Ancora tu? Il fantasma del colonnello Muammar Gheddafi si aggira nelle cancellerie di mezzo mondo e popola di incubi i sogni di politici che con troppa disinvoltura hanno speso parole senza immaginare che, a stretto giro, gli eventi si sarebbero incaricati di chiedere una verifica di quei discorsi al vento.
Le sommosse riuscite in Tunisia e in Egitto avevano illuso che anche in Libia sarebbe bastato un appoggio morale molto esterno e gratuito per staccare dividendi di benevolenza da parte degli insorti. Un grossolano errore tattico che oggi suona come una condanna. Davanti alla rabbiosa controffensiva del rais di Tripoli è sparito, soprattutto, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, lo stesso che nei giorni dell'euforia in cui le città della Cirenaica finivano nelle mani di ragazzi al grido di libertà e democrazia (era solo due settimane fa) prometteva per supporto "azioni militari", al minimo di "fornire le armi ai ribelli", esaminava "un'ampia gamma di opzioni" per rendere innocuo, e definitivamente, il tiranno. Né si hanno notizie del francese Nicolas Sarkozy che, in un crescendo da antica grandeur, si metteva l'elmetto per assicurare "un bombardamento anche unilaterale", riconosceva il Consiglio nazionale di transizione e avviava le pratiche per aprire un'ambasciata a Bengasi. Salvo ricevere, e proprio a Parigi, lo schiaffo di un G8 inconcludente che ha deciso di non decidere, neanche su una no fly zone, meno impegnativa delle truppe sul terreno (del resto mai invocate dagli insorti). Le opposizioni di Germania e Russia sono state l'alibi per un rinvio al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, cioè un organo ancora più farraginoso e pletorico dove la stessa Russia e la Cina detengono un diritto di veto da sempre ostacolo alle soluzioni rapide che l'emergenza imporrebbe (in tempi recenti quattro anni per porre fine all'urbicidio di Sarajevo).
La realtà è che vale, anche nel terzo millennio, la massima per la quale gli Stati non hanno principi, solo interessi. E nessuno vuole morire per Tripoli. Cioè per uno Stato che non è strategico sullo scacchiere globale e la sola risorsa di cui dispone, il petrolio, sarà costretto, comunque vada, a metterlo sul mercato, per sopravvivere visto che è la voce praticamente unica del suo export.
All'interesse nazionale si era appellata l'Italia di Silvio Berlusconi per giustificare l'abbraccio troppo stretto e prolungato a Gheddafi prima di sposare, con lo stesso ardore, i suoi nemici interni. Il ministro degli Esteri Franco Frattini si era spinto fin quasi a rompere il fronte europeo per difendere la "non ingerenza" negli affari interni libici, poi aveva reclamato la primogenitura nel dialogo con i ribelli di Bengasi. Lui e il premier avevano abbandonato il rais, "se ne vada", "è finito", "la sua violenza è inaccettabile". Trapela ora che la nostra intelligence sul terreno, anche nei giorni in cui Gheddafi sembrava un cadavere politico, inviava dispacci a Roma per avvertire che il colonnello aveva in realtà un discreto controllo del Paese. E che il governo ha ignorato quelle informazioni per non trovarsi isolato nel consesso mondiale. Nell'oscillazione tra interessi e ideali c'è tutta l'improvvisazione di una politica estera fallimentare anche quando riguarda il nostro cortile di casa. Gheddafi ci considera traditori. I ribelli hanno altre preoccupazioni ma non esiteranno a trattarci in analogo modo se sarà confermata la linea del ritorno all'antico che fa capolino all'interno della maggioranza. Noi, Sarkozy, Obama: tutti ad assistere al naufragio della speranza sull'altra sponda del Mediterraneo.