«Nessun complottismo, ma alcune cose non quadrano. Probabilmente Bin Laden è stato ucciso dai pachistani e il blitz successivo era solo una messa in scena». Parla Karim Mezran, studioso dei movimenti islamisti
di Lara Crinò
3 maggio 2011
«L'uccisione di Bin Laden è un atto simbolico molto potente. Ma, se si analizza la versione ufficiale della dinamica del blitz americano ci sono elementi che lasciano dubbiosi». Karim Mezran, italo-libico, è professore di studi sul Medio Oriente dell'americana Johns Hopkins University. Esperto di terrorismo, studioso dei movimenti politici di matrice islamista, non è certo un teorico del complotto. Però la dinamica del blitz in cui è rimasto ucciso il 'ricercato numero uno' Osama Bin Laden non lo convince affatto.
Professor Mezran, che cosa c'è che non va della dinamica ufficiale del blitz in cui è stato ucciso Osama? «Da sempre, il cadavere del nemico è un trofeo da esporre. Pensiamo al corpo di Che Guevara in Bolivia. Perché, mi chiedo, non abbiamo ancora immagini del corpo di Osama? Forse perché il blitz non è andato secondo la versione ufficiale. Un Bin Laden vivo poteva essere ingombrante, poteva rivelare segreti sui rapporti con il Pakistan e con l'Arabia Saudita. Ma anche un Osama morto in questo modo non convince».
Che Bin Laden sia stato ucciso, però, non è in discussione. «No, è morto sicuramente. Non è pensabile che si lasci esposto il presidente Usa al rischio di una bufala così colossale. Ipotizziamo che non sia morto, e che magari tra un mese faccia circolare un video in cui parla mettendo il bella mostra un giornale americano con tanto di data. Lo scandalo per Barack Obama sarebbe troppo grande. Non è questo il punto».
E allora qual è? «Potrebbero essere stati i pakistani a ucciderlo, e sicuramente non nel giorno ufficiale del blitz, ma prima. Questo permetterebbe al Pakistan di sedersi al tavolo dei negoziati sull'Afghanistan, ma senza esporsi, senza addossarsi la responsabilità di un omicidio in un paese in cui le tribù hanno un forte peso. Gli americani sono entrati in scena dopo. E anche la storia del funerale in mare non quadra. E' vero che l'Islam è grande, può darsi che in Indonesia esista la consuetudine di seppellire così i cadaveri, ma sinceramente non ne ho mai sentito parlare».
Ora che Osama è uscito di scena, cosa ne è del progetto della jihad islamica? «Si è detto da più parti che già da anni Al Queda è diventato fondamentalmente un brand: posso essere il capo di un piccolo gruppo di estremisti in Mauritania poi faccio un attentato e se ci metto il marchio 'Al Qaeda', avrò di certo più risonanza. Ma io penso che, al di là di questa frammentazione, dove non c'è più un centro che dà ordini e direttive, quel che è fallito è il progetto del piano jiadista 'globale' di Osama Bin Laden. Ovvero, quello di usare il terrorismo per propagandare il 'sultanato' mondiale, di convincere le masse dell'Islam alla jihad. Quest'idea ha perso appeal a partire già dal 2002-2003. Ora le dinamiche che si agitano nei paesi arabi sono molto diverse. Non mi piace parlare di rivoluzioni, parlerei ancora piuttosto di rivolte popolari. Non mi pare che tutte abbiano la forza per fare quello che fa una rivoluzione, ovvero provocare un radicale cambiamento delle élite, di chi detiene le redini del potere. In questo caos, ovviamente, il terrorismo non scompare. Ma quello che è accade all'Islam radicale è che prende due vie molto diverse. Da una parte i movimenti politici islamisti, come ad esempio i Fratelli Musulmani in Egitto, cercano legittimazione, integrazione all'interno della società. Questo del resto accade anche nelle comunità islamiche in Europa e negli Stati Uniti: i partiti religiosi non vogliono convertire i cristiani, come spesso di dice. Vogliono piuttosto il controllo delle loro comunità, della umma. E per questo sono disposti a mediare, a fare lobby».
E i radicali, gli irriducibili del terrorismo che fine fanno? «Ovviamente non scompaiono. Anzi, una tendenza del terrorismo salafita è quella di auto isolarsi dalla società, continuando a colpire periodicamente come è avvenuto qualche giorno fa a Marrakesh. E questo può finire col saldare gli interessi dei terroristi e quelli del potere costituito, in una dinamica simile a quella della nostra 'strategia della tensione' degli anni Settanta. Questa secondo me è la dinamica più interessante che sarà all'opera nei prossimi anni nel mondo arabo».