Platee internazionali
Il regista africano che combatte contro i luoghi comuni e porta Antigone in Nigeria
Platee internazionali
Il regista africano che combatte contro i luoghi comuni e porta Antigone in Nigeria
Femi Osofisan è uno dei più importanti intellettuali e scrittori del continente nero. Il suo teatro, ben noto all’estero ma ancora poco in Italia, abbatte cliché. E porta avanti battaglie femministe e anticolonialiste
È affascinante sentire una inedita Antigone, chiamata Tegonni, parlare Yoruba, e interrogarsi sul colonialismo; oppure scoprire “Le Troiane”, il mito raccontato da Euripide, nel leggendario regno ottocentesco di Owu; o trovare un Amleto non più principe danese, ma calato nelle tensioni della Nigeria contemporanea. L’autore di queste opere, e di molte altre, è il pluripremiato Femi Osofisan. Classe 1946, dopo gli studi a Ibadan, Dakar e Parigi, Osofisan si è imposto come drammaturgo, regista, scrittore, critico e docente universitario. Ma soprattutto come uno degli autori più autorevoli in un vasto movimento di scrittori e scrittrici africani che stanno innovando la scena teatrale internazionale, ma ancora troppo poco quella italiana. Anche tra gli addetti ai lavori, infatti, l’Africa è un continente (teatrale) poco conosciuto: possono risuonare i nomi di Wole Soyinka, premio Nobel 1986, o forse quelli dei sudafricani Athol Fugard o Can Themba, ma poco altro. Vale la pena, quindi chiedere a Osofisan quale sia la situazione oggi.
«La drammaturgia africana è decisamente robusta. Soyinka, Fugard e altri sono stati i pionieri che hanno gettato le basi del nuovo teatro africano, con le primissime produzioni in inglese, e hanno stabilito i parametri del genere, favorendo anche una drammaturgia orale, in lingue indigene, in particolare nelle tre lingue principali Hausa, Igbo e Yoruba. I primi successi del nuovo teatro incoraggiarono la neonata Università di Ibadan a istituire, alla vigilia dell’indipendenza del 1960, una Scuola di Recitazione che presto sbocciò in un vero e proprio Dipartimento di arti teatrali. Pertanto, all’inizio degli anni Sessanta, la “generazione Soyinka” è stata rapidamente seguita dai drammaturghi della mia generazione, a sua volta affiancata dalle nuove generazioni. Potrei fare un lungo elenco di nomi di autori e autrici: e non si può non rimanere colpiti dalla quantità ma anche dalla qualità della drammaturgia nel nostro continente. È importante ricordare che la popolarità del teatro è cresciuta tra il pubblico quando ne abbiamo fatto una piattaforma per dare voce alle proteste politiche».
In Nigeria, la creazione teatrale si è da subito intrecciata con le scottanti questioni politiche e sociali, in particolar modo dopo 1966, quando cadde il primo governo civile e i militari presero il potere. «Scoprimmo – ricorda Osofisan – che stavamo cadendo dalla padella nella brace. Il cosiddetto regime “correttivo” è stato in breve tempo smascherato come una cabala insensibile e opportunistica di “messia” ladri. Fu a sua volta rovesciato da un altro gruppo militare, presto rivelatosi altrettanto dannoso. E così è iniziato un gioco che sarebbe durato per i successivi tre decenni: un regime di bucanieri militari succedeva a un altro, con i civili ridotti a sventurate vittime. Il teatro divenne inevitabilmente l’unica via in cui si potevano esprimere critiche contro i tiranni. Per me e per alcuni miei colleghi, con una strategia che ho definito “insurrezione clandestina”, la scena è diventata il luogo per smascherare e combattere la cleptocrazia dei soldati ed essere una voce di protesta a nome dei nostri compatrioti repressi».
Una bella lezione etica e artistica che oggi rischia di passare nel dimenticatoio. Chiamato in causa, stavolta, non è il governo, semmai l’industria cinematografica, ovvero il capitalismo in una delle sue più efficaci declinazioni. Femi Osofisan si interroga con amarezza sul fenomeno “Nollywood”, ossia la Nigerian Hollywood di Lagos, diventata una inarrestabile macchina produttiva: «Il nostro successo ha portato a un paradosso: da un lato, ha suscitato un aumento di interesse per il teatro, soprattutto tra i giovani. Sono tanti gli studenti che ogni anno affollano le accademie per studiare recitazione. D’altra parte, il beneficiario finale di questa esuberanza non è più il teatro in sé, ma la sua propaggine, l’industria cinematografica. Nollywood è un business multimiliardario, ed è una calamita irresistibile per i giovani. Non è difficile indovinare come sarà la scena futura: il successo economico, e non l’impulso ideologico, sarà la forza dominante della creatività».
Eppure, il teatro non ha perso la sua natura politica, traendo forza anche dal mito classico greco. Nella produzione di Osofisan spiccano adattamenti di tragedie ma anche un confronto con l’opera di Shakespeare. Perché? «Io sono Yoruba – dice Osofisan – e la cultura yoruba è soffusa di mito. Ogni aspetto della vita, da quello più banale a quello più elevato ed esoterico, è avvolto dalla mitologia, come è stata l’antica vita greca. È interessante il modo in cui alcuni Dei greci sembrano replicare le Divinità yoruba e come sia necessario un attento esame per notare le differenze. Tuttavia c’è una ragione più profonda per queste “escursioni” nella mitologia classica. Il fatto è che forniscono una comoda cortina di fumo affinché i drammaturghi possano criticare la società e le forze dominanti. Un’opera teatrale su un tiranno greco chiamato Creonte può evocare in realtà il mercenario al potere, e l’ambientazione nell’antica Grecia può essere riconoscibile dal pubblico come una metafora del proprio mondo. Così, lo spettacolo esprime l’angoscia contemporanea e condanna le malefatte del regime al potere: il dramma di Antigone ne è un esempio».
Diversa, invece, la prospettiva che ha spinto Osofisan a ricreare il personaggio di Amleto nel contesto Yoruba: «Sono rare le opere teatrali disponibili per cast misti, in cui sia attori bianchi che neri possono avere ruoli ugualmente rispettabili. Abbiamo testi con parti forti per attori bianchi, ma ruoli secondari subalterni e umilianti - cameriere, servi, clown - per gli attori neri. Molti registi, in nome della diversità, hanno assegnato deliberatamente ad attori neri alcuni dei personaggi originariamente bianchi del Bardo. Sta a noi drammaturghi, invece, far emergere nuovi testi in cui attori neri possano avere ruoli altrettanto stimolanti, robusti e emozionanti di quelli bianchi».
In Italia il teatro è ancora fatto da bianchi per platee bianche. «Mi sembra un peccato che l’Italia non si confronti di più con il teatro nigeriano, ma è comprensibile: la Nigeria è una creazione dell’era coloniale britannica, ed è circondata da Paesi francofoni. Pertanto i nostri collegamenti tendono ad essere principalmente con la Gran Bretagna e la Francia». Nell’eterna dialettica tra la cultura del paese colonizzante e quella del Paese colonizzato, esplode in tutta evidenza anche un tema linguistico: il fatto che un autore nigeriano si esprima nella lingua degli ex-colonizzatori: «Questa domanda è stata posta tante volte. Ebbene, la risposta è semplice: adottiamo e adattiamo le lingue. Ciascuno dei nostri paesi è un amalgama di numerose lingue e culture indigene – solo la Nigeria ha più di 500 lingue! – e questo fa sì che la lingua coloniale, imposta ed ereditata, sia l’unica che ci unisce. Per questo, i nostri leader hanno deciso che sarebbe stato più pragmatico mantenere le diverse lingue e sviluppare una lingua franca nazionale invece di correre il rischio di provocare un’insurrezione con la scelta di una lingua locale a scapito delle altre. Il risultato è che, dopo oltre mezzo secolo, l’inglese è diventato una lingua nigeriana».
L’ultimo tema da affrontare con Osofisan è la questione femminile. Nel suo teatro si avverte una sistematica attenzione alle figure femminile. Come può il teatro contribuire alle battaglie femministe? «Tutta l’arte, non solo il teatro, può avere un impatto significativo sul pubblico e incidere sul carattere morale della società. Questo è ciò che abbiamo ereditato dai nostri narratori tradizionali e dai griot. E io sono consapevolmente erede e promotore di questa tradizione. In secondo luogo, sono un professore universitario, responsabile della crescita degli studenti, sia uomini che donne. Le nostre società tradizionali, sotto la pressione degli evangelisti cristiani e musulmani, sono diventate in gran parte patriarcali, ma non lo erano originariamente. Le scuole moderne ci hanno insegnato la cultura europea, in cui la donna era gravemente discriminata. È necessario decostruire questa visione della storia e della società, ed è quanto cerco di fare nelle mie opere. Prendo sempre i miei studenti, giovani e vivaci, come primi spettatori. E sono attento a mostrare loro che nessuno è inferiore o superiore dell’altro a causa del genere: spero sia una strada per costruire un nuovo immaginario».