirato un paio d’ore con una birra, era estate, poi è tornato con questo testo straordinario. Abbiamo corretto insieme qualche frase e così abbiamo fatto la canzone. Lui aveva scritto “fiorai” nel testo, gli ho detto che non vado a comprare fiori alle donne, non l’ho mai fatto in vita mia, la parola “vinai” mi sembrava più attinente».
La sua vita non è stata sempre un letto di rose. Per lei il successo è arrivato dopo tanta gavetta quando tutto sembrava impossibile. Contro chi ha dovuto combattere?
«Mi sono sentito molto spesso come un gobbo a letto o come in tre su una seggiola, come dicono in Emilia. Come tanti colleghi, Sting o Bono, soldi fregati da pseudo-amministratori. Ho dovuto combattere molto contro l’arroganza, la presunzione, l’egocentrismo di certe persone. E contro la depressione quando mi sono separato. È durata tre anni, non volevo assolutamente sfasciare la famiglia, ero e sono molto legato alle mie figlie».
Nell’Italia di oggi la depressione è ancora un tabù. La musica italiana ha ancora paura di parlare di certi argomenti?
«I giovani si riempiono di tatuaggi, hanno paura di ammettere le proprie fragilità. Si mostrano sicuri di sé, come macchine da guerra. E invece li trovo molto fragili».
Le giovani artiste sono più capaci di mostrare la propria vulnerabilità.
«Sì, certo. Se si spogliassero meno sarebbe meglio (ride)... Sembra un discorso da bar, ma è un argomento serio, ci sono altri modi per far passare un messaggio. Non voglio fare il bacchettone, ho sempre parlato di sesso in maniera esplicita nelle mie canzoni, basti pensare a “Solo una sana e consapevole libidine”. Anche “Succhiando l’uva”, che ho scritto per Mina, parlava di sesso, ovviamente non volgare».
Ha conosciuto tanti artisti, con chi vorrebbe collaborare ora?
«Amy Winehouse. Sono stato un suo grande fan, purtroppo non l’ho mai conosciuta, era un’artista incredibile. Peccato non ci sia più, le nostre voci si sarebbero integrate bene».