Le gaudenti note

Impauriti, bolliti, falliti ma uniti: gli antieroi della Generazione Calcutta

di Gino Castaldo   18 luglio 2024

  • linkedintwitterfacebook

Fratellanza, condivisione e disperazione. La canzone che chiude il concerto del cantautore romano traccia un dolente ritratto di gruppo

Il concerto Calcutta lo chiude con un pezzo che non può essere stato messo lì a caso, come del resto vale per tutto quello che fa, anche se lo fa con l’indolenza strafottente di chi vuole a tutti i costi sembrare quasi casuale, un incidente per caso. E invece a guardare bene si scopre che nel suo universo pop Calcutta fa molto bene anche lo sporco lavoro del cantautore come lo si intendeva una volta, ovvero la capacità di entrare nel tempo che stiamo vivendo, e magari anche dirci quello che siamo, interpretare le emozioni collettive e via dicendo.

 

Un esempio? Proprio la canzone che chiude il suo concerto, e raccogliamo l’idea anche da alcuni commenti social seguiti al suo concerto romano, tra cui uno splendido post firmato Kinechia che parla esplicitamente di un racconto che sotto sotto inquadra bene un destino generazionale, o almeno una rilevante parte di questo.

 

La canzone è “Tutti”, e inizia mestamente così: «Ho messo le scarpe nuove per i giorni di fango, forse i leghisti lì in riva al Po non hanno più un capobranco, fuori la rivoluzione ed io mi vesto di bianco, vorrei tenerti la mano un po', scusa, ma sono stanco», e già come finale di concerto sembrerebbe singolare, se non fosse che la canzone procede per gradi fino all’idea di parlare di tutti noi, e affonda con «e gli altri si perdono come niente, e poi si ritrovano in un'altra città, sembra un'eternità, sembra una vita fa, e tu come stai? Che cosa fai? Io coi piedi nel mare e soltanto a pensare che sembriamo tutti falliti, tutti falliti», e poi si ripete, ad libitum, diventa un inno strascicato e dolente che accompagna la chiusura della serata con un perentorio «che sembriamo tutti impauriti, tutti bolliti, tutti falliti».

 

Duro, ma dolcemente autoironico, l’autore non giudica, si mette in mezzo agli altri, ed è il primo a sentirsi impaurito, bollito, fallito, definendo molto bene un generale sentimento di confusione, di perdita, di smarrimento, esattamente all’opposto del Battiato 1981 che fece cantare a tutta Italia «cerco un centro di gravità permanente», perché era vero che il Paese aveva bisogno di un centro intorno al quale orientarsi, ma c’era tutta la voglia di farlo, c’era un Paese che voleva voltare pagina e respirare nuova energia.

 

Oggi al contrario è difficile immaginare visioni celestiali nell’immediato futuro, forse è più vero che molti, almeno i più sensibili, i più attenti, si sentano più che altro bolliti, falliti. Alla fine del concerto, il più onesto, malinconico e veritiero dei saluti.