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Manca poco. Eppure uno scivolare soporoso attraversa tanto le ville romane dissepolte quanto i prefabbricati che da trent’anni ospitano “in via provvisoria” gli uffici della soprintendenza: costruiti dopo il terremoto del 1980, sono ancora lì. Correre sarebbe fondamentale, adesso: non solo perché rischiamo una figuraccia internazionale, ma soprattutto perché i soldi che non saranno spesi entro il 31 dicembre verranno decurtati dai futuri finanziamenti per questo patrimonio dell’umanità. La minaccia però non sembra smuovere la burocrazia, che fra incomprensioni, attese e protocolli sembra pronta a schiacciare a terra anche gli ultimi sforzi di rilancio.
Alle 16.30 i funzionari della soprintendenza si dirigono verso le automobili. Ci sarà pure l’urgenza del richiamo di Bruxelles, ma gli straordinari non sono contemplati: meglio tornare a casa. Due ore dopo, solo nella palazzina rosa accanto all’ingresso di piazza Anfiteatro, le luci sono ancora accese, le Mercedes parcheggiate nel piazzale, la sala riunioni ingombra di uomini e donne che discutono.
È il fortino della “Direzione generale” speciale, affidata un anno fa al generale dei carabinieri Giovanni Nistri perché tramutasse in opere concrete le promesse del “Grande Progetto”. Ed è qui che l’ufficiale se ne sta - circondato da colleghi dell’Arma, architetti e funzionari - a controllare carte, pianificare riunioni, fissare scadenze.
Lui e il soprintendente Massimo Osanna, sbarcati insieme un anno fa, sono vissuti come alieni da un pantano di abitudini e vizi duri a cedere. Sarà un caso, ma ad aver vinto i primi appalti sono le stesse aziende che da anni prosperano su crolli ed emergenze. Su tutti questi dossier incombe ora la magistratura, che, come “l’Espresso” è in grado di rivelare, ha già mandato a due funzionari i primi avvisi di garanzia. E la chiusura delle indagini rischia di innescare un terremoto capace di far crollare le impalcature tirate su finora.
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LA SOLITUDINE DEL CONDOTTIERO
Giovanni Nistri è stato chiamato a raddrizzare la pianta storta di un progetto ambizioso che, dopo due anni di stallo, rischiava di trasformarsi in débâcle nazionale. Entro il 31 dicembre infatti dovremmo aver già pagato le maestranze e riaperto al pubblico le antiche dimore. Ma il generale spedito dal governo Letta per risollevare le sorti di Pompei è sembrato finora più un luogotenente dalla sciabola spuntata che un vero plenipotenziario.
La struttura che avrebbe dovuto permettergli di prendere il comando (e gestire i contratti di gara) è in ritardo: i suoi collaboratori dovevano essere trenta ma all’appello ne mancano ancora dieci, perché per i dipendenti pubblici disposti ad arruolarsi nella sua task force non sono state previste indennità aggiuntive. Così quasi tutti sono indietreggiati di fronte alla necessità di sobbarcarsi le spese di vitto, alloggio e trasporto. E forse anche per questo, oltre che per una questione di fiducia, un terzo dello staff è composto da carabinieri: tre capitani, un tenente, due maggiori.
Dei cinque esperti che avrebbero dovuto supportare Nistri per la gestione degli appalti, lo snodo della sfida, non c’è nemmeno traccia. «Il governo ha respinto la proposta dal generale, preferendo ricorrere a una selezione pubblica. E ora, a distanza di un anno, non se ne sa più nulla» spiega il deputato del Movimento 5stelle Luigi Gallo, che ha presentato un’interrogazione sulla vicenda. Il motivo è a suo modo emblematico per spiegare come il Grande Progetto Pompei resti sospeso fra aspirazioni di grandeur e conti della serva.
Gli esperti dovrebbero infatti essere retribuiti da Palazzo Chigi, che però violerebbe così la spending review. Il governo ha «allo studio il problema» per una soluzione «in linea con le normative più recenti», ha tranquillizzato il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni. Ma intanto si è perso un altro anno. E tutto resta ancora ostinatamente immobile, a meno di dieci mesi dalla scadenza definitiva.
Nistri spera di smarcarsi da questa ragnatela grazie a un manipolo di giovani appena ingaggiati: ingegneri freschi di laurea cui far seguire i lavori. Le loro scrivanie sono state posizionate proprio di fianco a quelle dei tecnici della soprintendenza: un avamposto tattico, forse, visto il rapporto a volte teso fra il pool dei militari e i funzionari, spesso restii anche solo a condividere le informazioni in loro possesso.
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LAVORI IN CORSO
Malgrado gli ostacoli e le resistenze, i primi risultati iniziano a farsi vedere: a fine 2014, otto mesi dopo l’insediamento della nuova squadra, le gare in corso sono passate da nove a 19, quelle bandite da 14 a 31 e i cantieri avviati sono raddoppiati. Interi quartieri dell’antica città sono stati recintati per essere rafforzati dalle fondamenta.
Certo, guide e turisti sono abituati a zigzagare fra le transenne, ma ora dietro le reti non si vedono più solo frammenti d’intonaco a brandelli e vecchie coperture a pezzi, ma anche manovali che sistemano i muri e restauratrici in tuta bianca e caschetto. Qualcosa si muove. Ma è comunque troppo tardi per recuperare del tutto il ritardo accumulato in passato.
Nell’ultima relazione sui lavori, trasmessa nei giorni scorsi al Parlamento, si legge che gli «interventi di prevedibile conclusione dopo il 31 dicembre 2015» sono una dozzina, e hanno un valore complessivo di ben 40-50 milioni di euro. Cantieri per altri 30 milioni dovrebbero terminare fra novembre e dicembre, avvicinandosi pericolosamente alla scadenza limite. Insomma, anche nella migliore delle ipotesi è inevitabile che un bella fetta di soldi e di speranza sia ormai persa per strada. Tanto più che prima dei ritardi futuri, stanno già avanzando quelli presenti: «Finire ad ottobre? È un miraggio, siamo troppo pochi» ammette un restauratore dal suo trabattello, sconfessando il pannello appeso alle sue spalle sulla durata dei lavori.
E poi c’è la gran normalità degli orari, ancora strettamente d’ufficio: le squadre entrano alle 8.30; un’ora di pausa pranzo; e poi fuori dai cancelli massimo alle 17, proprio come i turisti in gita, non un minuto di più. Nessuna fretta. E non c’è molto da fare, visto che Bruxelles non prevede i cosiddetti “premi di accelerazione”: sui contratti già firmati è impossibile intervenire.
Al massimo, spiegano i tecnici, si può cercare di essere lungimiranti sui prossimi appalti, imponendo scadenze pressanti e più operai inviati contemporaneamente, estendendo i turni dall’alba al tramonto: così ad esempio si pensa di fare per costruire in tempo le passerelle per disabili, ai quali gli affreschi pompeiani sono negati da sempre.
Aumentare il ritmo? «All’ultima riunione con noi dei sindacati, un mese fa, il generale non ha sollevato l’argomento», dice Domenico Blasi, coordinatore nazionale dell’Usb e accalorato tribuno dei custodi di Pompei: «E persino l’accordo per aumentare i turni di vigilanza scricchiola. Vedremo come andrà dopo le elezioni sindacali di marzo». Sarà guerra? Si profilano nuove code di visitatori “causa sciopero” di fronte alle rovine?
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EXIT STRATEGY
«Non dovremo restituire i soldi a Bruxelles», ha rassicurato a dicembre Matteo Renzi, cercando di prevenire le critiche in caso d’insuccesso. In realtà non tutto è easy come sostiene il premier, perché se è vero che l’Italia non lo perderà del tutto, il denaro non speso sarà comunque sottratto dai fondi che sarebbero stati assegnati a Pompei dal 2015 in poi. La ratio è chiara: se i manager di questo unico patrimonio archeologico si mostrano incapaci di sfruttare le risorse disponibili, non potranno sperare ancora in tanta benevolenza.
Per evitare la stangata della Ue, la soluzione immaginata è scolastica. Nel senso letterale del termine: l’obiettivo è convincere l’Unione europea di aver svolto almeno una parte dei compiti a casa, mostrarsi volenterosi di recuperare le insufficienze, sperando così nella magnanimità della maestra. «Entro aprile vorremmo aver speso 13 milioni di euro e aver bandito le gare per tutti i 105 milioni del progetto», auspica il soprintendente Massimo Osanna: «Il coinvolgimento di Invitalia, l’agenzia ministeriale che da Natale ha preso in carico dieci gare, ha alleggerito le nostre spalle».
La tabella di marcia, concordata con Bruxelles la scorsa estate di fronte all’inconcludente gestione precedente, è stata finora rispettata. Ma il vero banco di prova sarà nei prossimi mesi: da settembre bisognerà procedere a tappe forzate, spendere 72 milioni di euro in quattro mesi. In pratica 600 mila euro al giorno, grosso modo quanto è stato investito in tutto il 2012 e il 2013. Un salto mortale degno di un funambolo più che di un generale.
Se il cielo è fosco, poi, la tempesta vera e propria rischia di arrivare dalla Procura di Torre Annunziata, che sta passando al setaccio gli appalti degli ultimi anni e che ha già mandato avvisi di garanzia a due funzionari della soprintendenza che lavoravano in dipartimenti chiave, ipotizzando nei loro confronti il reato d’abuso d’ufficio in concorso, ovvero di aver ottenuto un ingiusto vantaggio patrimoniale dalla gestione delle gare.
I primi tuoni si sono avvertiti in autunno, quando gli uomini della Direzione investigativa antimafia si sono presentati per avere copia di tutte le procedure. Ed entro quest’estate, al termine delle indagini preliminari, rischiano di arrivare anche i temporali, visto che eventuali illeciti potrebbero comportare il fermo dei cantieri. Così, proprio mentre il Grande Progetto sembra essersi finalmente messo in moto, un terremoto giudiziario potrebbe affondare i risultati ottenuti fin qui.
CHI COMANDA DAVVERO
Il soprintendente Osanna entra nei suoi uffici, circondato da clientes: le pratiche sono tante, e alla fretta europea si sovrappone la routine di un equipaggio stanco. Lo sa. «Ma sono ottimista», afferma. Ed elenca i traguardi finora raggiunti, come la rilevazione 3D e i consolidamenti avviati. È un ottimismo a tempo determinato, però, il suo: «Sono un professore e voglio tornare in cattedra», ammette. Pompei è importante ma scomoda. Del resto anche il generale Nistri ha approntato un accampamento temporaneo.
«Direttori, soprintendenti e commissari passano. Solo noi restiamo», commenta un custode mentre gli scavi si svuotano. Sono quasi le cinque, fra le domus c’è il deserto. Allora prende le chiavi e pronuncia a bassa voce: «Seguitemi». Quindi inizia ad aprire ville, atri e stanze chiuse al pubblico da anni. «Ecco, fate una foto», invita: «Col flash si vede meglio. Guardate che spettacolo, qui è inaccessibile da sempre». Affreschi, colonne, fontane. Ippopotami, banchetti, miti. È lui che decide: «Sono qui da trent’anni» ricorda, come a dimostrare chi comanda davvero.
Lo fa per amore della cultura? Per turismo? Per soldi? «Fate voi… una pizza e una birra», dice alla fine. Insomma, basta una mancia. A dimostrazione che dove non arrivano i fondi, le procure, le direttive di Bruxelles, basta trovare una scorciatoia per aggirare le regole. Generali o no, è così che funziona (ancora) a Pompei.