«Snowden è un simbolo e più il governo americano vuole mettere le mani su di lui per dare un esempio, più noi vogliamo fare di lui un esempio per gli altri whistleblower». Gavin MacFadyen, giornalista investigativo americano e difensore della prima ora di WikiLeaks, racconta a “l'Espresso” la nuova fondazione appena lanciata per difendere Edward Snowden. Si chiama “
Courage” e a dirigerla è stata chiamata Sarah Harrison, la giornalista di WikiLeaks che un anno fa è volata a Hong Kong per recuperare Snowden e imbarcarsi con lui su un aereo alla ricerca di asilo politico. Un salvataggio in extremis, scattato il 23 giugno 2013, dopo che gli Stati Uniti avevano reso pubblico il mandato di arresto e la richiesta di estradizione nei confronti di Snowden.
«La fondazione Courage è stata creata per fornire risorse a Edward Snowden – spiega MacFadyen – ma anche ad altri whistleblower, gente che per aver rivelato crimini o abusi si ritrova a dovere affrontare problemi molto seri: trovare un avvocato, riuscire a pagarlo, trovare i mezzi per vivere. Per molti di loro il rischio è la bancarotta». Come è successo all'americano Thomas Drake, che prima di Snowden ha esposto i programmi illegali della Nsa, finito sul lastrico per difendersi dalle accuse di spionaggio, poi crollate. «Hanno tutti bisogno di protezione: Chelsea Manning, Julian Assange, e ora Edward Snowden, ma chi paga le spese?», spiega MacFadyen. «Ci deve essere un'organizzazione che raccoglie i fondi per queste necessità, non solo per Snowden, anche se lui è il più importante, in quanto simbolo di tutto ciò in cui crediamo e che ammiriamo: più riusciamo a proteggerlo, più sarà un esempio efficace per gli altri whistleblower».
MacFadyen spiega che ci sono organizzazioni simili in Olanda, in America e in Inghilterra, dove c'è la sua “The Whistler”. Una delle tante funzioni di appoggio necessarie – racconta – è fornire supporto psicologico ai whistleblower, perché quando si decide di rivelare informazioni delicate su personalità, aziende o agenzie governative potenti e con risorse economiche illimitate, la vita subisce pesanti contraccolpi con conseguenze enormi sulla situazione economica e privata: «Senza contare che quasi sempre vengono abbandonati dal compagno o dalla compagna che non riescono a condividere quel tipo di vita».
C'è, però, una differenza fondamentale tra rivelare comportamenti illeciti e abusi di aziende o istituzioni - che siano il sistema sanitario o l'amministrazione pubblica - e rendere noti crimini di agenzie governative come la Nsa, nel caso di Snowden, o il Pentagono, nel caso di Julian Assange e WikiLeaks. «Courage vuole difendere tutti – dice MacFadyen – ma ovviamente i più importanti sono quelli che corrono i rischi più alti, come Snowden, Manning, Assange. Snowden va protetto, perché se prendono lui, poi prenderanno tutti. Più il governo vuole fare di lui un caso esemplare per mandare un messaggio agli altri potenziali whistleblower, più noi ne vogliamo fare un caso esemplare per mandare il messaggio opposto».
Chelsea Manning, WikiLeaks e Snowden hanno pagato un prezzo altissimo per aver rivelato verità scottanti: Manning è stata condannata a 35 anni, Julian Assange ha perso la libertà da quattro anni e da due è confinato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, Snowden è stato di fatto messo in condizione di lasciare la sua famiglia e il suo paese. MacFadyen ritiene che si possa abbassare questo “prezzo”: «C'è un vecchio modo di dire: 'il coraggio è contagioso'. Ecco, io ci credo profondamente quando vedo che non hanno ammazzato Chelsea Manning, non hanno ammazzato Julian Assange, e non sono stati capaci di fermare Edward Snowden. Gli Stati Uniti non sono riusciti a fermarli. Possono rendere miserevoli le loro vite, e l'hanno fatto, ma non sono riusciti a fermarli. In un certo senso, noi che li abbiamo appoggiati abbiamo fatto un buon lavoro, ma dobbiamo fare di più, dobbiamo fare in modo che sia ancora più duro per il governo attaccarli e attaccare le libertà civili fondamentali».
MacFadyen critica anche il quotidiano londinese “The Guardian” per avere permesso ai servizi segreti inglesi di entrare in redazione e distruggere una copia dei file di Snowden. Un'azione dimostrativa – spiega MacFadyen – dal momento che i servizi sapevano che esistevano altre copie digitali dei file. «L'hanno fatto per due motivi: uno, per dimostrare che avevano il potere di farlo; due, per creare un precedente: fare capire che possono entrare in qualsiasi redazione e distruggere i file che ritengono compromettenti o illegali». Se sono riusciti a farlo con il Guardian, difficilmente altri giornali più piccoli e meno famosi potranno opporre resistenza. Nei panni del Guardian, spiega, «avrei chiamato le televisioni e avrei fatto filmare tutto: il governo ne sarebbe uscito malissimo, come la Russia. La cosa peggiore, per me, è che il Guardian non ha detto niente per sei settimane, non ci potevo credere. Hanno avuto paura».
Eppure, nonostante gli scoop di dimensioni globali, da parte degli Stati Uniti ancora non si è vista alcuna riforma del complesso militare e dell'intelligence. «Ci vuole tempo», spiega MacFadyen. «Mi è capitato di fare una grande inchiesta sugli effetti che il rumore nelle fabbriche ha sulla salute dei lavoratori, che sviluppano la sordità. L'inchiesta era molto forte, sia dal punto di vista dei fatti sia da quello dell'impatto emotivo sul pubblico, eppure nell'immediato non accadde nulla. Due anni dopo, però, ci fu un grandissimo sciopero, segno evidente che l'inchiesta non era caduta nel nulla, e di fatto ora la legislazione su questi rischi è severissima: i sindacati avevano abbracciato la causa, ma c'erano voluti due anni. Tutto quello che noi giornalisti possiamo fare è informare il pubblico: più le società sono conservatrici, più tempo ci vuole, ma alla fine non possono comunque ignorare le verità che raccontiamo. Per questo i governi vogliono fermare o controllare l'informazione. Julian Assange ha aperto le porte e altri whistleblower hanno iniziato a seguire il suo esempio. Senza WikiLeaks tutto questo non sarebbe successo».