Ogni anno a Taiji, una delle più protette e nascoste insenature dell'arcipelago giapponese, vengono massacrati, lontano da occhi indiscreti, migliaia di delfini. Una mattanza che alimenta un ricchissimo business. Ma un documentario, 'The Cove', ne ha filmato l'orrore. E ha sconvolto i giapponesi (Foto di Robert Gilhooly)

Avete mai visto un delfino suicidarsi? Io sì. È arrivato ferito, dietro di sé lasciava una scia di sangue. Ha cominciato a scagliarsi contro gli scogli. Una scena orribile. Alla fine non è più riemerso. Penso gli avessero appena ucciso la mamma. Era disperato, urlava, urlava. Poi il silenzio. E la gente, intorno, che rideva. Di lui, e di noi che piangevamo. Sono ancora sconvolta. L'acqua era tutta rossa. Sono dei barbari assassini.

Audrey ha 24 anni, viene dalla California. È qui con un gruppo di amici surfisti e ambientalisti: Surf with cetaceans. Non sono venuti per cavalcare le onde locali. Ma per protestare, denunciare e in qualche modo impedire il massacro dei delfini. Ormai è un tam tam internazionale, vengono da tutto il mondo, tra lo stupore e l'imbarazzo della popolazione locale, che non comprende tutto questo trambusto per i 'bacarozzi d'acqua' (come vengono talvolta chiamati i delfini), per testimoniare l'orrore di un massacro che va avanti da oltre 400 anni, e che vede ogni stagione la mattanza, consumata in gran segreto, di decine di migliaia di delfini nelle più nascoste e protette insenature dell'arcipelago giapponese.

Taiji è una di queste. A poche centinaia di metri dal museo della Balena, dove è ricostruita l'epopea delle baleniere e di un'attività di cui i giapponesi mostrano vanto e nostalgia, e del delfinario, dove centinaia di famigliole assistono ogni giorno alle esibizioni dei 'Flipper' locali, c'è una piccola insenatura senza nome che gli stranieri hanno soprannominato Cala Rossa. Qui, ogni anno, tra settembre e marzo vengono massacrati almeno 3 mila delfini, il cui sangue colora di rosso intenso l'acqua. Una feroce e assurda mattanza che per la prima volta è stata documentata, utilizzando telecamere mimetizzate tra le rocce, oppure a bordo di elicotterini telecomandati, da un gruppo di ambientalisti guidati da Rick O'Barry, il leggendario addestratore di Flipper che, dopo essere stato ripetutamente arrestato in varie parti del mondo per la sua attività in difesa dei delfini, è riuscito a farsi finanziare l'impresa (si parla di 5 milioni di dollari) da John Clark, il miliardario inventore di Netscape.

Il documentario, 'The Cove' ('La caletta'), che ha già ottenuto importanti riconoscimenti in alcuni Festival (Sundance, Toronto) e che verrà proiettato al prossimo Festival internazionale del cinema di Tokyo, dopo una lunga battaglia con gli organizzatori che l'avevano prima richiesto, poi respinto e infine ammesso alla proiezione, ma fuori concorso e praticamente senza pubblico locale, uscirà in vari paesi europei a fine ottobre (ma non in Italia, per il momento).

Costretti a entrare nella baia per sfuggire al suono assordante provocato dai pescatori che percuotono incessantemente le chiglie di centinaia di barche (provocando un dolore atroce), i delfini restano intrappolati dalle reti stese tra le estremità della baia, chiusa arbitrariamente ai 'non addetti ai lavori' - visto che siamo all'interno di un parco marino protetto - da cartelli e barriere di filo spinato.

Una sorta di operazione militare, che si è trasformata in una questione di principio, di 'sovranità nazionale', di rivendicazione di una supposta tradizione da parte dei cacciatori di delfini, ma che di fatto riguarda pochissimi 'indigeni'. Appena l'opinione pubblica giapponese è venuta a conoscenza di questa realtà, l'ha condannata senza esitazione. Forse è per questo, per paura di essere 'visti' dai loro stessi connazionali, che la mattanza di Taiji viene protetta con ogni mezzo, anche illegale.

Per riuscire a documentare almeno in parte il massacro, i fotografi di Rick O'Barry sono dovuti ricorrere a mille accorgimenti per non farsi scoprire: scalare rupi, stratagemmi per nascondere gli apparecchi fotografici, visto che perfino le strade statali sono controllate dai cacciatori di delfini che fermano e perquisiscono tutte le persone sospette.

La mattanza dei delfini avviene in più fasi. Gli esemplari più belli e sani, selezionati 'on the spot' da veterinari, addestratori e intermediari vari (un delfino da esibizione può valere sino a 150 mila euro) vengono 'imbragati' e caricati su imbarcazioni che ne curano poi la spedizione in giro per il mondo. Un business molto redditizio. Tutti gli altri, cuccioli compresi, una volta massacrati con arpioni e coltellate alla gola, finiscono in pentola, o affettati a crudo, marinati o affumicati, anche se la loro carne, assicurano gli indigeni, non è prelibata come quella delle balene (al posto della quale viene spesso spacciata).

Del delfino, il cui carattere ideografico, pronunciato 'iruka', significa 'maiale di mare', con riferimento alla sua voracità, una delle cause per cui viene cacciato ("Voi non capite", ci spiega uno dei pochi pescatori disposto a parlarci, "per noi i delfini non sono animali intelligenti da amare e proteggere, ma pericolose creature che mettono a rischio l'ecosistema marino"), non si butta niente. Pinne, pelle e avanzi di carne finiscono nelle scatole di cibo per cani e gatti, mentre le ossa, finemente triturate, pare rappresentino un ottimo fertilizzante naturale. Il tutto sempre condotto in gran segreto. Perfino i turisti che arrivano qui a Taiji, un piccolo villaggio sul Pacifico 600 chilometri a sud di Tokyo, dove tutto, nel bene e nel male, parla di delfini e balene, sembrano ignorarlo, e mostrano sincero stupore se messi di fronte alla realtà. "Non posso crederci", esclama Hiroko, una casalinga di Osaka, mamma di due bambini appena uscita dall'acquario dove ha assistito al solito, seguitissimo, spettacolo dei delfini, alla quale mostriamo alcune foto della mattanza: "Ma siete sicuri che questo orrore avviene qui. in Giappone?". Anche Etsuko e Gen, una giovane coppia di Tokyo in vacanza, è sorpresa: "Non è possibile e noi non ci sogneremmo mai di mangiare carne di delfino".

Chi difende i delfini, specie se è un occidentale, viene spesso accusato dai giapponesi di ipocrisia: "Perché la mattanza dei tonni è legittima e quella dei delfini no?". Oppure: "La volete finire con volerci imporre i vostri valori? Dopo i diritti fondamentali dell'uomo, volete imporci anche quelli degli animali? Pensate ai vostri polli, ai vostri vitelli, alle vostre oche e ai vostri visoni."). Ma c'è un altro aspetto che potrebbe assumere i caratteri di una tragedia annunciata. Il mercurio.

La carne di delfino risulta essere tra le più contaminate dal mercurio: esemplari di carne venduta nei supermercati (va detto che alcune importanti catene ne proibiscono la vendita) hanno rilevato dosi di metilmercurio 20 volte superiori al limite fissato dalle autorità giapponesi, che è di 0.04. Ma nessuno si è mosso. Secondo Tetsuya Endo, docente di scienza dell'alimentazione all'Università di Hokkaido, "i giapponesi vengono scientemente avvelenati dalle loro stesse autorità, che non hanno il coraggio di intervenire". Nella maggior parte dell'arcipelago le scuole non servono più carne di cetaceo, ma a Taiji pare di sì. Anche se nessuno lo conferma ufficialmente. A cominciare dal sindaco, Sangen. Perché lui con i "barbari" (i giornalisti occidentali) rifiuta per principio di parlare.