Operai, cuochi, ingegneri, commessi. Dalla Lombardia alla Campania, dalla grande impresa al piccolo negozio, sono ormai migliaia gli italiani che lavorano alle dipendenze di imprenditori asiatici. Ecco le loro storie

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Lo chef del ristorante certo che è italiano. Ivan Nicolai, 32 anni, arriva da Palermo. Il cameriere, Matteo Galli, 25, da Legnano. Il cuoco, Carlo Mezzenzana, 23, da un paese vicino. Anche nella fabbrica il personale è italiano. Ci sono Marco Fresta, fresatore, Severino Satta e Sergio Danzo, operai e Cristian Cassetti, ingegnere. Ivan, Matteo, Carlo, l'operaio, l'ingegnere, e qualche migliaio di italiani come loro, in questo preciso momento, pur impegnandosi in settori tanto diversi, hanno però qualcosa in comune. Qualcosa che equivale per noi a un giro di boa. Tutti loro, senza la Cina e la sua immigrazione in Italia, sarebbero disoccupati. È la nuova generazione. Lavoratori italiani. Padroni cinesi. Sta succedendo ovunque. Dalla Lombardia alla Campania. Dalla grande industria. Al piccolo bar. Fino alla sponsorizzazione delle squadre di calcio di quartiere.

Salvatore Arcucci, 29 anni, è il capocannoniere della Sesto 2012 con venti gol in ventidue partite, squadra che è diventata un caso per essere stata promossa di categoria al suo primo campionato: «È tutto merito del presidente. È un trascinatore». Il presidente è cinese. Lu Rong Yi ha 53 anni, si fa chiamare Alberto: «Come Alberto Sordi, quando ci ha lasciati sono stato al suo funerale», dice lui. È uno dei molti immigrati che hanno voluto rompere lo stereotipo del proverbiale isolamento. E grazie a lui e ai dodici sponsor cinesi della squadra di Sesto San Giovanni, periferia nella periferia milanese, 225 tra bambini e ragazzi dai cinque anni in su possono oggi praticare sport. A Modena e a Mornago, in provincia di Varese, i nuovi proprietari di Pechino della "C.B. Ferrari" hanno aumentato lo stipendio a tutti. È la fabbrica dove Fresta, Satta, Danzo, l'ingegner Cassetti e 157 dipendenti producono macchine di alta precisione per le lavorazioni meccaniche: 1.119 euro in più all'anno in busta. Così, nell'epocale catastrofe di imprese che si avviano alla chiusura, ecco industriali, impiegati, operai, sindacalisti sperare nella Cina come fosse l'America. La mano tesa pronta a salvarci. L'inizio di un nuovo capitolo di storia. La fine del miracolo italiano.

Il nostro miracolo si arrugginisce sotto il temporale appena fuori Milano. Capolinea della metropolitana, linea rossa. Sesto San Giovanni. Ed è anche il capolinea di un'era. Per arrivare fin qui ci sono voluti un secolo di progresso, due guerre mondiali, il boom, la Dolce vita, la contestazione, le lotte sindacali, l'Italia quinta potenza industriale al mondo, Mani Pulite, l'euro, la globalizzazione. Fine. Che sia finita, lo vedi dal bosco di pioppi che sta crescendo intorno al grande scheletro dell'altoforno della Falck. Lo annusi nell'odore di muffa e cemento dei palazzi in eterna costruzione che al posto degli uffici hanno piani senza pareti aperti sul cielo. Lo assapori nella polvere che il vento solleva dalle buche profonde su cui dovevano fondare la nuova città del terziario. È un po' come se il ragazzo della via Gluck, fuggito da una delle colonne sonore più celebri del boom italiano, si fosse ripreso la sua terra. Là dove c'era la città, ora c'è l'erba. Perché senza più l'industria a sostenerla, anche la sbandierata capitale del terziario avanzato si è fermata alle buche. Ma Sesto, l'ormai antica Stalingrado degli operai italiani, non è solo questo. Da pochi mesi è un quartiere del nuovo miracolo cinese. Da Marx a Mao. E con Sesto, lo è tutto il reticolo di paesi industriali che la circondano.

La villa di Arcore, dove il governo invece di andare a proteggere l'economia italiana fuori dai confini difendeva il bunga bunga del suo capo, è a pochi chilometri da qui. E proprio vicino ad Arcore, Wenxhu Chen, 37 anni, e la sua catena di supermercati Aumai, hanno annunciato la costruzione del più grande centro di commercio all'ingrosso d'Europa. Ad Agrate, fuori il casello dell'autostrada Milano-Venezia, a Brugherio, a Concorezzo trovi i capannoni delle srl cinesi che con l'import alimentano l'espansione. A Legnano è ormai normale andare a comprare scarpe, vestiti o articoli per la casa da Euromec o da Mw. Supermercati con cassiere italiane e proprietari cinesi che accanto alle sottomarche scontate, espongono griffe mondiali dello sport o della biancheria intima. Tanto è comunque tutto Made in Rpc. La Cina, per non rallentare sotto il peso della recessione, ha bisogno di vendere. E gli imprenditori, per conservare margini di guadagno, adesso lo fanno direttamente. Dal produttore al consumatore. Una normalissima legge di mercato che ha spinto il numero di imprese intestate a cittadini della Repubblica popolare a una crescita del 232 per cento in dieci anni. Su 210 mila cinesi in Italia, le ditte di connazionali registrate sono 41 mila. E la maggioranza degli imprenditori è concentrata a Milano con 2.800 società: il 5,3 per cento di tutte le piccole imprese milanesi, secondo una ricerca della Camera di commercio.

I ruoli si sono invertiti anche per una ragione molto più umana. Il modello che l'ex Stalingrado d'Italia rappresenta non è un ghetto. Non è quell'ariete fatto di clandestini, sfruttamento ed evasione fiscale che a Prato ha prima servito la manifattura italiana e poi l'ha annientata. Che in provincia di Napoli collabora con la camorra e arriva a ingaggiare italiani in nero. E nelle Marche fornisce manodopera a basso costo per la produzione di scarpe. Se si vuole un modello regolare, eccolo. Pasquale Corsaro, 60 anni, ha la stessa storia di tutti gli emigranti italiani del dopoguerra. A quindici anni e mezzo ha lasciato Reggio Calabria per raggiungere il padre muratore a Milano. Ha gestito un bar vicino all'Università Bocconi. L'ha ceduto e si è messo a lavorare come dipendente dietro il bancone del bar-tabaccheria Marconi a Sesto San Giovanni.

Centro storico della ex Stalingrado, dove sopravvivono i resti del paese che era prima del boom industriale. Pasquale finirà la sua carriera come dipendente di un cinese. Perché ora il bar è di proprietà di Luigi Chen Ruijun, 44 anni, moglie e quattro figli di 9, 12, 13, 14 anni. «Quando lavoravo vicino alla Bocconi, avevo io sei dipendenti», racconta Pasquale Corsaro: «Eravamo aperti dalle 6 alle 20. Troppe ore. Contavo di andare in pensione nel giro di pochi anni. Mi ha fregato la riforma». Dal bancone del bar Marconi, Pasquale ha visto il cambiamento uscire e entrare dalla porta. L'ultimo proprietario italiano, l'ultimo suo principale italiano, Nicola Scafuti, 74 anni, è un'altra storia di emigrazione. A 17 anni, ha salutato gli amici e Pompei. Per vivere a Sesto, Nicola raccoglieva cartoni per strada. Ha venduto angurie dal camion. Poi ha comprato il bar Marconi. E pochi anni fa, quando la salute ha cominciato a ricordargli l'età, l'ha rivenduto ai cinesi. Adesso Nicola Scafuti continua a frequentare lo stesso bar. Ogni pomeriggio viene a giocare a scala quaranta con gli amici del quartiere che non hanno tradito le abitudini. Seduti davanti alla stessa sfida a carte, trovi l'ex proprietario, l'imprenditore della torrefazione, due operai in pensione e un costruttore famoso, Giuseppe Pasini, 82 anni. Famoso soprattutto da quando ha denunciato il sistema Sesto e mandato alla sbarra Filippo Penati, ex sindaco, ex presidente della Provincia di Milano, ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani. Una bolla di progetti mai realizzati e accuse di tangenti in cambio della riqualificazione mancata dell'area Falck e della Magneti-Marelli. Marchi indimenticabili del Miracolo a Milano.

Pasini, immigrato a Sesto da Fossalta di Piave, lui che si vanta di essere amico di Berlusconi, ha gli anni per guardare il passato da lontano: «Ho lavorato con tutti i comunisti», dice mentre Nicola Scafuti distribuisce un nuovo giro di carte: «Erano persone per bene. Poi è cambiata la società. I comunisti veri qui a Sesto magari ti chiedevano in cambio di costruire la scuola del quartiere. Mai soldi per loro o per il partito». La beffa tra le cose dette e le cose non fatte la ricorda lo scheletro arrugginito del gigantesco altoforno che domina gli orizzonti nella ex Stalingrado. La beffa è ancora sul giornale online del Pd di Monza, numero di qualche anno fa: "Penati: il Partito democratico ha una posizione chiara ed inequivocabile... No alle leggi ad personam". E proprio Penati l'ha dimostrato pochi giorni fa. Quando con puntuale incoerenza non ha rinunciato alla prescrizione, ottenuta grazie a una legge su misura del governo Monti che ha ridotto le pene per concussione.

La crisi del miracolo italiano ovviamente non è soltanto economica. Quanti sarebbero disposti a rifare la vita di Pasquale Corsaro, di Nicola Scafuti? Ora tocca a Luigi Chen Ruijun: «Mi sono indebitato facendomi prestare soldi da amici e parenti», rivela: «Li devo restituire in cinque, sei anni. Si lavora duro, ma il prestito è senza interessi. Almeno non devo pagare le banche. Quando ho lasciato la Cina, nel 1991, lo Zhejiang, la mia provincia, era poverissima. A Forlì avevo un piccolo laboratorio di abbigliamento. Lavoravamo per un'azienda italiana. Sette euro un paio di pantaloni. Gli stessi che rivedevo in negozio a 170-200 euro. Ma nell'abbigliamento non c'è più guadagno, se vuoi fare le cose in regola. Così io e mia moglie abbiamo deciso di investire i risparmi. Pensavo che Milano fosse migliore come clientela. No, non parlo dei pensionati. In questo quartiere c'è una forte presenza di arabi. A volte danno problemi». Luigi Chen Ruijun ammette che il costo più alto che sta affrontando è lo stipendio di Pasquale: «Sono 4 mila euro al mese tra contributi, anzianità e stipendio. Lui in busta ha 1.700 euro. Un cinese in regola mi costerebbe la metà. Ma se lo licenzio, alla sua età Pasquale non trova un altro posto. Rinuncio a qualcosa io, tra un anno va in pensione».

«Lo sai perché ci si rivolge alla manodopera italiana?», chiede Francesco Wu, 32 anni, ingegnere elettronico e con il fratello Silvio Wu, 29 anni, anche lui ingegnere, proprietario del ristorante italiano Borgo antico in via Ponzella 38 a Legnano. È il locale dove lavorano Ivan Nicolai, lo chef, Matteo Galli, il cameriere e Carlo Mezzenzana, il cuoco. «A volte è una questione di marketing», spiega Francesco Wu: «Nel caso di un ristorante italiano, conta anche la professionalità. Per altri imprenditori, la ragione è che l'immigrazione dalla Cina è venuta a mancare. I cinesi stanno tornando indietro».

Francesco Wu, presidente dell'Unione imprenditori Italia-Cina, è in Italia dal 1989 quando la sua famiglia ha raggiunto il papà arrivato tre anni prima. E non è cittadino italiano soltanto perché una legge folle impedisce di concedere la cittadinanza a chi in Italia è cresciuto, ha studiato e lavora. «Sono per lo ius-soli. Ma non sarebbe giusto ottenere la cittadinanza soltanto perché si è nati in Italia. Bisogna crescere, studiare, dimostrare che si vuole bene a questo Paese. E il rapporto di affetto nasce se nascono i rapporti con le persone».

Francesco Wu, come Alberto Lu Rong Yi a Sesto, sponsorizza la squadra di calcio, la squadra di basket e il Palio di Legnano. La sua gestione del ristorante è scientifica: mesi di tirocinio in cucina con i precedenti proprietari italiani, razionalizzazione delle spese per ridurre i costi. E soprattutto tante ore di lavoro. Il bilancio annuale deve tenere conto della restituzione del prestito familiare che Francesco Wu ha raccolto tra circa duecento parenti. La differenza del modello cinese è anche nei giorni di riposo: «Quando lavoravo come dipendente da ingegnere, tra weekend, ferie, festività stavo a casa 145 giorni all'anno. Nei primi tre mesi di apertura del ristorante non abbiamo mai fatto riposo. Nei primi due anni, mezza giornata a settimana. Ora ci concediamo un giorno alla settimana. D'estate teniamo aperto perché abbiamo un bel giardino. Le mie ferie? Sei giorni all'anno», risponde Francesco Wu.

Giuseppe Marasco è il sindacalista della Fim-Cisl che ha da poco firmato l'accordo per l'aumento di 1.119 euro all'anno alla Cb-Ferrari di Mornago. La fabbrica, all'avanguardia mondiale nel suo settore, dopo una lunga valutazione è stata ceduta dagli anziani proprietari Renato Bianchi e Augusto Caravati alla Jingcheng Holding Europe, società partecipata dalla municipalità di Pechino. Un po' come se una municipalizzata di Roma riuscisse a salvare la nostra industria. Bianchi e Caravati hanno scartato offerte svizzere e tedesche. Non si fidavano. «Dalla conduzione familiare del signor Bianchi si è passati a una gestione strettamente industriale» spiega Marasco: «Stanno potenziando nuove aree di vendita. Dobbiamo metterlo in conto, noi europei, di dover fare qualche passo indietro. Non è una crisi da cui usciremo come prima. Questo è un riposizionamento di tutta la nostra economia».

La sera italiani, arabi, cinesi vanno a fare la spesa a pochi passi dal Rondò di Sesto. Gli italiani li riconosci anche per l'età. Sono tutti anziani. Gli altri quasi tutti giovani. Si mettono in coda alle casse della ex Standa, un altro marchio al macero. Ora si chiama Star Planet, gruppo "Hua Feng", 11 mila euro di capitale sociale, quasi due milioni e mezzo di fatturato, 95 mila euro di utile. E prezzi non sempre convenienti, visto che alcuni prodotti perfino all'Esselunga costano meno. Poco prima della chiusura, davanti alle vetrine illuminate passa un volto che nelle fabbriche di allora tutti riconoscevano. Ha i capelli cortissimi di quando era il leader della Cgil. Antonio Pizzinato scorre in mezzo al nuovo mondo che affolla il marciapiede, ignorato come un titolo di coda. La fine di un film. «Impensabile come sia potuto accadere», scrive Edoardo Nesi nel suo bel libro "Storia della mia gente": «Mentre una schiera di economisti arroganti e politici tremebondi lasciava sfiorire il capitale umano e produttivo del nostro Paese».

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