L'imprenditore di Arezzo era stato condannato per il fallimento di Eutelia e poi è finito implicato in business sospetti coi crediti green. La sua ultima avventura: fondare una chiatta-Stato in acque internazionali. E qui sarebbe morto durante un naufragio

Nel marzo del 2022 il jet privato di George Weah, allora presidente della Liberia, atterra all’aeroporto di Dubai. Ad attendere l’ex campione del Milan sulla pista, su un tappeto rosso, c’è un italiano di mezza età vestito di tutto punto. I due si scambiano un cenno di intesa prima di salutarsi con un colpetto di gomito.

 

Quell’uomo è Samuele Landi. Si trova lì in veste di console del Paese africano negli Emirati Arabi. Per lo Stato italiano, però, Landi non è un rampante diplomatico, ma un latitante. Con alle spalle una condanna definitiva a 8 anni per la bancarotta fraudolenta di Eutelia. Il colosso delle telecomunicazioni mandato in rovina alla fine degli anni 2000, lasciando migliaia di lavoratori per strada.

 

Landi non sconterà mai un giorno di carcere. Con tutta probabilità, la sua vita si è chiusa tragicamente all’inizio di febbraio quando una tempesta ha spezzato la chiatta arrugginita che, da poco più di un anno, l’aretino stava provando a trasformare in un utopico paradiso fiscale galleggiante in acque internazionali. L’ultima fermata di una lunga corsa piena di intrighi. Dalla fuga dalla giustizia italiana alla latitanza dorata a Dubai, passando per gli affari “green” in Africa e i rapporti con sceicchi e capi di Stato.

 

Rampollo di una famiglia di assicuratori d’Arezzo, Samuele Landi si inventa imprenditore a cavallo del nuovo millennio. In un garage fonda un’azienda di telecomunicazioni che poi diventerà nota in tutta Italia come Eutelia. In breve tempo, si ritaglia una fetta importante di un mercato in crescita: quello dei numeri a pagamento. Oroscopi, servizi meteo, fattucchieri.

La chiatta nel film di Oswald Horowitz, “The Legend of Landi: Requiem for a Floating City”

 

Da questo Far West i soldi arrivano a valanga. Forte di un fatturato da centinaia di milioni di euro, Eutelia si lancia in una faraonica campagna di acquisizioni. Si quota in Borsa e poi si prende i resti dell’ex Olivetti. L’ascesa sembra inarrestabile.

 

Ma la patina d’oro luccicante nasconde una montagna di debiti. Gli ingranaggi del giocattolo iniziano a incepparsi, uno dopo l’altro, molto rapidamente. Nel 2008 un’ispezione della Guardia di Finanza rileva irregolarità contabili. Si scoprirà poi che mentre le perdite lievitavano, Landi & co avrebbero aggiustato i conti e fatto sparire circa 100 milioni all’estero. La maschera è caduta: dopo flebili tentativi di risolvere la crisi con governo e sindacati, per Eutelia non rimane altro che la strada del fallimento.

 

Quando nel luglio 2010 i finanzieri si presentano con un mandato d’arresto per bancarotta fraudolenta, di Samuele Landi non c’è più traccia. È a Dubai. Lui dice che già da tempo aveva lì la residenza e di essere semplicemente in cerca di maggiore libertà. La mancanza di un trattato di estradizione con gli Emirati Arabi sicuramente gliela garantisce.

 

Samuele Landi non tornerà mai in Italia. Ma, in sua assenza, i processi proseguono e le condanne fioccano. Otto anni di reclusione nel troncone principale, a Firenze – ormai definitivi – e sei anni e sei mesi in appello in un procedimento separato a Roma. Landi non accetterà mai le sentenze, gridando ripetutamente al complotto dal buen retiro di Dubai. «Non c’è nessuna prova che io abbia rubato un solo euro», diceva a L’Espresso pochi mesi fa. «È tutto frutto della corruzione dei giudici italiani».

 

Nel frattempo, l’aretino si costruisce una nuova vita sulle sponde del Golfo Persico. Prima si lancia nella produzione di telefonini ad alta sicurezza con crittografia di livello militare. Poi intraprende la strada della diplomazia, diventando console della Liberia negli Emirati Arabi. Landi si vanta di avere facilitato la costruzione di ospedali, strade e centri sportivi nel Paese africano.

 

Il ruolo apre anche le porte dei palazzi più prestigiosi di Dubai. Un giorno Landi accompagna una delegazione liberiana da Ahmed Dalmook Al Maktoum, membro della famiglia reale di Dubai. Lo sceicco ha in mente un progetto faraonico che, sulla carta, potrebbe fruttare miliardi di dollari. Vuole produrre crediti di carbonio – certificati verdi usati da aziende e Stati per compensare le proprie emissioni di CO2 – su una scala mai vista prima. Per farlo Al Maktoum punta a stringere accordi con governi di Paesi in via di sviluppo, assumendo il controllo di enormi tratti di foresta tropicale dietro la promessa di ricchi investimenti.

 

Landi nella sede Eutelia

 

Landi diventa un advisor di Blue Carbon, l’impresa dello sceicco. L’aretino sostiene di avere soltanto fornito delle consulenze informatiche. Ma, l’anno scorso, a siglare uno dei primi accordi preliminari con Blue Carbon è proprio la Liberia di cui lui è rappresentante. Seguiranno poi intese con decine di Paesi africani e caraibici, che se tramutate in contratti, potrebbero mettere nelle mani dello sceicco territori estesi quanto il Regno Unito.

 

I piani di Al Maktoum scatenano allarme. Per la lotta al cambiamento climatico, innanzitutto. i crediti di carbonio derivanti dalla protezione delle foreste tendono a sovrastimare la quantità di CO2 catturata con il risultato che diventano più funzionali a operazioni di greenwashing che a un reale taglio delle emissioni.

 

Ma, secondo Alexandra Benjamin, esperta in materie forestali per l’associazione Fern, i problemi vanno oltre. «Questi accordi sono una seria minaccia per le comunità rurali africane che in quelle foreste ci vivono», dice a L’Espresso. La paura è che, per realizzare i piani dello sceicco, le popolazioni indigene vengano sfrattate o private delle risorse necessarie per il proprio sostentamento.

 

Le preoccupazioni sono lecite. Il governo della Liberia «fornirà totale agevolazione a Blue Carbon» al fine di garantire «pieni diritti, senza ingombro, sui terreni» facenti parte del programma. Così viene scritto nell’accordo preliminare tra l’azienda emiratina e l’esecutivo di Monrovia di cui L’Espresso ha preso visione.

 

Blue Carbon si dà un gran da fare. L’obiettivo è mettere i progetti in bella mostra alla conferenza globale sul clima che si tiene nel dicembre 2023 proprio a Dubai. Samuele Landi, però, non partecipa a Cop 28.

 

Da quasi un anno, ormai, si è trasferito sulla sua isola galleggiante nel Golfo Persico. Si tratta di una vecchia chiatta grande poco più della metà di un campo da calcio ancorata in acque internazionali. Landi ci vive con quattro tuttofare di origine indiana. La sistemazione è spartana: una serie di container, qualche pannello solare per l’energia elettrica e un piccolo impianto di desalinizzazione per l’acqua potabile.

 

Ma Landi sogna in grande. Punta a espandersi fino a creare un’organizzazione autonoma capace di ospitare 5 mila persone, autofinanziandosi con operazioni online tra cui l’estrazione di criptovalute. Tra i benefici anche quelli di non dover pagare tasse ed essere ancora più lontano dalle autorità italiane, che, nel frattempo, hanno iniziato a rimpatriare alcuni latitanti di peso da Dubai. «L’idea è di creare un posto in cui la gente possa vivere senza essere assoggettata al matrix», diceva Landi a L’Espresso in uno degli ultimi colloqui. «Nessuno può costringermi a mangiare insetti o carne finta o dirmi quali punture mi debba fare».

 

È la massima espressione dell’utopia libertaria. L’idea di Landi non è nuova. Già negli anni ’60 il bolognese Giorgio Rosa aveva provato a fondare uno Stato-palafitta al largo della costa romagnola. Ma il sogno del seasteading è tornato prepotentemente in voga di recente, fomentato dall’ansia per pandemie e distruzione climatica e dal paranoico terrore dello Stato tiranno. Decine di progetti sono in fase di ideazione, contando anche sul sostegno di miliardari della Silicon Valley come Peter Thiel, fondatore di PayPal. Landi, però, si considera un vero pioniere. «Tanta gente parla di seasteading ma lo fa solo dal comfort del proprio ufficio», diceva Landi qualche mese fa dalla sua chiatta. «Sono consapevole delle sfide e dei vantaggi di essere qui a fare questo test».

 

Il 2 febbraio le comunicazioni tra l’aretino e i suoi familiari si interrompono improvvisamente. Il giorno seguente la Guardia Costiera di Dubai recupera due naufraghi di origine asiatica in mezzo al mare. Sono operai sulla chiatta. Successivamente vengono ripescati due cadaveri irriconoscibili. Le impronte digitali di uno di essi corrispondono a quelle di Samuele Landi, secondo quanto riportato dalla stampa. Solo l’esito del test del Dna potrà dare la conferma definitiva.

 

Ma che cosa è successo? Il filmaker britannico Oswald Horowitz, che sta realizzando un film sull’isola galleggiante, ha parlato con uno dei superstiti. Racconta che una forte tempesta ha spezzato di netto la chiatta arrugginita sbalzando i suoi abitanti, tra cui Samuele Landi, in acqua. I due superstiti si sarebbero aggrappati ad assi di legno prima di essere spinti via dal vento. Per gli altri non ci sarebbe stato niente da fare.