Doveva essere la prima missione per imporre la pace, la rinascita dell'Onu dopo la fine della guerra fredda. I caschi blu stavano sbarcando in Somalia, nel tentativo di salvare un popolo affamato da carestia e milizie.
In quegli stessi giorni, su uno yacht a largo di Monaco un imprenditore italiano consegnava una valigetta piena di dollari a un funzionario della Nazioni Unite. Tra champagne e ostriche, mentre i somali imploravano un aiuto, i due si erano appena messi d'accordo su come pilotare l'appalto per la base di Mogadiscio che avrebbe ospitato le truppe internazionali.
Dieci anni dopo, nel 2003, l'Onu decide di spedire un'armata nella Liberia rasa al suolo dai massacri tribali. E lo stesso funzionario avrebbe smistato telefonate confidenziali dal suo ufficio nel Palazzo di Vetro. Dall'altro capo della linea amici italiani pendevano dalle sue labbra per fregare i concorrenti nella gara del contratto e rifilare razioni a 16 mila soldati con la bandiera azzurra.
Sono due capitoli nella saga criminale portata avanti per tre lustri lucrando sulle forniture della più importante organizzazione internazionale: un romanzo del malaffare che ha mostrato la predominanza di due grandi scuole della corruzione. Quella russa, incarnata nella figura di Alexander Yakovlev, un genio del male che ha intrecciato una rete mondiale di relazioni senza scrupoli. E quella italiana, che ha esportato a New York tutte le tecniche messe a punto negli anni d'oro di Tangentopoli.
Non è una battuta: gli stessi manager che nel 1992 finirono a San Vittore hanno aperto filiali all'ombra delle Nazioni Unite per mettere a frutto la loro esperienza criminale. Abituati ai boiardi della Prima Repubblica, si intendevano al volo con i padrini moscoviti dell'Onu. Tra loro negli scambi di mazzette si chiamavano con un nome in codice, riportato nelle intercettazioni, che racchiude una sintonia profonda: 'Best friend', il migliore amico.
L'ora degli sceriffi
Le prime crepe nel Palazzo di vetro si sono aperte con lo scandalo Oil for food, le vendite di petrolio concesse all'Iraq di Saddam Hussein in deroga all'embargo per comprare cibo e medicine. La conquista di Baghdad ha permesso all'Fbi di smascherare il vero volto di quell'operazione gestita dall'Onu: i soldi del greggio finivano nelle mani del regime, di imprenditori compiacenti e di pezzi grossi delle Nazioni unite.
Alla fine del 2005 le rivelazioni raccolte dall'inchiesta statunitense costringono anche il segretario generale Kofi Annan a fare qualcosa, per evitare che la credibilità dell'Organizzazione venga travolta. Viene creata così una task force speciale, con poteri limitati all'interno delle Nazioni unite: solo sei uomini, guidati dall'ex procuratore federale americano Robert Appleton (leggi l'intervista).
Il modello sono 'Gli intoccabili': un nucleo a prova di ogni tentazione, che riesce però a portare alla luce una montagna di illeciti: stanno indagando su 700 contratti. Appleton e i suoi si muovono senza rispettare le consuetudini bizantine dei rituali Onu e i complessi assetti diplomatici. Vanno avanti come la squadra della Chicago di Al Capone, creando imbarazzi tra i notabili delle Nazioni Unite e lo stesso Annan (leggi).
Il punto di partenza dell'indagine è stato proprio 'il migliore amico', Yakovlev: il travet formato nell'Urss e inserito nei ranghi dell'Onu nei primi mesi del disgelo di Gorbaciov, messo alle strette dall'Fbi ha fatto il pentito. Ha patteggiato: immunità in cambio di verbali su tutto il grattacielo delle tangenti, un ventennio di corruzione dal 1985 in poi.
Molti sospettano che abbia ammesso solo ciò che non poteva negare, dissotterando soltanto una parte del suo bottino. Ma da soli i suoi racconti compongono una soap opera infinita con protagonisti di tutti i continenti e una sola lingua: quella dei dollari.
Base Mogadiscio
Per i soldati italiani quel nome è sinonimo di casa: Corimec infatti è l'azienda che fornisce gli alloggi prefabbricati per le missioni. Nei Balcani, in Afghanistan, in Libano migliaia di militari vivono per mesi dentro i Corimec. Ma all'inizio degli anni Novanta la stagione delle spedizioni non era ancora cominciata: l'impresa lombarda contava solo sul business della protezione civile, fornendo i container per le emergenze.
Poi l'idea: infilarsi nei contratti Onu. All'epoca la società apparteneva per metà alla Cagiva, il marchio delle moto di Gianfranco Castiglioni, e per metà alla famiglia Braghieri che ne curava la gestione. È proprio Leopoldo Braghieri a scoprire la strada giusta per il Palazzo di vetro. Si rivolge a un mediatore francese, Yves Pintore, che gli apre le porte dell'ufficio di Yakovlev.
I tre si capiscono subito: al russo andrà il 2 per cento su ogni commessa. Due per cento è una formula magica: vincono subito un appalto per 500 bungalow prefabbricati destinati alla Somalia. Due milioni e mezzo di dollari, valuta pregiatissima nei giorni neri della lira.
È il primo successo, proseguito per anni fino a garantire un fatturato di 30 milioni di dollari. Secondo il racconto riferito da Pintore alla Task Force, Braghieri è entusiasta: ad agosto 1993 avrebbe organizzato un party sul suo yacht in Costa Azzurra, ospiti d'onore Yakovlev e signora a cui consegna una valigetta di pelle con 145 mila biglietti verdi. Ma l'imprenditore nega e il brasseur francese non è stato testimone diretto dello scambio. E Yakovlev? Non ricorda, come sarebbe accaduto per altri scambi cash.
Conto Best friend
Chi trova un amico, trova un tesoro. Leopoldo Braghieri se ne ricorda quando rompe con la Cagiva e si mette in proprio. Il settore è lo stesso: prefabbricati. Cambia la sigla, ora si chiamano Cogim, ma non le abitudini. Nel '97 va da Yakovlev e apre il portafogli: il solito 2 per cento. Racconta il 'gran pentito' moscovita: "Braghieri mi disse che i bonifici non sarebbero arrivati dai conti dell'azienda, per questo stabilimmo che li avrei riconosciuti dall'indicazione 'Best friend'".
In quattro anni piovono appalti per 13 milioni: in cambio, al russo ne arrivano 4-500 mila. Questa almeno è la cifra che lui ammette, mentre una fonte confidenziale ha parlato agli investigatori di "circa 720 mila dollari di tangenti dalla Cogim". In questo caso, le prove raccolte dagli Intoccabili causano l'espulsione della ditta dai fornitori dei caschi blu.
Non solo: gli atti vengono trasmessi alla Procura di Milano: il pm Alfredo Robledo scatena la Guardia di Finanza. Poi interroga il boiardo dell'Onu, che conferma le rivelazioni. Di fronte a questo accerchiamento transatlantico l'azienda tenta una doppia difesa. Leopoldo Braghieri ammette le bustarelle, ma dichiara di essere stato costretto a pagare: "C'erano in ballo 28 milioni di dollari, mi avrebbe tagliato fuori".
Inoltre la Cogim spiega che tutta la gestione è in mano al figlio, Filippo Braghieri, estraneo alle mazzette paterne. Peccato che a Yakovlev non piaccia fare la parte del ricattatore e ricambia: "Ho incontrato il figlio e mi fece capire che era a conoscenza di tutto. Mi disse che il padre era andato in pensione e che avrei tenuto i contatti con lui", accusa ribadita anche davanti al pm Robledo. A quel punto la Cogim si è arroccata sulle sue posizioni, pronta a fronteggiare il processo.
I cattivi maestri
Diverso l'atteggiamento della Corimec, adesso interamente nelle mani di Mister Cagiva e attivissima nel business delle missioni militari all'estero. La Task force Onu e la Procura di Milano le riconoscono piena collaborazione: dimostra che tutto era affidato a Braghieri. E per il codice italiano si tratta di reati prescritti.
Su un solo punto gli sceriffi di Appleton mantengono un'ombra di dubbio, senza contestazioni formali: dopo il divorzio dal vecchio amministratore, la Corimec si è affidata a una società italiana di New York, la Ihc. Per gli inquirenti del Palazzo di vetro questa sigla è diventata una sorta di nemico pubblico numero uno, coinvolta in una decina di gare sospette, con piste che portano ai palazzi di Saddam Hussein e legami con i finanziatori di Al Qaeda. Ma finora non ci sono prove di corruzione.
Negli atti ufficiali quella della Ihc appare come una storia esemplare. Ed incredibile. Sede a New York, a due passi dal Palazzo di Vetro, e nel centro di Milano, a trecento metri dal Duomo, la Ihc sembra incarnare l'immortalità di Tangentopoli. Appartiene alla Torno Sah lussemburghese ma è diretta emazione di quella Torno Spa, colosso degli appalti, che cambiò nome dopo essere stata coinvolta in una decina di capitoli di Mani Pulite.
È il loro patron Angelo Simontacchi che il primo maggio 1992 a San Vittore svela ad Antonio Di Pietro il grande accordo tra tutti i partiti per la Metropolitana milanese, dando il via all'escalation del pool verso il gotha della Prima Repubblica. Tredici anni dopo gli uomini della Task Force Onu bussano ai loro uffici di Manhattan: li accusano di avere commesso illeciti per manovrare le gare più ricche sulle forniture per i caschi blu.
Ricostruiscono pratiche choccanti per assicurarsi gli appalti: buste con le offerte ritoccate al ribasso e sostituite dopo avere ricevuto soffiate sulle proposte dei rivali. Il protagonista è sempre Yakovlev. Questa volta però il suo amico italiano si chiama Ezio Testa, numero uno della Ihc. Tra le aziende beneficiate un nome su tutti: la Compass, il colosso mondiale della ristorazione con 360 mila dipendenti in 64 paesi e 10 miliardi di euro di fatturato.
In Italia, giusto per fare un esempio, dà lavoro a 9.400 persone: possiede i buoni pasto Ristomat e Lunch Time e con i marchi Onama e Sorico gestisce mense scolatische e aziendali, incluse quelle delle caserme.
Il team infernale
I manager di Compass sono euforici per i servizi di Ezio Testa. Gli scrivono: "Abbiamo creato an hell of team, una squadra infernale". Diabolici, sì. L'atto di accusa della Task Force ricostruisce minuto per minuto il rush finale dell'appalto per i 16 mila caschi blu della spedizione liberiana.
È un triangolo di poche centinaia di metri, tracciato nel cuore della Grande Mela. Gli emissari della multinazionale hanno trasformato una suite del Roosevelt Hotel nella base avanzata, con un pc e una stampante. Testa, nel suo ufficio della Lexington Avenue, riceve dal Palazzo di vetro le telefonate chiave. Secondo l'ipotesi degli sceriffi, sono le informazioni sulla somma offerta dai concorrenti. L'italiano a quel punto contatta i manager.
Uno dei quali poco dopo si muove verso il Millenium U.n. Plaza, l'albergo nei dintorni del quartier generale Onu. Per gli inquirenti è tutto chiaro: il contratto è stato modificato e la nuova offerta sostituita. Una fonte confidenziale ha descritto la 'mandrakata' nei dettagli: ha raccontato che nel dicembre 2004 per l'appalto del Sudan vennero preparate più copie dell'offerta con differenti prezzi al ribasso, in modo da non perdere tempo per modificare cifre e stampare.
L'architrave di questo giochetto che ha fruttato più di 350 milioni di dollari alla Compass è sempre lui: Yakovlev. Avrebbe informato gli amici italiani in anticipo dei futuri appalti, consegnato documenti riservati, fatto trapelare le iniziative dei rivali e, infine, sostituito le buste al momento giusto. Cosa ci guadagnava? Nessuna prova di contanti.
La Task Force ha però scoperto altri legami imbarazzanti. Il figlio del russo, per esempio, è stato assunto per tre anni dalla Ihc. E con un candore sorprendente, Testa ha spiegato che Yakovlev padre li aveva coinvolti in una serie di piani industriali per sviluppare un prodotto anti-inquinamento. Per questi progetti dal 1998 per circa quattro anni gli avevano pagato un telefonino. Tutto qui? Gli sceriffi chiedono di esaminare i conti bancari della Ihc, ma il patron italiano si oppone. E fuori dal Palazzo di vetro non hanno poteri.
Dentro però scovano una mail, con un dossier segreto dell'Onu che Testa aveva inoltrato a un cliente. Come faceva a possederlo? "L'ho trovato dimenticato su una fotocopiatrice durante una visita nei vostri uffici", risponde il mediatore milanese. Ma Appleton non si arrende: oltre a contestare questi illeciti, continua a cercare prove di tangenti. Perché l'affaire Ihc ha portato gli Intoccabili sui gradini del piano più alto del Palazzo di vetro.
La star italiana
I maestri di Tangentopoli avevano ingaggiato l'italiano più famoso nell'Onu: Giandomenico Picco, protagonista della celebre trattativa per gli ostaggi libanesi negli anni Ottanta. Picco è entrato nell'Organizzazione nel 1973, gestendo fascicoli delicatissimi: era ai massimi livelli quando nel 1992 decide di mollare e diventare 'ministro degli Esteri' del gruppo Ferruzzi.
Pessima scelta: un anno dopo Mani Pulite cancella gli ultimi imperatori di Ravenna. Giandomenico Picco apre una sua compagnia, specializzata nella consulenza ad aziende e governi. Poi nel '97 entra nel vertice dell'Ihc: è chairman con stipendio di 10 mila dollari al mese. Nell'agosto del '99 Kofi Annan lo chiama nel suo staff come vicesegretario generale, affidandogli un incarico personale. Ma per sette mesi Picco non lascia il lucroso incarico della Ihc.
Per la Task Force si tratta di un conflitto di interessi tale da impedirne la presenza nell'Onu. Il diplomatico respinge le accuse: "Non ho fatto nulla per loro, ignoravo i loro rapporti con l'Organizzazione", ha dichiarato alla Fox News, che per prima ha svelato le relazioni. Gli investigatori non gli credono, evidenziando almeno un appalto vinto dall'azienda milanese sotto la sua gestione. E nel 2005, dopo le indiscrezioni sull'inchiesta, il vice segretario italiano torna all'attività privata.
Il segno di quanto sia differente il metro di valutazione tra New York e Roma: qui da noi tutte le aziende, italiane e straniere, coinvolte nello scandalo continuano a vincere contratti, spesso con trattativa diretta. Dai fornitori di prefabbricati a quelli che affittano aerei cargo, tutti pronti a fare soldi con le missioni di pace.