Nasce un asse franco-olandese contro l’Europa, in opposizione allo storico asse franco-tedesco che è (stato?) spina dorsale del Vecchio Continente. Lei è Marine Le Pen, 45 anni, nata sotto il segno del Leone, che ha scolorato il nero del suo Front National in un più presentabile “bleu” (il “bleu Marine” appunto), togliendo qualche accento estremista del padre Jean-Marie, soprattutto in tema di antisemitismo. E permettendo così l’incontro con lui, Geerd Wilders, 50 anni, l’islamofobo olandese, edipicamente sospetto secondo alcune voci di origini musulmane tra l’altro.
Lei porta in dote un 13,6 per cento nelle ultime urne (politiche) e sondaggi che le attribuiscono il 24, sarebbe il primo partito di Francia, con corollario di seguaci vip prima scandalizzati e ora arruolati, come Brigitte Bardot, Alain Delon, Gérard Depardieu, il re del lusso Bernard Arnault. Lui una storica militanza, un successo coronato dalla partecipazione a qualche governo, pur se ora il suo Partito per la libertà supera di poco il 10 per cento dopo aver toccato oltre il doppio. Pur sempre un bel bottino.
Il loro ragionamento è semplice. Come esistono due gruppi transnazionali con diverse graduazioni euroentusiaste, i socialisti e i popolari, perché non dare vita a una formazione analoga euroscettica? L’obiettivo lo ha chiarito la stessa Marine in un’intervista al “Telegraph”: «L’ Unione europea crollerebbe come l’Unione Sovietica», se nel suo Parlamento ci fosse una forte presenza di contrari. I deputati populisti, xenofobi, razzisti come cavalli di Troia dentro l’Istituzione, perché l’Europa è «un’anomalia globale» e sarebbe meglio tornare a una «cooperazione tra Stati sovrani».
Il primo approccio Marine e Geerd lo ebbero ad aprile, un pranzo al ristorante La Grande Cascade al Bois de Boulogne, Parigi, dove hanno messo le basi per un’“Alleanza europea per la libertà” in cui riunire i “patrioti”. Con promessa di rivedersi e studiare un piano tattico-strategico dell’assalto a Bruxelles. Avendo ben presenti due cifre: 25, cioè il numero minimo di deputati per formare un gruppo e 7, il numero minimo di Paesi dove raccoglierli.
Gli obiettivi sono naturalmente più ambiziosi, guardano «al 30 per cento dei seggi». Il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta, in un’intervista al “New York Time”, ha fissato un’asticella: «Se gli scettici otterranno più del 25 per cento dei seggi, il Parlamento europeo rischia di non funzionare». Le poltrone disponibili sono 751 e diviso 4 fa 187. Un recente sondaggio del “Financial Times” in cinque Stati chiave (Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna) assegna agli euroscettici circa il 20 per cento (con punte del 25 in Gran Bretagna, Madrid è la più bassa con 12, l’Italia sta a 19) e una schiacciante maggioranza di elettori propensa a «ridurre gli aiuti ai migranti di altri Paesi Ue» (solita Londra in testa con l’83, Roma al 66, la meno drastica Spagna al 60).
Percentuali che dovrebbero lasciar tranquilli i fautori di questa “terza forza”. Se non fosse che non tutti i gatti sono grigi nella notte populista. Non tutte le forze compatibili e sommabili. Intanto perché va naturalmente esclusa la sinistra estrema, pure scarsamente attratta dalle sirene comunitarie e che va forte in Grecia con Syriza di Alexis Tzipras (data al 29 per cento), in Francia sta atttorno al 7 per cento (Front de Gauche) e in Germania ha l’8,4 (Die Linke). E poi perché nella stessa destra estrema divisioni e motivi di frattura sono assai più presenti che in qualsiasi altra famiglia. E i veti sono la conseguenza di radicalità indigeribili se coniugate ad altre latitudini. In passato le differenze hanno pesato per il timore di doversi apparentare con personaggi impresentabili (il leghista Borghezio ne è l’emblema).
La riverniciatura che Marine Le Pen ha dato al suo “Front” non è giudicata ancora sufficiente ad esempio, da Nigel Farage, leader dell’Ukip, Partito per l’indipendenza del Regno Unito, 23 per cento alle amministrative di maggio e spina nel fianco di David Cameron: «Per noi le loro opinioni su razza e religione sono troppo spinte. Siamo libertari, crediamo in uno Stato leggero, tasse basse, libertà personale e responsabilità sotto un governo nazionale». Così ha declinato l’invito all’appuntamento dell’Aia. Marne ha fatto spallucce: «Sono un partito giovane, non ha la nostra maturità, ha paura di essere demonizzato, ma prima o poi si convincerà che siamo davanti a un appuntamento con la storia». Amen.
Così a destra comincia una lotta per accaparrarsi gli alleati migliori. Sia per l’Ukip sia per la coppia Le Pen-Wilders il boccone prelibato, parlando d’Italia, non è l’anemica Lega Nord, riferimento classico, ma il robusto Movimento 5 Stelle. Farage ha invitato Beppe Grillo a Londra per «un piatto di roast-beef e una pinta di birra», ma il comico genovese non si è fatto vedere. Marine ha iniziato da tempo una vera opera di seduzione: «Sono d’accordo con lui sulla nazionalizzazione delle banche e sul referendum per l’uscita dall’euro che anch’io avevo proposto». Le piacciono le posizioni sugli immigrati quando Beppe afferma: «Quanti clandestini siamo in grado di accogliere se un italiano su otto non ha i soldi per mangiare?». Hanno persino gli stessi modi di irridere gli avversari se lei fa una crasi di sigle e dice “Umps” per sottolineare che Ump (gollisti) e Ps (socialisti) sono la stessa cosa e ricorda il famoso “Pd meno elle”. A Parigi circolano voci sul fatto che i due si siano visti o che comunque sia in corso un lavorìo di luogotenenti (addirittura si cita Casaleggio) per definire una piattaforma comune. Sul blog del “non leader” sono subito apparse smentite.
Non c’è tuttavia dubbio che i 5 Stelle saranno tema di discussione al vertice dell’Aia dove il punto principale sarà “come allargare la ragnatela”. Wilders, esplicito: «Faremo tutto ciò che possiamo per trasformare le elezioni europee del maggio prossimo in una frana elettorale contro Bruxelles». Cercando partner che al tempo stesso siano spendibili e abbiano un certo peso elettorale. Sentiero stretto.
Esclusi i razzisti ungheresi di Jobbik (16,7 per cento), sempre prodighi di iniziative vergognose come i greci di Alba dorata (7) e il British national party (1,9). Sarebbero ben accetti i tedeschi di Alternative für Deutschland (4,7) se solo ci stessero, anche se paiono più liberali e col solo scopo di tornare al marco. Sicuramente coinvolti i fiamminghi che si battono per spaccare il Belgio.
Sarebbero tentati i Democratici svedesi che, per bocca del loro portavoce Martin Kinnunen, non hanno però sciolto la riserva: «Difficile dire adesso se parteciperemo o meno al progetto». E le ragioni alludono alla politica interna: come spendere in Scandinavia un rapporto organico con una Le Pen seppur ripulita e con un Wilders che aveva accostato il Corano al “Mein Kampf” di Adolf Hitler? Meno problematico sembra, per la coppia, trovare un accordo con gli austriaci del Partito della libertà di Heinz-Christian Strache, eredi di George Haider e freschi di un trionfo elettorale. In un altro Paese importante dell’Unione, la Polonia, il partito Diritto e giustizia del superstite dei gemelli Kaczynski, Jaroslaw, è dato in grande ascesa, è sicuramente euroscettico, anche se non è chiaro dove si siederà nell’emiciclo di Bruxelles.
La sfida di una formazione paneuropea e contemporaneamente euroscettica, pur se parte da potenziali grandi numeri, si presenta comunque complicata. Non solo per le avversioni reciproche ma perché sconta, fin dalla sua nascita, il fatto di essere un ossimoro: chi la dovrà comporre è essenzialmente nazionalista, o “patriota”, come quasi tutti si definiscono. Ma questo fervore unitario, comunque vada a finire, segnala che le elezioni di maggio saranno probabilmente le più importanti da quando esiste un Parlamento comune. Non c’era mai stata tanta gente, nel Vecchio Continente, che ne contesta l’esistenza stessa. E potrebbe succedere ciò che avviene a casa nostra: socialisti e popolari costretti a larghe intese. Contro il nemico comune.