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Non ci sarà più una Siria, non ci sarà più un Iraq (già non ci sono più) e l’ansia con cui Recep Tayyip Erdogan si è gettato nella contesa in Mesopotamia è la dimostrazione della paura che ci sarà una Turchia amputata. Per sana nostalgia della mescolanza si può rimpiangere il mondo che fu, ma il realismo geopolitico obbliga a considerare la probabile nascita di Stati secondo linee etniche: quanto di più futuribilmente antico.
Mosul è la chiave di volta per dare la stura alla ricomposizione dell’area. Il suo milione e oltre di abitanti sunniti, lo storico prestigio, la posizione strategica, la rendono implicitamente capoluogo, addirittura capitale se Baghdad, caduto Saddam Hussein, è saldamente in mano a una maggioranza sciita con influenze iraniane. Baghdad la vorrebbe riportare sotto il suo controllo e sta usando la cautela di non autorizzare, sul terreno, le truppe sciite ad entrare nel tessuto urbano, nel timore di una ribellione precoce della popolazione. Ma, precoce o più tardiva, la contrapposizione sarà inevitabile se gli sciiti da quando sono al potere (quindi dopo l’invasione americana) hanno dimostrato scarso o nullo rispetto delle altre componenti del Paese.
I confini di oggi e i possibili cambiamenti dopo la caduta dell'Isis
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Lo Stato islamico non era soluzione credibile per la sempre annunciata rivincita sunnita, una leadership moderata potrebbe spingere sull’acceleratore di un’autonomia-indipendenza per quella vasta area del centro-Iraq, estesa sino al confine siriano, dove le tribù sunnite appunto sono omogeneamente padrone del territorio. Il passo successivo è scavalcare il confine di Sykes-Picot per saldare in un’unica nazione i confratelli separati.
I sunniti sono maggioranza in Siria, hanno conosciuto il tallone alauita (branca dello sciismo), hanno tentato di ribellarsi rovesciando Bashar al Assad senza successo sinora. Ma è opinione diffusa che dopo centinaia di migliaia di morti nessun dittatore può rimanere al comando. E già giacciono nelle cancellerie le mappe della spartizione della Siria. Con gli alauiti e Bashar a occupare la fascia costiera e garantire la permanenza dell’alleato russo coi suoi sottomarini nella base di Tartus, i curdi del nord in una loro provincia autonoma a ridosso della Turchia e la pancia del Paese, sunnita, che si salda coi fratelli iracheni.
I curdi sono questione a parte e più complessa. Nel nord dell’Iraq hanno costituito ormai da più di dieci anni, un loro Stato ricco di petrolio. I loro combattenti peshmerga nella battaglia di Mosul si comportano come già i sunniti a sud della città assediata: si spingono fino ai sobborghi, occupano una cintura di sicurezza ma non si spingeranno in centro perché a loro volta persone non gradite. Si sono già conquistati la medaglia di valido baluardo anti-jihadista e potrebbero essere tentati dal salto di qualità istituzionale: un territorio senza soluzione di continuità coi curdi siriani, embrione di uno Stato di tutti i curdi che sarebbe completato con le regioni orientali della Turchia. L’incubo di Erdogan, costretto a inviare le sue truppe oltreconfine sfidando l’ira di Baghdad, per controllare da vicino le mosse dei possibili irredentisti di casa propria. Per Ankara fino a ieri l’altro i curdi nemmeno esistevano (li definivano “turchi di montagna”) le loro pretese separatiste spesso venivano represse nel sangue, finché la loro “questione” era stata accantonata. Ma la storia in cammino ora si preoccupa di ridare linfa al progetto, nel momento in cui frontiere immobili si fanno più permeabili e sta cadendo, di fatto se non ancora di diritto, il tabù dell’inviolabilità delle frontiere. Era già successo in Europa, sul morire del Novecento, con la frantumazione jugoslava. E non per caso il termine più usato con cui si definisce il Medio Oriente è “balcanizzazione”.
Il ginepraio è l’eredità della sciagurata guerra di George W. Bush del 2003 che tolse di mezzo un dittatore al prezzo di scatenare un effetto domino ancora caotico ma di cui si intravede il punto finale di caduta. Una volta restituita Mosul alla civiltà, una serie di scosse telluriche di assestamento accompagnerà un’instabilità foriera di altri conflitti da cui potrebbe scaturire il nuovo ordine mediorientale, come dalla cartina che vedete in queste pagine. Il presupposto è quello di separare i vivi per non dover contare altri morti, un programma modesto ma il solo che sembra efficace nel tempo in cui l’ethnos sembra stare in cima alla scala dei valori.
Gli sciiti spadroneggiano nel Basso Iraq, il loro territorio si salda con quello dell’Iran sciita fino alla tentazione di immaginare un unico Stato compatto sotto l’egida degli ayatollah. I sunniti si insediano a cavallo di Siria e Iraq, con ai poli estremi le città simbolo di Damasco e Mosul. I curdi ora divisi tra Iraq, Siria, Turchia (e una piccola fetta di Iran) iniziano un faticoso cammino verso un ricongiungimento che è un sogno antico.Gli alauiti si ricavano una ridotta lungo il Mediterraneo per sopravvivere e restituire qualche servigio a Putin, in attesa eventualmente di saldarsi col Libano degli alleati hezbollah.
Non sarebbe la soluzione dei guai dell’Asia Minore, però sarebbe la cura per il suo cuore oggi più ribollente. Resterebbe inalterata la questione israelo-palestinese, andata in sonno, almeno nell’interesse della comunità internazionale, perché superata da altre urgenze. Così come resterebbe il conflitto tra sunniti e sciiti (qui nella loro variante houti) in Yemen. Sullo sfondo l’Arabia Saudita avrebbe da temere per un Iran fattosi così grande. E “parvenu” del grande gioco, come ad esempio il Qatar, dovrebbero ritagliarsi uno spazio diverso da quello in bilico tra il sostegno alla Guerra Santa jihadista e le aperture all’occidente.
Per quanto ci riguarda più da vicino, la distruzione dello Stato islamico porterà il problema della diaspora dei foreign fighters, molti dei quali europei, francesi, belgi, inglesi, anche italiani. Quando qualcosa di analogo successe nel 2002 in Afghanistan iniziò la stagione delle bombe di chi, senza più una missione, se ne inventava una in casa propria. È l’effetto collaterale di Mosul che più dobbiamo temere. Sebbene sia cinico dirlo, lo scotto da pagare per una causa superiore. Dopo la necessaria guerra di Mosul non c’è la pace: c’è l’inizio di un faticoso percorso verso la convalescenza di un’area del mondo che ci è prossima. Dunque ci riguarda.