Un'isola delle Filippine è stata dichiarata una delle sette meraviglie del mondo. Ma è a rischio distruzione. Perché nasconde tesori che fanno gola alle multinazionali. Soprattutto cinesi
Di tutte le 7 mila isole dell'Arcipelago delle Filippine, Palawan è considerata la più bella, "l'ultima frontiera ecologica", come la chiamano gli ambientalisti, sede di una delle sette meraviglie del mondo proclamate dall'associazione che le certifica e che ha base in Svizzera e patrimonio dell'Unesco. È anche la più occidentale e isolata, piazzata di traverso come un lungo spartiacque tra il mare della Cina del Sud e il mare di Sulu, tra le coste del Borneo malese e il cuore dell'arcipelago cattolico. Da qui vengono due pesci su tre venduti nei mercati di Manila. In una sottilissima striscia di terra lunga 450 chilometri e larga 50, Palawan ospita 87 delle 160 etnie delle Filippine, l'11 per cento delle foreste pluviali vergini rimaste, oltre il 38 per cento delle mangrovie, le sentinelle che salvano la terra dall'aggressione del mare, ridotte del 92 per cento tra il 1920 e il 1985.
Nonostante lo sfruttamento selvaggio delle risorse da parte di grandi speculatori come il celebre boss del legno Jose "Pepito" Alvarez e dittatori come Ferdinando Marcos, non c'erano mai state troppe rivolte tra le pacifiche popolazioni locali. Finché non sono entrate in ballo le grandi compagnie delle miniere che vogliono distruggere il Paradiso per i loro profitti e non si fermano davanti a nulla, nemmeno all'omicidio se almeno 12 ecologisti (come vedremo) sono stati uccisi negli ultimi anni). Le leggi ambientali imponevano il parere vincolante degli abitanti per ogni sfruttamento minerario ma, per aggirare gli indigeni, le compagnie hanno iniziato a pagare "contributi" consistenti a governi locali e capi tribù influenti e corruttibili. Interessi multimiliardari sono riusciti a mettere spesso le une contro le altre le 24 amministrazioni di territori grandi come la capitale Puerto Princesa e Taytay, o piccoli come Cagayancillo, uno splendido lembo di terra e mare di 15 chilometri quadrati.
È in questa guerra senza esclusione di colpi che si sono gettati come kamikaze coraggiosi conservazionisti terrorizzati dall'impatto delle miniere sul già precario equilibrio ecologico. È una storia come le tante che hanno ispirato il film "Avatar", anche se Palawan ha goduto a sua volta di un po' di gloria cinematografica quando il pubblico di Cannes si è alzato in piedi con un'ovazione durata parecchi minuti al termine della proiezione di un toccante film documentario interamente girato sull'isola, e proiettato fuori concorso al Festival del cinema lo scorso anno. "Non hanno applaudito me", ha commentato il regista Auraeus Solito, "ma il Creatore". La pellicola dal titolo "Busong" mostra infatti le bucoliche immagini simbolo dell'isola, il cui nome significa "Le Belle Baie", sullo sfondo di una trama di vendetta della natura contro un uomo che ne ha abusato.
Il messaggio del regista Solito è chiaramente riferito a ciò che sta davvero avvenendo a Palawan, terra ancestrale di tribù antiche come i Tagbanua, Palawanon,Tau't Bato, Molbog e Batak. La sua fama di oasi della biodiversità è tale che le popolazioni indigene a rischio sono riuscite finora a opporsi, con mezzi generalmente legali e non violenti, alle pressioni di grandi compagnie come MacroAsia e Celestial, con interessi locali e globali, pronte a scavare ovunque sotto il lungo, verdissimo e sottile istmo di terra dell'isola. Palawan nasconde infatti ricchi minerali, gas e lunghe grotte naturali, come quella iscritta nella lista delle Meraviglie planetarie con i suoi 8 chilometri di fiume sotterraneo, il secondo più lungo al mondo. Ma è la sua principale montagna Mantalingahan - sacra agli indigeni e cuore dello speciale fertilissimo microclima - il boccone più appetito, con i giacimenti del nickel sparsi per mille chilometri quadrati di foresta.
È una battaglia che per la gente del posto significa la sopravvivenza a uno tsunami economico e sociale pronto ad abbattersi da un momento all'altro, con due siti dichiarati patrimonio dell'umanità dall'Unesco e una popolazione deprivata ogni anno di aree boscose equivalenti a due metropoli come Manila. Compagnie quotate in Borsa e autorità locali cercano di spintonare con tutti i mezzi leciti e illeciti tribali e contadini fuori dal Paradiso.
L'unica eccezione tra i politici, quella del sindaco della capitale Puerto Princesa, Edward Hagedorn, mai piegato alle pesanti pressioni di figure potenti dell'amministrazione regionale e statale, perfino magistrati che gli hanno offerto - per sua stessa ammissione - soldi e prestigiosi incarichi per cedere i territori del suo distretto. Ma se con il sindaco Hagedorn gli speculatori hanno usato l'arma della lusinga e della corruzione, molto meno per il sottile sono andati con gli attivisti dei diritti umani e dell'ambiente. L'ultimo dei martiri di Palawan era un veterinario, fervente cattolico, già direttore di un importante allevamento statale di coccodrilli. Si chiamava Gerardo Ortega, Doc Gerry per quanti lo sentivano quasi tutti i giorni parlare alla radio degli scandali e dei pericoli delle miniere sull'isola Paradiso. Lo hanno ucciso nel gennaio dello scorso anno all'uscita dalla radio, 142esimo giornalista filippino eliminato in 25 anni, ennesimo di una lunga lista di almeno 12 attivisti che hanno pagato con la vita la loro battaglia.
La sua ultima trasmissione dalle onde di radio Dwar svelò un finanziamento da 3,9 miliardi di pesos (70 milioni di euro) versato al governo provinciale dalle autorità di Manila quando al governo era Gloria Arroyo, ora agli arresti, per garantire la "sicurezza" alle compagnie private che operano nell'estrazione del gas naturale, la nuova frontiera dello sfruttamento ambientale. All'uscita dalla diretta, in un negozietto di vestiti usati, trovò i killer assoldati per ucciderlo. Ortega condivideva la passione per gli animali e l'ambiente con la moglie Patty, anche lei veterinaria, e ben cinque figli decisi a continuare sulle orme del padre. Per vendicarne a modo loro la morte, i più grandicelli hanno tempestato di richieste e petizioni i politici nazionali perché punissero i colpevoli, e una volta tanto la giustizia ha fatto - almeno in parte - il suo corso. L'ultimo arresto - dopo quello di un amministratore provinciale - è avvenuto proprio pochi giorni fa, quando un certo Arturo Regalado, uomo dell'ex governatore Joel Reyes, si è consegnato al sindaco di Puerto Princesa. Ma l'ex governatore, suo fratello e un altro sospetto sono ancora latitanti, mentre un testimone vive nascosto per paura di rappresaglie e delle azioni "legali" degli avvocati di Reyes.
Dal giorno dell'omicidio ambientalisti, missionari, attivisti dei diritti umani e gente comune, a suo tempo ospiti dei programmi radio di Doc Gerry, hanno cercato di non lasciar passare invano la morte del giornalista-veterinario. Tra loro, l'avvocato Robert Chan, a sua volta minacciato più volte che dice: "Per i turisti Palawan è una cartolina, ma stiamo già perdendo la sua biodiversità, le erbe medicinali, le foreste più vecchie, le mangrovie, la barriera corallina". Chan ricorda anche l'assassinio di almeno quattro giovani impiegati delle comunità locali con i quali collaborava per impedire gli abusi delle compagnie: "Uno di loro, nel 2006 fu seviziato e torturato, poi gli assassini abbandonarono il suo corpo mutilato sul tratto di spiaggia che stava difendendo dal taglio delle mangrovie".
Da quando vicino ai vecchi giacimenti ne sono stati scoperti di più vasti in un tratto di mare chiamato Sampaguita, pescatori e tribù lungo le coste potrebbero trovarsi di fronte un nemico più potente di qualche politico locale. Nella guerra dello sfruttamento sono entrate le grandi compagnie cinesi, forti delle pretese territoriali di Pechino su quasi tutto il mare cinese meridionale.