Il processo VatiLeaks contro i giornalisti è stato un boomerang di cui ora i prelati si accusano a vicenda. ?Mettendo a nudo tutte le divisioni tra cordate nelle quali Bergoglio non mette mano

Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi (foto di Christian Mantuano)
«Qualcuno afferma che siamo davanti a una rivoluzione. Inizio a pensare che si tratti di anarchia». Il vecchio cardinale sbuffa. Dice di iscriversi tra i fan di Francesco, ma ammette che la squadra dei critici, a più di tre anni dall’inizio del pontificato, invece di perdere peso sta acquistando nuovi giocatori.

«In Vaticano sono la maggioranza, il papa è molto più solo di quanto si pensi. E il processo VatiLeaks non ci ha certo aiutato. Ammettiamolo: ci ha indebolito. È stata una débâcle totale: strategica, comunicativa, politica. Eppure nasceva sotto le migliori intenzioni, quelle di fermare una fuga di notizie inaccettabile. Il suo libro e quello di Nuzzi sono stati devastanti per l’immagine della Chiesa, i corvi hanno fatto un cattivo servizio e andavano fermati. L’errore è stato quello di coinvolgere nel processo anche i giornalisti. Ma VatiLeaks è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di vicende mal gestite. Sintomo di una situazione caotica».

È passata una settimana dalla sentenza che ha condannato Francesca Immacolata Chaouqui e monsignor Ángel Vallejo Balda per divulgazione di notizie riservate, e assolto i cronisti implicati, cioè chi vi scrive e Gianluigi Nuzzi. Se il finale del processo ha chiuso con intelligenza e coraggio (qualcuno dice con furbizia) una vicenda che per mesi ha messo in serio imbarazzo la Santa Sede, le conseguenze restano pesanti.

Non soltanto perché le sconcezze finanziarie, i lussi di alti prelati e gli episodi di corruzione pubblicati nei bestseller "Avarizia" e "Via Crucis" hanno dimostrato che «la Chiesa povera e per i poveri» voluta da Bergoglio è ancora utopia, ma anche perché la gestione dello scandalo ha evidenziato una sorprendente disorganizzazione interna, l’incapacità di costruire strategie comunicative vincenti e, soprattutto, nuove lotte intestine tra fazioni contrapposte.

Il compito dei nuovi capi della comunicazione (padre Federico Lombardi è stato sostituito subito dopo la fine del processo per limiti di età) non sarà dunque facile: sia l’americano Greg Burke, numerario dell’Opus Dei e finora vice del portavoce, sia il suo braccio destro Paloma Garcia Ovejero, preparata cronista spagnola, avranno il loro daffare per tenere la barra dritta.

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Perché l’anarchia denunciata dall’anziano cardinale, in Vaticano, sta diventando questione strutturale. Secondo qualcuno è lo stesso Francesco che ha eretto «il caos a principio» (copyright del teologo tedesco Robert Spaemann), e che nulla sia davvero casuale: non solo perché il gesuita Bergoglio è un pastore che sembra volersi concentrare - almeno in questo inizio di mandato - in primis sull’attuazione dell’insegnamento della parola di Cristo e dei Vangeli e sui rapporti con le altre confessioni (i viaggi ecumenici a Cuba, a Lesbo e in Armenia sono indiscutibili successi), ma perché il papa in persona ha più volte ribadito di volere «una chiesa accidentata», persino «ferita e sporca», ma aperta a tutti e distante dal potere e dalle «vecchie sicurezze» che la rendono chiusa al mondo.

Di certo lo stile di governo del papa, che è guida suprema della Chiesa e anche sovrano assoluto dello Stato Vaticano, è molto diverso sia rispetto a quello di Benedetto XVI (che aveva delegato la gestione del potere a Tarcisio Bertone) che a quello di Giovanni Paolo II, che in 27 anni di regno era riuscito a plasmare un blocco di potere granitico e inattaccabile.

Sotto accusa l’ex bertoniano Becciu
Francesco, finora, ha scelto una strada diversa. I suoi generali hanno grande autonomia gestionale, ma ognuno nel suo ambito specifico. I prefetti dei dicasteri quasi mai si parlano tra loro e spesso litigano su competenze e gestione della cassa. A parte le riunioni del C9, il consiglio ristretto dei cardinali che lo consiglia nel governo della Chiesa universale, il papa non tollera coloro che osano intervenire con lui su faccende non di loro stretta competenza.

«Se qualcuno si permette di sussurrargli consigli su dossier in mano ad altri cardinali, il pontefice si spazientisce e termina subito l’incontro. Li caccia via, letteralmente, anche quando i consigli sono più che validi. Il papa buono descritto dalla stampa è solo un lato del carattere di Francesco, che sa essere molto severo e duro», racconta uno dei prelati addetti all’agenda del pontefice. «Il problema è che così è molto difficile costruire strategie omogenee di governo, mediare tra le fazioni e proporre soluzioni condivise».

Il caos generato da VatiLeaks secondo alcuni è responsabilità di Angelo Becciu, il sostituto alla Segreteria di Stato a cui papa Francesco ha dato le chiavi di quello che è considerato il ministero dell’Interno della Città del Vaticano. È lui, ex bertoniano, amico sia del promotore di Giustizia sia del presidente del Tribunale, ad aver gestito la partita: ora sono in molti a criticare la decisione - presa in accordo con la Gendarmeria - di processare due cronisti con accuse che hanno fatto gridare la stampa di mezzo mondo a un attacco della Santa Sede alla libertà di informazione: i pm del papa hanno infatti contestato a me e a Nuzzi un improbabile «concorso morale» nella divulgazione dei documenti, attraverso «l’impulso psicologico» che, attraverso la loro «presenza e disponibilità», ha «contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie». Reato di scoop, ha commentato sorridendo qualcuno.
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«Becciu, che ha l’appoggio pieno del pontefice, è molto dispiaciuto. Anche arrabbiato. Perché sostiene di essere rimasto solo in questa vicenda. In effetti tutti sono andati per conto loro: il promotore diceva una cosa, la gendarmeria ne faceva un’altra, padre Lombardi ne comunicava una terza, "l’Osservatore romano" seguiva una linea tutta sua, mentre don Dario Viganò, prefetto per la segreteria della Comunicazione, se ne è lavato subito le mani», spiega sconsolato un prelato che lavora alla Segreteria di Stato. «Ovvio che il risultato è stato il caos totale, e che la nostra sconfitta sia stata inevitabile: avevamo tutte le carte in regola per istruire il processo, dovevamo proteggere il papa da chi l’ha tradito, ma l’abbiamo "governato" con insipienza e improvvisazione. Fortunatamente, il tribunale ha assolto sia lei che Nuzzi. La condanna non era mediaticamente sostenibile».

VatiLeaks è stato un boomerang e rischia di non essere l’unico. Molti sotto il cupolone hanno storto il naso quando alla fine dell’anno scorso Mariella Enoc, presidente del Bambin Gesù, con una denuncia formale concordata con il segretario di Stato Pietro Parolin ha di fatto aperto un’inchiesta sull’attico di Bertone, che il sottoscritto, in "Avarizia", ha dimostrato essere stato ristrutturato anche con i soldi della fondazione del nosocomio. Ben 422 mila euro che in teoria sarebbero stati destinati alla ricerca sulle malattie dei bambini e che sono stati invece usati per acquistare impianti stereo Bose e pavimenti in marmo di Carrara dell’appartamento del cardinale. I pm hanno aperto un fascicolo e hanno iscritto nel registro degli indagati due laici, l’allora presidente dell’ospedale Giuseppe Profiti, e il tesoriere Massimo Spina.

Dopo che lo scorso marzo "l’Espresso" ha pubblicato lettere e documenti che dimostrano che Bertone ha avallato tutta l’operazione ideata dall’amico Profiti, il Vaticano sembra adesso avere meno fretta e ha congelato la causa per peculato, appropriazione e uso illecito di denaro. Già: fossero rinviati a giudizio i due laici sarebbe infatti assai difficile lasciar fuori dal processo l’ex segretario di Stato.

Anche se il tribunale preposto ad indagare sui cardinali non è quello ordinario ma la Corte di Cassazione della Città del Vaticano (unico organo che ha il potere di aprire un’istruttoria sui peccati degli alti prelati di Santa Romana Chiesa), un processo a Bertone sarebbe il primo della storia a un cardinale. Sono in molti a non volerlo: non solo i monsignori più vicini al papa emerito Benedetto XVI che già considerano l’inchiesta sull’attico un grave sgarbo a Ratzinger (il tedesco ha sempre difeso il suo principale collaboratore sia prima sia dopo la rinuncia al soglio petrino), ma anche coloro che temono che l’incriminazione di Bertone possa dare la stura a decine di altre inchieste. Perché non è certo l’ex segretario di Stato l’unico, nelle gerarchie ecclesiastiche vaticane, ad avere scheletri nascosti nell’armadio.

Ridimensionato il "ranger" Pell
Qualche macchia ha sporcato anche il curriculum dei due protagonisti dell’ultima battaglia che ha scompigliato i traballanti equilibri d’Oltretevere, ossia George Pell, l’australiano voluto da Francesco come prefetto della Segreteria dell’Economia, e Domenico Calcagno, porporato promosso da Bertone e rimasto saldamente sulla poltrona di presidente dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio finanziario e immobiliare della Santa Sede, anche nel regno di Francesco. La coppia ha cominciato a darsele di santa ragione a partire dall’estate del 2014, quando il "ranger" venuto da Ballarat per moralizzare la corrotta curia romana ha chiesto via e-mail a Calcagno di «procedere senza alcun ritardo alla transizione delle attività» dell’Apsa al suo nuovo dicastero, compresa la gestione di migliaia di appartamenti romani controllati dall’ente.

Dopo la pubblicazione su "l’Espresso" di un verbale di un incontro in cui un gruppo di cardinali ha deciso di prendere le difese di Calcagno (pezzi da novanta come il camerlengo Jean-Louis Tauran, lo stesso Parolin, Giovanni Battista Re, Giuseppe Versaldi e il cardinale Attilio Nicora hanno censurato la «sovietizzazione» imposta da Pell), lo scontro per le competenze si è fatto ancora più duro e incerto. Anche perché Francesco ha cambiato più volte parere: inizialmente ha appoggiato, anche attraverso un "Motu Proprio", il fedelissimo australiano. Poi ha cambiato idea e qualche giorno fa, con un altro documento, ha sancito definitivamente la "summa divisio" delle competenze tra Segreteria per l’Economia e Apsa: a Pell competerà soltanto «il controllo e la vigilanza» sull’attività di quella che molti considerano la banca centrale vaticana.

Sulla gestione del patrimonio miliardario il "ranger" non potrà di fatto toccare palla, anche perché Francesco ha riaffermato il sacrosanto principio che il controllore non può essere anche il controllato: il rischio di evidenti conflitti d’interessi è stato superato. Ma la tensione tra i contendenti e le relative tifoserie resta alta, tanto che Francesco ha deciso di delegare il cardinale Velasio De Paolis, presidente emerito della prefettura degli Affari economici, ad "arbitro" ufficiale della partita: sarà lui a dover di volta in volta dirimere le possibili questioni tra i due organismi.

Ma sono in tanti a storcere il naso. Non tanto nel merito (la supersegreteria sognata da Pell non piaceva a nessuno), quanto nella scelta di Francesco di premiare soggetti che molti vorrebbero ridimensionati. L’australiano è infatti finito nel mirino per spese fuori controllo fatte durante i primi mesi da prefetto (stipendi da 15 mila euro al suo segretario, acquisto di abiti su misura, voli in business class e shopping nei negozi di arredamento), ma soprattutto è stato chiamato a Roma quando era già noto che alcune vittime di preti pedofili lo additavano, ai tempi in cui era vescovo in Australia, come un protettore di sacerdoti deviati e come ideatore, ha scritto l’editorialista Judy Courtin, di un sistema volto a «minimizzare i reati, occultare la verità, manipolare e sfruttare le vittime». Nonostante i giudici della Commissione governativa d’inchiesta abbiano in un rapporto preliminare spiegato che Pell «mancò di agire equamente da un punto di vista cristiano», attualmente il cardinale non solo è saldo sulla sua poltrona (il papa gli ha rinnovato la fiducia poche settimane fa), ma resta ancora membro del C9.

E monsignor Rambo finisce indagato
Anche la vittoria di Calcagno è mal vista da coloro che sperano ancora nella rivoluzione della trasparenza voluta da Bergoglio: l’ex bertoniano di ferro, chiamato "Monsignor Rambo" perché nella sua casa a Savona custodiva una dozzina tra pistole Smith&Wesson, fucili Remington e carabine calibro 12 di fabbricazione turca (per uso sportivo e per collezione, tutte regolarmente registrate), non solo usa una grande proprietà agricola dell’Apsa dove ha costruito il suo buen retiro nelle campagne di Roma, ma qualche settimana fa è pure finito nel registro degli indagati per malversazione: quando era vescovo della città ligure, l’attuale presidente dell’Apsa avrebbe avallato spericolate attività immobiliari di due collaboratori dell’Istituto per il sostentamento del clero. Operazioni e investimenti sballati che hanno devastato i bilanci dell’ente (che, come gli altri, sopravvive grazie alle donazioni dell’8 per mille). Uscita la notizia, la Santa Sede ha fatto prontamente quadrato intorno al prelato, evidenziando che «nessuna delle indagini è collegata in alcun modo con il patrimonio vaticano e con gli incarichi ricoperti dal cardinale» a Roma.

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Lo diceva il nipote del principe di Salina, Tancredi, nel "Gattopardo". In Vaticano, davanti a certi andazzi e certe resistenze della curia, la frase la ripetono in molti. Soprattutto sul piano della gestione della pecunia e del potere», ripete il cardinale. Che ricorda sbalordito anche lo scontro furibondo, a colpi di veline e comunicati stampa, tra il solito Pell e il segretario di Stato Parolin in merito al contratto da 2 milioni di euro l’anno a salire - stipulato dal primo - con la PricewaterhouseCoopers, una società di revisione americana chiamata a certificare i bilanci dei 190 tra enti economici vaticani, congregazioni e fondazioni pontificie.

Lo scorso aprile, improvvisamente, la Segreteria di Stato ha deciso di «sospendere» la convenzione. L’entourage del "ranger" ha duramente criticato la scelta di Parolin e Becciu, lasciando intendere che fosse una mossa reazionaria della corrotta curia romana contro l’opera di trasparenza portata avanti dalla Segreteria dell’Economia. In realtà la Segreteria di Stato ha deciso di far modificare alcune clausole che davano libero e obbligatorio accesso al gruppo Usa nei conti e dei documenti di qualsiasi ente vaticano. Un potere d’intervento che molti prefetti hanno considerato abnorme. Sono state le loro proteste vibranti, su tutte quelli del "papa rosso" Fernando Filoni, numero uno della potente Congregazione Propaganda Fide, a bloccare l’operazione. Anche in questo caso l’australiano ha perso la partita: il nuovo accordo chiuso qualche giorno fa prevede che PwC potrà mettere naso nei bilanci solo su espressa richiesta dei singoli enti, e che il suo ruolo sarà solo di assistenza all’ufficio preposto al compito, ossia quello del Revisore Generale istituito due anni fa e guidato da Libero Milone. «Qualcuno pensa che si siano fatti passi indietro sulla strada della trasparenza, altri che si sia evitato il rischio che una società straniera potesse mettere becco su ogni cosa», chiosa il cardinale.

Se l’onda lunga arriva allo Ior
L’infinita guerra tra fazioni rischia di fare a breve una nuova vittima: il presidente dello Ior Jean-Baptiste de Franssu. Nominato su pressione di Pell e del finanziere maltese Joseph Zahra, Francesco ha bocciato qualche mese fa la sua ipotesi di costituire un fondo di investimenti vaticano in Lussemburgo, mentre di recente il presidente della commissione cardinalizia di vigilanza, Santos Abril y Castelló, ha criticato in privato i risultati della sua gestione. Due membri del board si sono già dimessi, e un potere crescente è finito nelle mani del neodirettore generale Gianfranco Mammì. Difficile che de Franssu venga cacciato prima della sua scadenza, ma nessuno scommette un centesimo sul suo rinnovo.

Anche in Italia il banchiere non è molto amato: né lui né l’Aif (l’Autorità di informazione vaticana) hanno infatti mai consegnato agli ispettori della Banca d’Italia la lista dei centinaia di titolari di conti sospetti chiusi negli ultimi anni. «Nel torrione dello Ior non c’è alcuna anarchia, la legge del silenzio resta imperante», sorride il cardinale. Già: per "ripulire" la banca dal 2008 i vecchi clienti (probabili evasori, forse riciclatori) sono stati fatti fuggire tutti all’estero. Ma nessuno ha consegnato alle autorità italiane i loro nomi.

Qualcuno, nonostante i recenti proclami di rinnovamento, è rimasto dentro la banca degli scandali: come l’imprenditore Angelo Proietti, accusato di bancarotta fraudolenta dalla procura di Roma, il cui conto allo Ior (ma non dovevano essere tutti chiusi?) è stato congelato un mese fa. E qualche giorno fa Ilaria Sacchettoni del "Corriere" ha svelato che gli uomini dell’antiriciclaggio hanno messo nel mirino altri conti con movimentazioni sospette, come quelle dell’ex amministratore della Tirrenia Franco Pecorini (da Gentiluomo di Sua Santità ha diritto al conto corrente), dell’imprenditore Giovanni Morzenti (amico del latitante Amedeo Matacena), fino a quello del re dei postulatori Andrea Ambrosi, avvocato specializzato nelle costosissime cause di beatificazione della fabbrica dei Santi.

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