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Sparanapoli: «In città comandiamo noi»

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Reportage de “l’Espresso” tra i baby camorristi delle gang che hanno portato terrore e morte nei quartieri del centro. E che sfidano la città: «Anche se ci arrestano e ci uccidono non riusciranno a fermarci. Finita una paranza se ne fa un'altra» (Foto di Mario Spada per l’Espresso)

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Con te ci parlo solo perché voglio fare capire a tutti che, pure se ci hanno ammazzato i nostri capi, siamo sempre i più forti. Tutti devono sapere che mo’ i guappi siamo noi e che a Forcella e alla Maddalena comandiamo noi. Gli altri se ne devono tornare da dove sono venuti, sennò sono cazzi loro. Noi non abbiamo paura di niente, nemmeno di morire». Salvatore L. (chiamiamolo così) ha poco più di vent’anni, parla veloce e non vuole perdere tempo. «L’incontro con lui durerà dieci minuti», avevano avvertito. L’incontro è in una casa vicino via dei Tribunali, a due passi dal Duomo. Il ragazzo che vuole diventare boss arriva su un SH 300, senza bauletto e senza parabrezza, accompagnato da due “guaglioni” in sella a un altro scooter, un Carnaby Piaggio. Indossano tutti pantaloni della tuta e giubbini bomber col cappuccio che coprono creste modello “Genny Savastano”, il protagonista della serie “Gomorra”. Salvatore ha una barbetta che fatica a crescere, occhialetti da vista alla moda, gli altri hanno la faccia coperta da uno scaldacollo tirato fino al naso: sono i suoi guardaspalle, e dei giornalisti non si fidano.
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Salvatore dice di appartenere a quello che resta della “paranza dei bimbi”, i giovanissimi criminali appena maggiorenni che dal 2013 hanno messo a ferro e fuoco il centro storico di Napoli. Un gruppo formato dalle terze e quarte generazioni dei vecchi boss della famiglia Giuliano (quasi tutti gli anziani sono morti o sono in galera, «e quelli che sono liberi non tengono le palle per scendere in strada», aggiunge Salvatore), che insieme ai giovanissimi eredi dei Sibillo hanno deciso di formare un cartello per cacciare dal quartiere i Buonerba. Detti pure i Capelloni o “la paranza dei ribelli”, alleati con i Mazzarella. Per i Giuliano, semplicemente, «le merde».
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Negli ultimi mesi morti eccellenti e retate della polizia e dei carabinieri hanno decimato le due batterie, eppure il sangue continua a scorrere. Anche quello di adolescenti e di innocenti: nel 2015 sono morti Genny Cesarano, appena 17 anni, e il meccanico Luigi Galletta, ammazzato solo per essere il cugino di un camorrista, mentre due mesi fa durante una “stesa” (un blitz in cui una dozzina di ragazzi spara all’impazzata contro case e bar frequentati dai rivali, azione che serve a segnalare il dominio sul quartiere) è rimasto a terra Maikol Russo, un ragazzo di 27 anni che aspettava che suo fratello chiudesse il locale per festeggiare insieme Capodanno. «Noi non lo sappiamo chi è stato», spiega Salvatore. «Noi certamente no: allo Splendor ci andiamo spesso. Sono stati gli altri, quindi, che volevano fare lo sgarro. Maikol? Non lo conoscevamo, forse è stato solo sfortunato».

Anche parlando con Antonio emerge una cultura criminale ibrida. A metà tra quella camorrista e quella delle gang di strada delle metropoli. Ha 21 anni, dice di appartenere a una paranza della Sanità, e ha dato il permesso a “l’Espresso” di fotografarlo armi in pugno insieme a due amici. Arrivati sul tetto di un edificio dei Decumani indossando un passamontagna, hanno ordinato al sottoscritto di andar via: avrebbero parlato con me solo dopo, e solo usando il telefonino del mio fotoreporter. L’appartenenza al gruppo è caratterizzata da legami di sangue, dal fatto di crescere negli stessi palazzi fatiscenti, dalla frequentazione delle stesse zone dello stadio San Paolo. I calciatori sono idoli, ma all’occorrenza anche vittime di rapine.
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Ma i vincoli vengono mostrati al mondo anche con il look (durante la seconda faida di Scampia gli eserciti indossavano marche di scarpe diverse, per riconoscersi subito), o con tatuaggi del nome della banda e dei compagni perduti: se il gruppetto dei “Barbutos” della Sanità - oltre la barba stile hipster - si caratterizza perché tutti sul petto hanno tatuato il nome di un amico in galera, uno dei ragazzi dei Buonerba, intercettato dalla squadra mobile guidata da Fausto Lamparelli, spiega a un conoscente che deve scriversi sulla spalla il nome di un sodale ammazzato: «Quello mi è compagno...quello ed è frat’ a me a vita, mi devo far pure il tatuaggio mo’». Pure Luigi Criscuolo, considerato vicino ai “Capelloni”, chiede alla ragazza di tatuarsi «il mio nome e cognome, se mi ami davvero». Lei protesta perché lui, invece del nome dell’amata, si è inciso sul braccio destro la “B.”, iniziale del suo clan. Qualche volta, però, i tatuaggi possono trasformarsi in grossi problemi: «Se uno va a fare una “stesa” o va a sparare a qualcuno ti possono riconoscere dai disegni e ti pigliano», ragiona Carmelo. «Se uno scende per “pulire il sangue” (vendicarsi, ndr) deve stare attento a coprirsi bene con le maniche lunghe, soprattutto d’estate. Qua ci stanno un sacco di telecamere».

I ragazzini parlano in dialetto stretto. Sembrano sbandati, ma vogliono sembrare decisi, aggressivi, coraggiosi. «Hai letto quello che ha scritto Lino, il fratello di Emanuele Sibillo che è stato ammazzato la stagione scorsa? Lino gli ha dedicato una canzone di Ramazzotti su YouTube, e gli dice che lui spera di morire presto per poterlo raggiungere». Nei vicoli non ci sono più anziani che spiegano le vecchie regole, e gli emergenti abituati a maneggiare 357 magnum a 16 anni, non sembrano capire che seminando paura e terrore non andranno lontano. Il far-west, le “stese” e i proiettili vaganti attirano le forze dell’ordine, i riflettori della stampa, e nuocciono agli affari. «L’avere assicurato alla giustizia i grandi capi ha creato vuoti di potere che ora giovani e giovanissimi senza alcun freno cercano di occupare», ha ribadito qualche giorno fa il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

[[ge:rep-locali:espresso:285185655]]Le nuove leve si organizzano e vivono con la logica del guadagno immediato, progettano azioni la mattina per la sera. «Le pistole ci servono per difendere il territorio dai nemici che ce lo vogliono togliere. Chi vuole la pace è un debole, un perdente, un cacasotto», è il ragionamento standard. Già: le paranze - prima ancora degli affari - hanno come obiettivo primario quello di cacciare gli “invasori”. Ammazzandoli o strappandoli fuori, letteralmente, dalle loro case: a Forcella capita anche che i vincitori mandino via gli affiliati e i familiari dei clan in declino. L’hanno fatto i “bimbi” dei Sibillo-Giuliano, ora qualcuno pensa che - dopo gli arresti - sia il turno dei mazzarelliani.

È un fatto che la Direzione nazionale antimafia affermi che le bande del centro storico siano la principale emergenza dell’ordine pubblico napoletano. Tra luglio 2014 e giugno 2015, su 45 tra omicidi e tentati omicidi di matrice camorristica, ben 18 sono avvenuti tra Forcella e la Sanità. In nessun luogo in Italia la fibrillazione criminale ha portato a simili carneficine: a Scampia e Secondigliano (dal 2004 teatro degli scontri tra clan storici e “scissionisti”) i trionfatori dell’ultima faida, cioè i “girati” della Vanella-Grassi, non sono stati (ancora) messi in discussione da altri emergenti. Anche qui i capi sono giovani e giovanissimi, ma il sistema di potere delle associazioni è molto più compatto e stabile rispetto a quello, liquido, dei clan del centro. Le esecuzioni quando servono ad agevolare gli affari vengono compiute senza remore, ma alle Vele e dintorni nessuno ha bisogno di progettare “stese” o sparatine per far capire chi comanda in città. Lo sanno già tutti.

Anche leggendo le ultime ordinanze e parlandone con i magistrati è chiaro che la camorra della Maddalena, di Forcella e della Sanità ha poco a che vedere con quella delle periferie. I ragazzi delle paranze vogliono tutto e subito, mirano ai soldi facili, che servono non a reinvestire per allargare le attività criminali, ma a comprarsi vestiti e orologi d’oro, l’orecchino di brillanti e la moto. «T-Max è la mia preferita. Ma bisogna comprare anche un sacco di schede e di cellulari: ne buttiamo un sacco, per non essere intercettati. Poi, certo, ci sono le 200 euro per la serata in discoteca, quelli per il regalo della guagliona tua». I piccoli camorristi ascoltano i rap Rocco Hunt e Clementino, ma non guardano lontano: sono rapaci, rischiano tanto per poco.

La loro organizzazione interna e la loro forza economica non è paragonabile a quella dei cartelli di Secondigliano o di Marano. In primis, perché nessuna delle paranze ha accesso diretto alle rotte della droga: cocaina, eroina, hashish devono comprarla nei supermarket dei clan che controllano i traffici dal Sudamerica, dalla Spagna e dall’Europa del Nord. Dalla Vanella-Grassi al Rione Traiano, da Marano a Miano, è solo in periferia che la merce viene stoccata e rivenduta. «È vero la compriamo fuori dal quartiere e poi la rivendiamo qui al centro», ragiona Gennaro C. «Le “questione” succedono perché le piazze di spaccio sono vicine, e stiamo tutti “azzeccati”. A piazza Bellini (uno dei luoghi della movida della città, ndr) nella parte alta ci stiamo noi della Sanità, mentre in basso ci sono gli africani che spacciano per conto dei Sibillo». Il venerdì sera è facile vedere i gruppetti mercanteggiare a 50 metri di distanza. «Basta una scintilla a provocare un conflitto, una sparatoria, un morto», spiega la polizia che una sera sì e un’altra pure ammanetta spacciatori e sequestra sostanze stupefacenti.

Le estorsioni sono l’altro core-business dei criminali: le paranze taglieggiano negozi, ristoranti, officine. Ma anche le prostitute, i parcheggiatori abusivi e le bancarelle. Gli investigatori hanno scoperto che i Sibillo-Giuliano, per esempio, hanno imposto agli ambulanti di Forcella e della Duchesca di acquistare le buste di cellophane da un loro sodale. Imporre con la forza un prodotto rispetto agli altri è un metodo copiato dai casalesi, che negli anni ’90 riuscirono a fare stravendere marche di caffè e di burro di aziende amiche, distruggendo di fatto la concorrenza e il libero mercato. Rispetto al passato il pizzo non viene chiesto ogni mese: come ha raccontato un parrucchiere in una denuncia, le paranze da anni chiedono la tangente soprattutto in prossimità «delle festività natalizie, pasquali ed estive». Quando servono contanti per i regali, per i cenoni o per le vacanze a Ibiza. In altri casi le gang obbligano i commercianti ad assumere amici, mogli e sorelle, che nei negozi di quartiere godono pure di credito illimitato. «Le estorsioni? Ci facciamo aiutare dalla gente del quartiere. Noi la proteggiamo. Quei soldi sono per la “mesata” da dare ai compagni che stanno carcerati», si giustifica Salvatore.

In realtà gli introiti di droga e racket servono a pagare gli “stipendi” del clan, che variano a seconda della posizione che ognuno occupa nella piramide dell’organizzazione. I pali, quelli che controllano chi entra e chi esce dal palazzo del boss, e le vedette, che proteggono le piazze di spaccio avvertendo se arrivano “le guardie”, guadagnano appena 150-200 euro a settimana. Poco di più gli autisti e gli ufficiali di collegamento del gruppo, addetti a portare “ambasciate” e messaggi. Gli spacciatori e i guardaspalle prendono 3-400 euro a settimana, gli apicali e i killer possono arrivare anche a tremila euro al mese. Ma niente di più. Solo i boss incassano cifre più alte. Lo racconta nei dettagli Genny Buonerba, che - non sapendo che la polizia ha messo microspie nel suo appartamento - lo scorso luglio spiegava ai suoi uomini come sarebbe stato spartito il futuro bottino: «Un domani noi teniamo Forcella, la Maddalena, San Giovanni a Carbonara... si fa una quota, una cassa. La Maddalena che porta? 40 mila euro al mese. Forcella 100 mila al mese, San Gaetano 70 mila, San Giovanni altri 20 mila. Sono trecentomila euro al mese. Teniamo venti carcerati, e quindi sono 20 mila euro al mese di spese ai carcerati. Teniamo dieci “guaglioni” per tutto il quartiere, e sono altri 3 mila a settimana, 12 mila al mese. A noi, me a e mio fratello per esempio vanno 10 mila euro a mese. Il resto si fa il fondo cassa». Una cassa comune per investimenti nella droga, e per le spese legali per gli avvocati. Anche le donne, a volte ragazzine giovanissime, prendono la loro fetta: «Le femmine a volte tengono idee proprio buone e le stiamo a sentire», spiega Salvatore. «Nascondono le armi e fanno pure gli “specchietti”: ci dicono dove stanno quelli che dobbiamo colpire. O’ frat’, stiamo avanti perché nella nostra famiglia tutti fanno tutto».

Le paranze però non fanno come i Polverino o i Mallardo. Non investono in immobili («dobbiamo vivere dove siamo nati») e non riciclano nulla: spendono tutto quello che guadagnano. Subito. Gli appalti pubblici non sanno nemmeno cosa siano, infiltrazioni nella politica non esistono. «Sono schegge impazzite, pesci piccoli, ma pericolosissimi per l’ordine pubblico perché capaci di tutto», spiegano gli uomini guidati dal questore Guido Marino. «Se non era per i nostri interventi e per quelli dei carabinieri del nucleo operativo con il passare del tempo i loro business si sarebbero sicuramente strutturati meglio, allargandosi ad altre zone della città». Gli ultimi arresti hanno per ora scongiurato il pericolo: gli investigatori ritengono che sul campo siano rimasti «solo rimasugli, non più di una trentina di affiliati. Il problema è che, distrutta una paranza, viene presto sostituita da un’altra».

La causa principale del fenomeno resta il degrado sociale, culturale ed economico: il lavoro scarseggia, la disoccupazione giovanile è al 70 per cento, i tassi di abbandono scolastico altissimi, il welfare non funziona, gli investimenti pubblici restano pochi e insufficienti. La repressione è necessaria, ma resta un’arma spuntata. «A Forcella in tutti questi anni non è cambiato niente», ha detto provocatoriamente il parroco del quartiere Angelo Berselli. «Lo Stato dovrebbe prendere esempio dalla camorra. Perché funziona molto meglio». Anche se i militari presidiano le strade e gli arresti hanno smantellato gruppi violenti nessuno può cantare vittoria. La crudeltà operativa, l’assenza di qualsiasi formazione strategica dei killer promette nuove sparatorie. Il prossimo cadavere sembra solo una questione di tempo. I rischi sono altissimi, e non solo al centro storico: anche a Fuorigrotta, a causa della guerra di successione di un vecchio boss combattuta da tre luogotenenti ora detenuti, la situazione è caldissima, mentre a Ponticelli giovanissimi “cape pazze” divise tra i clan D’Amico e De Micco si stanno scannando da mesi per odio atavico e gestione delle piazze di spaccio.

In città la politica minimizza e il governo latita, ma nessuno è al sicuro. I babyboss sono feroci, e festeggiano anche se colpiscono a morte la persona sbagliata: «Si deve andare a colpo sicuro...bum bum bum», commenta intercettata una donna dei Buonerba mentre progetta di uccidere Salvatore d’Alpino, detto Totore o’ brillante, uomo dei Sibillo-Giuliano. Quando si sparge la voce (falsa) che il killer ha fatto un errore, i mandanti brindano lo stesso: «Se sta tutto a posto, chi è è, chi se ne fotte...non fa niente, va bene il cugino, appartiene a lui».

Salvatore si alza, e mette sul tavolo la sua Beretta semiautomatica. La scarrella. «Siamo molti di più di trenta, e ne teniamo un sacco di botte (pistole, ndr). Come questa, ma pure Smith & Wesson, quelle a tamburo, poi bombe e kalashnikov. Ce le compriamo dagli zingari che le rubano nelle case, o da quelli di Secondigliano». Il giovane che vuole diventare boss si rabbuia solo per un secondo. Quando spiega che un amico suo sta lasciando la paranza per passare con “i ribelli”. «Sta sbagliando malamente. Pensa che quelli adesso vincono, e tiene paura. Finisce che me lo trovo contro e lo devo ammazzare. Se lo farei? Te lo giuro, mi deve morire mammà».

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