Mondo
marzo, 2015

"Noi, studentesse sopravvissute ?a Boko Haram"

Parlano quattro ragazze nigeriane sequestrate dai terroristi. La cattura, la fuga rocambolesca, gli incubi notturni, l’ansia per le amiche ancora in cattività. E la rinascita a scuola

L’educazione è molto importante, Boko Haram ha provato a togliermela, ma non c’è riuscito». Parla Mary, una delle 276 liceali rapite dal gruppo jihadista il 14 aprile dell’anno scorso nel villaggio di Chibok nel nord della Nigeria. Insieme ad altre 56 ragazze, con la forza della disperazione, è riuscita a scappare agli estremisti. Oggi, lei e 20 di quelle liceali, grazie ad una borsa di studio, si trovano all’interno dell’Università Americana di Yola, la capitale di uno dei tre Stati in cui è stata dichiarata l’emergenza per gli attacchi del gruppo fondamentalista.

«Fingendosi militari dell’esercito nigeriano ci hanno detto che erano venuti per salvarci da Boko Haram», racconta Mary a “l’Espresso”, con un filo di voce e con gli occhi che iniziano a riempirsi di lacrime, «ma ho capito subito che non era vero perché avevano il volto coperto ed erano senza scarpe: non ho mai visto dei militari scalzi e mascherati». Giusto il tempo di terminare la frase e la voce si rompe in gola definitivamente. A undici mesi di distanza la ferita è ancora aperta, quell’episodio la tormenta spesso di notte, eppure nonostante l’evidente fragilità ha rifiutato qualsiasi forma di consulenza psicologica messa a disposizione dall’ateneo a stelle strisce.

«L’istruzione è la loro forza», spiega Margee Ensign, presidente dell’Università Americana e deus ex machina dell’arrivo delle ragazze nell’Istituto. «Sono determinate a ricominciare la loro vita da dove è stata interrotta, all’interno di un’aula scolastica». E proprio sui banchi di una classe in cui frequentano il corso intensivo di inglese, “l’Espresso” ha incontrato quattro delle ragazze che grazie alla fuga hanno trasformato un evento tragico in una grande opportunità.

Mary, apparentemente la più segnata dall’episodio del rapimento, confortata in lingua locale dalle altre “Chibok Girls”, vuole dire un’ultima cosa, raccontare i suoi sogni. «Voglio diventare un pilota d’aereo», dice in un inglese stentato. «L’istruzione è la cosa più importante, mi dà le ali di cui ho bisogno per volare e mi permetterà di aiutare il nostro Paese». Nonostante l’accaduto e nonostante l’area della Nigeria dove hanno vissuto fino al sequestro sia la più povera del Paese e la meno scolarizzata (il 77 per cento è analfabeta), tra le ragazze è diffuso un patriottismo encomiabile. Il desiderio, un giorno, di tornare nella loro città natale è ancora intatto.

«A Chibok l’istruzione è carente, non ci sono strutture sanitarie», racconta Yana, la più determinata delle quattro e con il sogno di diventare ingegnere informatico, «ma lo studio mi aiuterà a poter tornare là e trasformarlo in un posto migliore». Yana sa che la sua fede cristiana e la sua voglia di istruzione rappresentano un binomio mortale in Nigeria settentrionale, almeno finché Boko Haram non sarà eliminato, ma nonostante la giovane età non è disposta a rinunciare alla religione. «Prego tutti i giorni per le altre ragazze rapite che non sono riuscite a scappare come noi, prego che Dio dia loro la forza di resistere».

Diritti Umani
Nuovi conflitti, sempre più colpiti i civili L'orrore delle guerre secondo Amnesty
25/2/2015
Per Yana e le sue amiche invece, nel giro di undici mesi, una vita monotona e di stenti, è cambiata radicalmente due volte. Con Chibok non hanno più rapporti. Raccontano come nella loro terra d’origine il cellulare non funzioni e siano rimasti solo i genitori di due ragazze, gli altri sono tutti scappati in altri Stati della Nigeria. I loro visi lasciano trapelare un’apparente serenità, dietro una maschera di tensione mista a timidezza. Alcune portano un velo sulla testa, non il hijab, perché nessuna di loro è musulmana, altre calzano jeans e maglietta.

«Non sapevo dove ci stessero portando», racconta Grace, la più sorridente e spigliata delle quattro. «Una volta arrivata all’Università pensavo di non essere più in Nigeria, non avevo mai visto una struttura simile, qui è tutto differente, l’aula dove studiamo oggi non è neanche paragonabile con quella dove siamo state rapite, sono felicissima». «Prima vivevo in una casa dove il caldo era talmente insopportabile che spesso ci stendevamo fuori all’aperto», è il ricordo di un’altra ragazza, «ma era pieno di zanzare ed il rischio di prendere la malaria era altissimo. Qui ho scoperto l’aria condizionata e finalmente riesco a dormire».

Da quando sono arrivate all’Università Americana di Yola, le giornate sono intensissime per le Chibok Girls, non c’è il tempo di seguire le notizie, neanche la politica, che non gode di grande considerazione tra le ragazze. Ma sono consapevoli, pur non volendo, di esser diventate dei personaggi pubblici grazie alle numerose campagne lanciate in loro favore. «Abbiamo scoperto di essere così famose solo quando siamo arrivate qui», svela Dudu, sorridente nonostante abbia ricevuto da poco la notizia che il padre è stato ucciso durante un raid di Boko Haram.

«Siamo onorate che personaggi del calibro di Michelle Obama (la prima a lanciare la campagna social via Twitter #bringbackourgirls, riportate a casa le nostre ragazze, poi diventata virale, ndr) e il premio Nobel per la Pace Malala si siano fatte carico della nostra condizione». E, nonostante ancora adolescenti, sembrano avere le idee chiare sul futuro. «Terminati gli studi, abbiamo in mente di costituire una fondazione con tutte le ragazze che sono state liberate e raccogliere fondi in giro per il mondo per trasformare il Chibok in una terra di speranza e non di morte», promette Grace.

Il tempo a disposizione è scaduto, il professore di inglese scalpita fuori dall’aula per poter entrare, iniziare le lezioni e cercare di recuperare il tempo perduto e permettere loro di sostenere gli esami nazionali. Una volta sull’uscio, quasi contemporaneamente tirano fuori quattro computer dai loro zaini. Fino ad un anno fa non ne avevano mai visto uno, adesso lo usano come strumento per apprendere. Mentre le Chibok Girls intervistate vengono raggiunte dalle altre ospiti nell’ala di massima sicurezza del campus, nei pressi dell’uscita c’è Godiya, una delle mille e cinquecento guardie dell’ateneo che le protegge con un particolare occhio di riguardo. È stata, infatti, la grande protagonista dell’arrivo delle ventuno ragazze a Yola. La sorella è una delle fortunate riuscite a scappare e appena ne è venuta a conoscenza ha chiesto aiuto alla presidente dell’università che l’ha inviata nel Chibok per cercare di convincere i genitori a lasciar andare le loro figlie. «Non è stato facile, i parenti avevano paura di trasformarsi in bersagli mobili di Boko Haram per averle mandate a studiare da noi», spiega Margee Ensign. Ma una volta ricevuto il via libera, senza timore, la presidente dell’ateneo a stelle e strisce si è messa in moto ed è andata a prenderle personalmente.

«Non sapevamo dove cercarle, finché le abbiamo trovate che ci aspettavano con i loro genitori ad una rotatoria», ricorda la Ensign. «Erano senza scarpe e con un sacchetto di plastica al cui interno c’erano tutti i loro averi». Una volta arrivata sul posto con una macchina blindata e senza le insegne dell’università, invece di dieci ragazze, come da patti, ce n’erano undici. «Un padre aveva due figlie femmine», spiega la presidente dell’ateneo, «non aveva il coraggio di scegliere chi delle due mandare da noi, così ha preso due foglietti di carta scrivendo in uno “vai” e nell’altro “resta”». Una decisione troppo crudele per la Ensign che, nonostante avesse solo dieci borse di studio a disposizione, ha deciso di non separare le due sorelle. Anche perché non si sono separate mai neanche al momento della fuga. Hanno, infatti, deciso di balzare giù dal camion su cui erano state caricate dai miliziani del gruppo jihadista mano nella mano.

Ancora oggi, per i corridoi dell’ateneo, si intravedono spesso mano nella mano. Cos’è successo, invece, alle altre 219 ragazze che non sono riuscite a scappare? Una domanda a cui tanti vorrebbero una risposta. A cominciare dalle famiglie delle rapite e dall’opinione pubblica nigeriana, che hanno manifestato più volte la loro rabbia per le strade di Abuja, la capitale, per l’atteggiamento del governo.

A quasi un anno di distanza le loro sorti sono ancora un mistero. Uccise, vendute come schiave, date forzatamente in spose ai miliziani del gruppo fondamentalista. Nessuna conferma, nessuna smentita, neanche da parte del presidente del Paese, che, in più occasioni, ha proclamato di aver raggiunto un accordo con i terroristi per il rilascio: cosa però mai avvenuta.

In una delle ultime interviste da candidato alle prossime elezioni, posticipate al 28 marzo proprio per la minaccia terrorista, il presidente Goodluck Jonathan, si è detto fiducioso che «la vicenda delle Chibok Girls terminerà in poche settimane». Una promessa a cui credono in pochi, ma a cui si appiglia il popolo nigeriano, soprattutto dopo lo spiraglio di luce emerso a seguito della drammatica testimonianza di una giovane rapita ancora prima delle studentesse di Chibok e riuscita a fuggire da un campo di addestramento militare di Boko Haram: ha detto di aver riconosciuto nello stesso campo alcune delle ragazze di Chibok, grazie ai niqab (veli) blu e grigi che sono stati messi loro addosso obbligatoriamente dopo che il gruppo jihadista le ha costrette a convertirsi all’Islam, pena la morte immediata.

Un’immagine che ha fatto il giro del mondo, indignando e smuovendo le coscienze. Disperate, impaurite, lontane da quelle ragazze spensierate che erano undici mesi fa, così ha descritto le rapite l’ultima persona che le ha viste. Ma ancora vive. Se così fosse, lascerebbe accesa la speranza che, il prima possibile, tutte le Chibok Girls possano tornare libere e sui banchi di scuola.

L'edicola

In quegli ospedali, il tunnel del dolore di bambini e famiglie

Viaggio nell'oncologia pediatrica, dove la sanità mostra i divari più stridenti su cure e assistenza