Sconti sul gasolio, pedaggi ridotti, deduzioni fiscali, contributi. A tutto questo ora si aggiunge l’ultima decisione del leader leghista: esautorare l’Authority che vigila sul settore

L'Italia è una Repubblica fondata sull’autotrasporto. Un esercito di 510.885 tra furgoni e camion e Tir che trascinano 285.178 semirimorchi e 42.684 rimorchi su e giù il Paese portando a destinazione l’88 per cento di tutte le merci circolanti in Italia. Con un giro d’affari mostruoso, capace di superare i 50 miliardi l’anno.

 

In quel mondo c’è di tutto. Imprese come la trentina Arcese Trasporti fondata dal ciociaro Eleuterio Arcese da Arce, provincia di Frosinone, classe 1933. Che se mettesse in fila tutti i suoi 3.290 mezzi coprirebbe senza fatica la distanza che separa Milano da Bergamo. Ma ci sono pure padroncini che hanno a malapena un vecchio camion. E perfino fantasmi. Proprio così: fantasmi.

 

Non ci credete? All’albo degli autotrasportatori sono iscritte 106.796 imprese. Ma circa 21 mila di queste non risultano avere neppure un carretto. Una su cinque. Curioso, no? La cosa salta fuori da una indagine conoscitiva dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti, assieme ad altri misteri. Per esempio, quello del codice “Ateco” con cui l’Istat classifica ogni attività economica. L’autotrasporto ha il 494100. Se ne deduce che le 106.796 ditte di cui sopra dovrebbero avere tutte quell’unico codice. Ne hanno invece contati 350 diversi. Trecentocinquanta.

 

Impossibile non farsi qualche domanda. La più ovvia: per caso c’entra qualcosa la valanga di contributi pubblici che ogni anno va al settore dell’autotrasporto? Ben 978 milioni, nel 2022. Sconti sul gasolio, le riduzioni dei pedaggi autostradali, deduzioni fiscali, fondi per la formazione, indennizzi per il crollo del viadotto Morandi a Genova (186 milioni in tre anni), contributi per il rinnovo del parco veicoli, crediti d’imposta e altro ancora. La gamma dei benefit è puntualmente descritta nel documento dell’Autorità, che per legge ha il compito di fissare anche le regole del settore dell’autotrasporto. E a un certo punto decide di vederci chiaro in questo mondo popolato da ombre.

 

L’indagine conoscitiva dura quasi un anno e quando sta per essere pubblicata ecco il colpo di scena. Il 7 agosto 2023 un articolo infilato in un decreto legge toglie all’Authority presieduta da Nicola Zaccheo ogni competenza sull’autotrasporto. Ha tutto il sapore di un’azione preventiva per far capire chi comanda. Autore, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini.

 

Da anni la Lega coccola gli autotrasportatori, evitandogli in tutti i modi il pagamento del contributo dovuto per legge dalle imprese all’Authority che regola la loro attività. E questo nonostante, in base al fatturato, sia tenuto a pagarlo appena il 2 per cento. La manovra ha apparente successo per il 2019 e il 2020, poi all’inizio del 2021 il Consiglio di Stato sentenzia che il contributo è comunque dovuto. La Lega però torna al governo con Mario Draghi e ha buon gioco nel marzo 2021 a far scaricare l’onere di 1,4 milioni sul bilancio dello Stato, con la scusa del Covid. L’anno dopo c’è un’altra bella scusa: la guerra in Ucraina. Dunque paga ancora lo Stato. Come nel 2023. Prima che venga sferrato, il 7 agosto, il colpo finale cancellando direttamente i poteri dell’Authority sul settore. Sull’autotrasporto Zaccheo ora è un abusivo. E la sua indagine, per quanto esplosiva, non conta niente.

 

«Abbiamo eliminato il balzello che gli autotrasportatori davano all’Autorità dei Trasporti. Faremo noi gratis quello che prima costava a loro», proclama Salvini nell’occasione. Ma si fa presto a dire gratis. Perché gratis non è. Prima pagavano quei pochi soldi le imprese più grandi, adesso pagano tutti i contribuenti. In aggiunta, poche ore dopo Salvini sblocca altri 300 milioni di credito d’imposta a favore dell’autotrasporto per il caro carburante. Come sollecitano tutte le associazioni di categoria. In testa a tutte, quella di Paolo Uggè.

 

Fabrizio Palenzona.

 

Sindacalista della Cisl, poi tribuno dei padroncini, alla fine degli anni Novanta capeggia la serrata dei camionisti contro l’Europa e non si ferma più. Segretario generale della Conftrasporto, promosso sottosegretario nei governi di Silvio Berlusconi e nominato nel 2006 deputato di Forza Italia. Infine, quello stesso anno, presidente della Fai, la Federazione degli autotrasportatori. È la più potente lobby dei camionisti: creatura di Fabrizio Palenzona, il fondatore nel 1981 dell’Unitra, un gigantesco consorzio di imprese di autotrasporto che dirige fino al 1995. Per 16 anni, dal 1990, è presidente della Fai prima di passare il testimone a Uggè.

 

In pochi personaggi come lui negli ultimi decenni si è riscontrata una tale concentrazione di potere, unita a un simile intreccio d’interessi. Il che spiega l’enorme influenza su certe decisioni politiche, in un Paese piegato al volere delle lobby. Per un certo periodo, nella metà degli anni Duemila, Palenzona è contemporaneamente presidente della Federazione Autotrasportatori e dell’Aiscat, l’associazione dei concessionari autostradali egemonizzati dal gruppo Benetton. Paga i pedaggi e allo stesso tempo li incassa. Ma è anche vicepresidente di Unicredit e consigliere di Mediobanca, dov’è arrivato in seguito a un’incredibile circostanza. Caso vuole che a metà degli anni Novanta Palenzona sia presidente della Provincia di Alessandria, eletto con la Margherita. Come tale deve designare un membro della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, azionista di Unicredit. E designa sé stesso.

 

Ancora oggi Palenzona è presidente di Aiscat servizi. E da trent’anni è ancora alla testa di Fai service, nel cui consiglio figura pure Uggè.

 

Di fronte a uno sgambetto tanto violento ai danni di un’autorità indipendente potrebbe sorprendere il silenzio dell’opposizione. A sorprendere, ma in senso opposto, sono invece le parole di Debora Serracchiani, ex vicesegretaria del Pd, che rivendica di aver proposto anni fa la stessa misura decisa da Salvini. E va anche oltre. Allarga addirittura il campo al settore degli scali marittimi: «Nuovi e pesanti poteri attribuiti all’Autorità dei Trasporti rischiano di intaccare l’ambito di competenza delle autorità portuali».

 

Musica per le orecchie di Salvini. Dopo aver firmato un decreto che conferma all’Authority il potere di indicare le regole a cui si devono attenere le autorità portuali per assegnare le concessioni ai privati, a un convegno organizzato dagli enti che gestiscono i porti il leader della Lega fa marcia indietro: «Non può essere un algoritmo o un’Authority a decidere le concessioni per le autorità portuali».

 

I tamburi di guerra risuonano anche in riva al mare. A maggio dello scorso anno si è tentato con alcuni emendamenti di privare l’Authority dei contributi dovuti dai concessionari portuali, come già accaduto per i camionisti. Nell’occasione, a Lega e Forza Italia si aggiungono i grillini e Italia Viva, però il blitz fallisce e gli emendamenti evaporano. Successivamente i leghisti hanno attaccato sul fronte delle concessioni autostradali per limitare i poteri dell’Autorità, ma l’emendamento di nove parlamentari salviniani è stato dichiarato inammissibile. E la scorsa estate, a poca distanza, sfuma un altro affondo.

 

Ormai l’urto è frontale. Salvini considera l’azione e i poteri dell’Autorità una indebita interferenza nell’attività e nelle prerogative del suo ministero. Se potesse, prenderebbe volentieri e senza indugio lo scalpo di Zaccheo. La trappola è pronta lo scorso 25 luglio, con un emendamento a un decreto legge (il numero 75) allora all’esame del Parlamento. Il piano, quello di trasferire al ministero del leader della Lega diversi poteri dell’Authority in materia di servizi sulla mobilità di passeggeri e merci in stazioni ferroviarie, porti e aeroporti. E assieme a quelli passeranno al ministero anche 40 dipendenti. Mutilando di un terzo delle proprie risorse l’Autorità, che di dipendenti al 31 dicembre 2022 ne ha in tutto 115. Ma anche questo assalto viene respinto: l’emendamento rimane nei cassetti del governo.

 

Per adesso. Perché non soltanto quella dei Trasporti, ma tutte le autorità indipendenti non possono essere nelle corde di una maggioranza sovranista come quella oggi alla guida dell’Italia, convinta che governare sia semplicemente un sinonimo di comandare. La guerra è dichiarata. Si tratta solo di aspettare.