I migranti, gli Stati Uniti, la Palestina. Tra dolore e ironia. La seconda stagione del dramedy Netflix non racconta l'eccezione ma un intero sistema

La commedia specchio della realtà è una combinazione che si verifica ormai di rado, ma quando accade si scatena la tempesta perfetta. Certo, bisogna sapersi muovere nel dramedy, ovvero quello strano miscuglio di sentimenti in cui se ridi per una battuta surreale un attimo dopo ti ritrovi ad annegare in una malinconia struggente, la stessa che resta solo in quei momenti in cui la tua terra scompare sotto i piedi. Ma la seconda stagione di “Mo” (Netflix) ci riesce con agio, facendo scorrere un racconto costruito minuziosamente con pura e dura verità. 

 

La serie semi autobiografica del comico gioiello Mohammed Amer, cuce nella stessa trama la resilienza e l’orgoglio dei palestinesi con quella degli immigrati e dei rifugiati negli Usa, creando una tela leggerissima ma al tempo stesso spessa come il piombo. 

 

Co-creato con Ramy Youssef, irrompe in un momento che si fa Storia: il 7 ottobre non è ancora arrivato e Trump non è stato rieletto, ma ogni istante degli otto episodi è un manifesto di denuncia, perché quel che accade non comincia nell’oggi, nasce ieri e si consolida a tal punto da far temere per il domani. 

 

Mo Najjar è scappato dalla guerra del Golfo, approdato a Houston, capitato in Messico, attaccato alla speranza di diventare cittadino americano e spezzato dal desiderio di rivedere la sua Palestina. Un apolide, costretto all’impossibilità di agire secondo quello che vorrebbe essere normale. Mo, gigante bambino con un’ostinata tendenza al precipizio, orgoglioso dei suoi tacos di falafel, legato a una madre straziata dai notiziari, ai suoi amici improbabili e fedeli, alla sua donna cristiana, alla sua preghiera musulmana e al valore della memoria, passa dal comico al tragico nello spazio di un battito di ciglia inumidite, per raccontare non l’eccezione ma un intero sistema. Quello che perde ogni tratto di umanità, mentre gli immigrati clandestini tentano di attraversare la frontiera per entrare negli Stati Uniti. Quello delle guardie dei centri di detenzione e degli impiegati a cui è affidato il potere di sbattere la dignità altrui in fondo a una classifica. E il medesimo sistema che si è ostinato a definire quello tra Israele e Palestina “conflitto” anche se «il conflitto implica che ci siano due parti equivalenti, non un esercito che occupa un territorio». 

 

Così questa imperdibile seconda stagione in cui si infrangono i sogni, a partire da quello americano, mescola sarcasmo e dolore come fossero i sapori di una terra perduta, perché non svanisca mai la speranza di avere più hummus che muri: «Il mondo cercherà sempre di distruggerci. E quando lo fa, noi sorridiamo. Perché sappiamo chi siamo».

 

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DA GUARDARE  

Difficile resistere al fascino di “Paradise”, serie Disney + di cui sono disponibili già quattro episodi (un rilascio alla settimana). Un racconto avvincente sul potere e le sue derive, fra thriller, fantascienza e la solida firma di Dan Fogelman, già autore di “This Is Us”. Di cui si ritrovano il fascino dei flashback e l’amato Sterling K. Brown.

 

MA ANCHE NO

Uno dei pochi modi per sopravvivere al Festival è quello di seguirlo con “Gialappa's dire Sanremo”. Ma con due grossi limiti, altrimenti diventava una buona notizia: solo per tre serate su cinque (da giovedì 13) e niente televisione né tantomeno radio. Solo Twitch, YouTube e i canali social.