Momento d'oro per Zoe Saldana, vincitrice dei Golgen Globe prima e ora in corsa agli Oscar per Emilia Pérez. Una storia che ha dentro fatica, talento, riscatto. E tanto della sua biografia.

So che in teoria si tratta di una competizione, ma ho visto solo donne supportarsi l’una con l’altra e non posso che ringraziarle. Come ringrazio la mia famiglia, mia madre, le mie sorelle, mio marito e i miei figli». Non se lo aspettava proprio il Golden Globe Zoe Saldana, all’anagrafe Zoë Yadira Saldaña-Perego, che ha lasciato il certo per l’incerto, la carriera sicura e strapagata in blockbuster come “I Guardiani della Galassia”, “Avatar” e “Avengers” per l’azzardo di un musical d’autore in spagnolo come “Emilia Pérez” di Jacques Audiard, presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes. Da allora a oggi è stato tutto un moltiplicarsi di complimenti e riconoscimenti, la conferma che il suo rischiare è valso la pena e la carriera: oggi spicca nella rosa delle cinque nominate all’Oscar per la sua performance proprio in “Emilia Pérez”, film che ha conquistato 13 nomination e l’ha catapultata dritta nel suo passato. «Ho ripensato a quando non ero nessuno, facevo dei lavoretti per arrivare a fine mese (è stata cassiera di fastfood, ad esempio, ndr), vivevo mille difficoltà e non avevo chi credesse in me».

 

È esattamente quello che succede al personaggio che ha scelto di interpretare, l’avvocata battagliera Rita, di raro talento eppure sfruttata, svalutata, sottopagata. La sua grande chance professionale, che tuttavia sovverte ogni sua regola morale, arriva da un narcotrafficante che la chiama per un’operazione delicata: intende cambiare vita e identità, e le chiede un sostegno, legale e non solo. «Non era sfidante solo la storia, ma anche il modo in cui ci è stato chiesto di interpretarla. Le canzoni e le coreografie erano complesse, eppure imprescindibili per raccontare a fondo le emozioni dei personaggi. Tornare a ballare come facevo da ragazza mi ha fatto riconnettere con parti di me che inconsciamente mi ero lasciata alle spalle, e girando il film ho compreso quanto mi mancassero».

 

La sua voglia di emergere come attrice nasce da lontano: «Devo tutto a mia nonna che metteva dei soldi da parte per portarmi a teatro o al cinema quando ero piccola e mentre camminava, con la sigaretta in mano, mi diceva: “Zoe, tu un giorno sarai lì”». E lei rispondeva diffidente, con un “Nonna, ma che dici?”: solo oggi si rende conto di quanto «l’andamento delle cose segua uno strano cerchio della vita, sta a noi trovare un modo per cogliere le opportunità e far emergere le nostre capacità». Qual è stato il suo, di modo? «La forza di volontà fortissima, incrollabile, di togliere il pilota automatico e uscire dalla mia zona di comfort».

 

Non ha nessun rimorso riguardo ai film di successo diventati franchise che ha interpretato: «Zero ripensamenti, nessun rimpianto, e di certo non li rinnego: mi ha dato tanto lavorare con professionisti pazzeschi, ma sono progetti che tolgono tanto tempo, e a un certo punto della mia vita, da donna di mezza età quale sono, ho iniziato a sentire l’esigenza, quasi l’urgenza di confrontarmi con altro». Così ha preso carta e penna e scritto una lista dei registi con cui le sarebbe piaciuto lavorare. Audiard era in cima alla lista, racconta ai Women in Talk di Kering: «Amavo le sue storie, specie questa, in cui mi era richiesto di mettere in discussione i miei pregiudizi e il mio senso di umanità: la domanda-chiave del film è: «esistono davvero persone che non possono redimersi e cambiare?». La bellezza di questa storia, secondo lei, sta proprio nel raccontare «donne danneggiate che non sono vittime e non sono perfette, ma vivono un contesto complicato e alla fine risultano in grado di prendere le loro decisioni contro tutto e tutti». Si è posta tante domande, ad esempio «sul perché la mia Rita aiutasse un criminale, su cosa fosse giusto o sbagliato, e poi su cosa meritasse, su cosa volesse. Come tante donne desidera tutto quello che non ha mai avuto, cioè potere, soldi, bellezza, successo, ambizione e spezzare le catene che la tengono da troppo tempo ferma e frustrata». Parte così, poi compie un viaggio di consapevolezza: «Oggi posso dire che sono fiera di aver interpretato un personaggio così complesso, è stato un dono. Sono americana, ma lo spagnolo è la lingua con cui sono cresciuta, quella con cui mia madre mi cantava le ninna nanne. Riparlandolo in scena sono riuscita a riscoprire le mie origini ed esserne orgogliosa». Com’è fiera di aver interpretato «una donna disperata che fa parte degli invisibili che, da afro-latina, quale sono, conosco bene. Non essere nato in un certo Paese può essere un problema, per come vieni guardato e trattato, perché sei immigrato, perché hai una carnagione più scura. Tutti noi Latini siamo così e viviamo le stesse cose, soffrendo della mentalità colonizzatrice che c’era 500 anni fa e che in alcune parti del mondo resiste ancora».

 

Quanto al Messico, Paese in cui il film è ambientato e che oggi è al centro del mirino della politica trumpiana, Saldana dice: «Vivo da vent’anni a Los Angeles, ma sono molto legata al Messico, i miei parenti vivono ancora lì. C’è tanta corruzione, ingiustizia, criminalità, è tutto vero, ma credo sia un problema di tutti i Paesi del mondo. Il bello del nostro film è che non ha nessun intento di denuncia, ma piuttosto di celebrazione sincera verso una cultura – quella messicana – artisticamente ricca, degna di rispetto e ammirazione. Oggi più che mai».