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Mondo
marzo, 2012

Uganda, dalla miseria alla moda

Un gruppo di ragazze che per vivere spaccavano pietre o si prostituivano, quasi tutte sieripositive. Si sono unite per creare gioielli creativi a basso costo. Che ora sono diventati un cult su Internet e nei negozi etnici dell'Occidente

Una cascata di perline colorate, fabbricate con poco. A Kireka, il quartiere più povero della capitale ugandese Kampala, c'è un gruppo di ragazze con esperienze terribili alle spalle che si sono trasformate in imprenditrici. Le loro opere sono monili bellissimi, diventati un cult tra le donne occidentali, che si possono comprare anche on line (dall'Italia al sito dell'Avsi).

Le ragazze arrotolano la carta, la impastano con colla e acqua e ne fanno perline. Un po' di colla ancora, per farle consolidare ed il gioco è fatto. Queste collane sono piccoli capolavori che raccontano tante storie di donne e il coraggio di coloro che sono riuscite a sopravvivere a violenze e malattie.

A guidare queste ragazze è Rose Busingye, direttrice del Meeting Point International, un'associazione di volontari che sostiene oltre duemila donne, ferite dalla vita e sieropositive. «Sono madri che provengono dal nord dell'Uganda, dice Rose. Là vivevano nella spazzatura e i parenti per la vergogna le nascondevano. Da noi hanno ritrovato il valore della vita».

Nata e cresciuta nella capitale, Rose è un'infermiera professionale specializzata in malattie infettive. Una donna dagli occhi grandi, considerata dai bambini di Kireka la mamma di tutti. «Quando arrivai, negli anni 90, le donne rompevano i sassi per poi rivenderli come ghiaia nei cantieri. Oggi, le ragazze sono diventate imprenditrici e possono permettersi di pagare gli operai per rompere le pietre più grandi. Vedendo la bellezza, possono apprezzare di più la loro vita», continua Rose.

Spaccare pietre era l'unica occupazione per sfamare i figli resi orfani dalla guerra e l'Aids. Sporcizia e cloache a cielo aperto caratterizzavano il quartiere e, in quelle stesse fogne, giocavano i bambini, guardando da lontano le madri chine sui sassi. «Adesso le madri sanno come curare i propri figli, sentono l'esigenza di migliorare se stesse e sono anche in grado di devolvere in beneficienza i piccoli guadagni di una giornata, a favore di altre donne vittime di soprusi».

Vicky, ad esempio, ha 42 anni e prima faceva la prostituta. E' sieropositiva. «Ho capito di valere molto di più del peso della mia malattia e della morte che desideravo», racconta. Quando rimasi incinta del mio ultimo figlio, Brian, mio marito mi pose davanti alla scelta se rimanere sua moglie, rinunciando alla gravidanza, o separarmi da lui se volevo tenere il bambino. Questo fatto segnò la fine della mia relazione. Davvero non capivo perché lui fosse così crudele e intransigente. Più tardi fui sottoposta al test Hiv, che risultò positivo. La vita in casa con i miei tre bambini si fece difficile, non avevamo da mangiare, né soldi per le mie medicine. Nel 2001, ho incontrato altre donne come me, che facevo fatica a credere potessero portare la gioia sul viso. Non ho mai dimenticato il giorno in cui qualcuno mi ha guardato con uno sguardo che aveva in sé i raggi della speranza e dell'amore. Iniziai a comprare farmaci per me e il mio bambino, che stava per morire. Oggi Brian è davvero sano e frequenta la scuola secondaria. Il mio ragazzo più grande è all'Università».

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