Scavano, depredano e impoveriscono l’ambiente. Sono i ladri di acqua, sabbia, terra. Dalla Puglia arrivano ulivi secolari espiantati per abbellire i giardini del Nord. I pescatori distruggono scogli e fondali per pochi costosissimi chili di datteri di mare e ignari turisti si portano via la sabbia dalle spiagge della Sardegna

Per trasformare la natura in business non ci vuole molto: gli ulivi secolari della Puglia e della Calabria vengono messi in vendita in rete per migliaia di euro. I turisti si portano a casa un pezzo di vacanza sotto forma di sabbia. Scogli vengono distrutti per strappare datteri di mare e venderli sul mercato illegale. Anche l’acqua diventa una merce preziosa: si prosciugano i fiumi per annaffiare i campi e alimentare le centrali idroelettriche.

E così, scavando, depredando e alterando l’ambiente, si annulla o stravolge il tanto decantato paesaggio italiano, preda facile di chi cerca di far soldi con pochi scrupoli. Ciò che il Consiglio d’Europa definisce «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni» e che la Costituzione impone di tutelare, è oggetto di rapine, saccheggi e razzie senza fine. Lo storico dell’arte Salvatore Settis ci ricorda come il «saccheggio quotidiano grazie al progressivo logoramento delle radici giuridiche ed etiche della tradizione italiana di tutela del paesaggio» sia sotto gli occhi di tutti.

GLI ULIVI STRAPPATI
Di notte è il momento migliore. Bande di agricoltori ed operai senza scrupoli arrivano a bordo di camion, scelgono l’ulivo da “espiantare” e in poche ore è pronto per essere trasferito a centinaia di chilometri di distanza.

Epicentro del fenomeno la Puglia e la Calabria dove si concentra quasi la metà degli ulivi italiani, molti dei quali ultracentenari. Trasformati da fonte di reddito (grazie alle olive) in soprammobili da esterno.

La causa è dovuta ad una moda che si è diffusa in questi anni soprattutto nelle regioni settentrionali: è chic avere la terra rossa, i muretti a secco e alberi con secoli di storia alle spalle cresciuti nel Sud del Paese e ricostruiti artificialmente nel giardino della Brianza o nella tenuta in Veneto.

Con danni notevoli alla pianta: gli ulivi spesso perdono la folta chioma per proteggersi, durante il trasporto, dalle muffe e dai marciumi e poi abituarsi al clima non favorevole.

«L’ulivo nel giardino del Nord – commenta Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf Italia – è diventata una stupida mania, una moda sciocca per ricchi come il pitone o il ghepardo in casa. Quella pianta non sopporta le temperature inferiori ai dieci gradi e quindi è frequentemente destinata a soccombere per le gelate dopo aver procurato un danno inestimabile alla natura e ai panorami più antichi d’Italia».

Nonostante le controindicazioni in Rete si trovano decine di annunci:«Piante di olivo, espianto e trasporto a vostro carico. Ho pure alcune piante secolari con prezzo da concordare».

Un altro annuncio recita così:«Vendo alberi secolari: dai più piccoli di circa 65 anni con circonferenza di circa 130 centimetri ai più grandi di alcuni secoli con circonferenza di alcuni metri. Inoltre abbiamo convenzione con ditta che effettua l’espianto a partire da 100 euro e il trasporto a 1,50 euro a chilometro».

Un pacchetto tutto compreso con un prezzo che può arrivare fino a 10 mila euro. L’acquisto delle nodose piante avviene per mano di bande criminali che, su commissione, le comprano dai contadini – ignari o complici – per poche centinaia di euro per poi rivenderle al miglior offerente.

Con le richieste e i sequestri in continuo aumento, i vivaisti e gli agricoltori si sono buttati a capofitto, estirpando tranquillamente alberi da terre proprie o altrui.

Dalla Puglia, la regione più colpita con centinaia di sequestri, il commercio di queste piante si è spostato in tutta Italia, e anche nelle regioni che affacciano sul mar Mediterraneo, come la Spagna, dove è legale.

Anche dalla Piana di Gioia Tauro, dove ci sono oltre due milioni di piante, partono tir carichi di ulivi, alti fino a venti metri, viaggiano spesso per centinaia di chilometri in autostrada senza essere intercettati dalle forze dell’ordine. Così un pezzo di Calabria si può ritrovare nel parco giochi di Gardaland o all’aeroporto di Berlino.

LO SCOGLIO NEL PIATTO
Non c’è solo il piacere degli occhi. Anche quello del palato può fare danni ingenti. È il caso dei datteri di mare, offerti sottobanco da alcuni ristoratori senza scrupoli ai clienti affezionati e dai gusti ricercati e costosi.

Un sequestro di datteri pescati illegalmente
La crescita di questi molluschi è estremamente lenta: si calcola che per raggiungere una lunghezza di cinque centimetri siano necessari dai 35 ai 40 anni. La pesca è molto invasiva e distruttiva nei confronti degli ambienti e dei litorali rocciosi che ospitano i datteri ed è vietata dal 1988.

Per preparare un piatto di linguine ai datteri di mare, è necessario distruggere un metro quadro di superficie marina, frantumando infatti interi banchi di scogli.

Ma nonostante il rischio di denuncia per danneggiamento e pesca illegale non si ferma lo scempio che rende centinaia di euro per pochi etti. Succede tutte le settimane: nelle acque pugliesi di Monopoli e Bisceglie, in Salento a Porto Cesario e marina di Ugento, nel golfo di La Spezia. E poi la penisola Sorrentina, la zona più battuta in Italia, dove il giro di affari, denuncia Legambiente, è pari a due milioni di euro l’anno.

Il danno ambientale calcolato ogni anno solo in Campania, si stima intorno a 70mila metri quadrati di desertificazione dei fondali e in altri 30 mila in Salento. Se le coste campane e pugliesi sono le più battute dai pescatori di frodo, si registrano frequenti casi anche in Toscana, a Giannutri, in piena area marina protetta, nelle Cinque Terre e nel litorale spezzino; nelle coste sud orientali della Sicilia.

Insomma dove la costa è calcarea è molto facile trovare qualche sub armato di martello, pinza e scalpello pronto a distruggere la roccia per fare incetta di datteri di mare. Per piazzare un chilo ai ristoratori il prezzo arriva fino a 180 euro.

LA SABBIA DELLA SARDEGNA
Una bottiglia colma di sabbia rosa. Cinque chili caricati nel bagagliaio. Spesso in aeroporto si scoprono delle vere sorprese, con i trolley dei turisti ricolmi di tesori in granelli.

Qualcuno è stato beccato con ben 44 bottiglie. Altri, tornando da Cala Gonone nella costa orientale della Sardegna, sono stati fermati con ben dodici chili. E poi la sabbia fossile di Cabras, sulla riva dello stagno Mari Pontis in provincia di Oristano, vecchia di 400 milioni di anni, un bottino da cinquanta chili intercettato allo scalo di Cagliari.

Il furto (sventato) più clamoroso ha coinvolto due muratori che volevano portare via ben venti quintali di materiale in una spiaggia del Sud dell’isola.

Così il più apparentemente innocuo dei gesti diventa un problema. Un "souvenir" di sabbia sarda mette a rischio l’equilibrio e la sopravvivenza di interi litorali già provati dall’erosione costiera con spiagge che, stagione dopo stagione, si ritirano e muoiono.

Nell’estremo Nord dell'isola si trova la perla naturalistica di Budelli, all’interno del Parco della Maddalena. Famosa per la sua spiaggia rosa, deve il suo tipico colore a piccoli organismi animali e vegetali che qui hanno il loro habitat naturale e che vivono sul fondo del mare.

Bella, bellissima: tanto da attirare migliaia di turisti. E prelievo dopo prelievo (anche inconsapevole negli asciugamani e nei costumi), gli enti locali hanno deciso di adottare misure draconiane, con un aumento delle sanzioni da 50 a 900 euro.

«Il fenomeno era all’ordine del giorno e alla fine della stagione estiva si contavano centinaia di chili asportati, provocando uno sbiancamento completo della spiaggia», racconta il presidente del parco della Maddalena Giuseppe Bonanno: «Per questo vent’anni fa abbiamo deciso di chiudere completamente tutto l’arenile. Oggi è visitabile solo da un sentiero e non è possibile fare il bagno ma la situazione della spiaggia è decisamente migliorata».

IL PIAVE MUORE DI SETE
Arriva la stagione estiva e puntualmente il fiume Piave va in agonia. Un far west di prelievi per l’energia idroelettrica a monte, le coltivazioni a valle e il deflusso minimo vitale che consente la sopravvivenza di pesci e tutte le specie ittiche passa in secondo piano. Un destino comune a tutti i grandi e piccoli fiumi: dal Po al Sarno nessuno è al riparo.

A prendere le difese del fiume veneto che parte dalle Alpi Carniche e arriva alla foce a nord est di Venezia sono gli ambientalisti locali.

«È un fiume ridotto a canale scolmatore di dighe e di prese di irrigazione» attacca Fausto Pozzobon, attivista di Legambiente: «Questo è diventato il Medio Piave. Siamo tutti concordi sul fatto che un periodo particolarmente caldo come questo possa portare una drastica diminuzione del volume d’acqua, ma sappiamo altrettanto bene che Enel, consorzi e monocultura del mais “vampireggiano” il fiume. La Regione non sa proprio gestire nulla. Per non parlare delle autorità di bacino e delle amministrazioni locali. Che fanno? Le secche c’erano anche negli anni Settanta, ma quello che dovrebbe essere un evento naturale isolato sta diventando ormai una pericolosa consuetudine».

Lo scenario è lunare: un greto assolato ricoperto di alghe marroni in putrefazione, con stormi di gabbiani e gruppi di cornacchie che divoravano migliaia di pesci di taglie diverse, rimasti a bocca aperta e con la pancia all’aria.

L’agonia inizia a metà maggio quando va in sofferenza nel giro di pochissime ore, senza più acqua neppure negli avvallamenti più profondi. Con la discesa nella siccità inarrestabile a giugno e tutto luglio. Un copione puntuale della stagione estiva quando la vita si estingue lungo i 235 chilometri del suo corso. E il fiume sacro della patria, teatro di combattimenti furiosi durante la Grande guerra, lentamente muore una seconda volta.

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