Ufficialmente, era stata una visita di cortesia. Il vicepresidente americano J.D. Vance aveva incontrato Papa Francesco in Vaticano in un colloquio breve ma cordiale, come da comunicato diffuso dalla Casa Bianca. Parole di gratitudine, cenni all’ospitalità ricevuta durante la Pasqua, persino un tocco personale: Vance, convertito da poco al cattolicesimo, si era detto onorato di aver preso parte alla celebrazione della Passione del Signore a San Pietro.
Tutto limpido, tutto protocollo. Ma come spesso accade nei palazzi vaticani, la parte più interessante della storia si è giocata lontano dai riflettori. Secondo quanto risulta da fonti ben informate Oltretevere, Papa Francesco non avrebbe affatto desiderato questo incontro, l'ultimo prima della sua scomparsa. L’ha accettato, seppur a malincuore, su pressione del Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, che ha temuto un incidente diplomatico con Washington nel delicato equilibrio internazionale attuale. Ma il punto, ora, spiegano ambienti vicini alla diplomazia pontificia, è un altro: c’è chi teme che Donald Trump stia lavorando per condizionare il prossimo conclave. E che l’invio di Vance – volto giovane, apparentemente innocuo, ma fedelissimo alla linea dura – sia stato in realtà un "messaggio".
Negli ambienti più riservati della Curia romana si vocifera che il vero obiettivo del presidente Usa sia piazzare un uomo dell’ala conservatrice al soglio di Pietro, nel solco di quella diplomazia parallela che già ha visto sponde importanti in alcune conferenze episcopali americane. Anche a questo servirà la presenza del presidente statunitense Trump a Roma in occasione dei funerali di Papa Francesco. E non è un mistero che in Vaticano si guardi con diffidenza a certe manovre, né che si consideri Trump un interlocutore problematico, sul piano sia politico che ecclesiale. Da qui il gelo iniziale dell'ormai defunto Papa, le resistenze, e infine la concessione dell’incontro, solo dopo l’intervento diretto di monsignor Parolin.
C’è un filo sottile ma resistente che unisce l’Assemblea nazionale del Partito democratico, le prossime elezioni regionali e l’orizzonte politico del 2027. È la strategia di Elly Schlein, che da mesi lavora per trasformare il consenso interno in una forza elettorale capace di incidere, dentro e fuori il partito. E le prossime elezioni regionali, che vedranno al voto cinque regioni cruciali, sono il banco di prova decisivo.
L’obiettivo, sussurrato nei corridoi del Nazareno, è chiaro: una vittoria per 4 a 1. In questo scenario, il risultato delle Regionali diventa strategico. In Puglia e nelle Marche il Pd potrebbe calare i suoi assi: Antonio Decaro e Matteo Ricci, due figure di peso, capaci di attrarre voti trasversali. In Toscana si pensa alla riconferma di Eugenio Giani, che gode di un buon consenso nonostante le tensioni con i 5 Stelle. E in Campania la coalizione larga, con Vincenzo De Luca o senza, è considerata una garanzia. Resta l’incognita Veneto, terreno storicamente ostile per il centrosinistra, dove la partita appare più complicata. Ma anche qui si lavora per costruire un profilo civico, in grado di sfidare l’egemonia leghista.