L'Espresso ha visitato il carcere della città irachena di Kirkuk, dove sono rinchiusi oltre cento uomini dello Stato islamico catturati dai curdi. «Ho giurato fedeltà al Califfo solo per soldi, non per fede» (Foto di Alessio Romenzi)

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L’Isis non è ancora finito. E lo ha voluto ricordare il 21 ottobre scorso. In quella notte un commando di uomini dello Stato islamico ha assaltato Kirkuk, strategica città petrolifera nel nord dell’Iraq: più di cento combattenti armati di mitragliatrici, rpg e cinture esplosive hanno attaccato due hotel, le scuole, una caserma e la moschea, dove decine di civili sono stati tenuti in ostaggio per un giorno e mezzo. E soprattutto la prigione locale, nel tentativo di liberare i miliziani catturati e reclusi.

La città di Kirkuk, che un tempo ospitava arabi, curdi e turcomanni, è la maggiore produttrice di petrolio di tutto il nord Iraq: i 100 chilometri di strada a sud est che la separano da Mosul sono un’unica distesa di pozzi petroliferi. Questa ricchezza l’ha resa così importante agli occhi dei curdi che la controllano di fatto dal 2014 ed è una delle ragioni per cui l’Isis, che ha alimentato la sua espansione vendendo greggio sul mercato nero, l’ha scelta per mettere in campo la prima controffensiva dopo l’inizio delle operazioni militari su Mosul.

Occupare stabilmente la città era senza dubbio una possibilità remota, ma la rappresaglia - che ha provocato più di ottanta vittime e 170 feriti - ha dimostrato che al-Baghdadi può contare su numerose cellule dormienti presenti in ogni villaggio del nord Iraq e di godere ancora dell’appoggio di parte della popolazione. L’operazione ha dimostrato soprattutto che il Califfo può destabilizzare un’intera città, minando la sicurezza del paese mentre si combatte per la liberazione della propria autoproclamata capitale Mosul.

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I pozzi di petrolio arrivano fino alla vicina Hawija, ultima grande roccaforte dell’Isis nel governatorato di Kirkuk. Secondo i servizi segreti iracheni sarebbero almeno 1.500 i combattenti presenti nella zona e nei villaggi circostanti. Gli attentatori di Kirkuk venivano quasi tutti da lì, così come la mente dell’assalto, l’emiro Abu Islam al Iraqi, arrestato il 24 ottobre insieme ad altri nove miliziani, attualmente reclusi proprio nel carcere di Kirkuk.
L’Espresso ha ottenuto l’accesso alla prigione e la possibilità di intervistare uno dei suoi ospiti, Addi Abbas Sabhan. Sabhan ha ventiquattro anni, anche lui viene da Hawija. I soldati curdi lo trascinano strattonandogli la testa lungo i corridoi della prigione, lo spingono con la faccia al muro, insieme ad altri due prigionieri che vengono esibiti come un vanto. Hanno le mani legate. E gli occhi smarriti.

Gli agenti ci impediscono l’accesso alle celle, imponendo di intervistare il giovane solo in presenza di tre funzionari di polizia e servizi segreti che possano controllare le sue risposte. Il miliziano ha il volto pulito, indossa una tuta e un paio di ciabatte. A prima vista nulla lascerebbe pensare che sia uno dei feroci attentatori di Kirkuk. «Sono stato reclutato all’inizio del 2014, pochi mesi prima della presa di Mosul, dagli uomini dell’emiro Abu Islam al Iraqi. Lavoravo come muratore, ho sempre fatto il muratore da quando ero bambino, la mia famiglia è poverissima e io dovevo aiutare mia madre a sfamare i miei quattro fratelli. A fine mese ricevevo una paga misera, poco più di 30 dollari, quando andava bene. L’Isis invece ci garantiva tanti soldi, sapevano di poterci convincere così. Promettendoci 200 mila dinari al mese, più o meno 150 dollari. E io non li avevo mai visti tutti insieme».

Addi Abbas Sabhan è nato nel 1992, è cresciuto sotto l’occupazione americana nella parte più caotica dell’Iraq, dove essere un arabo sunnita non era semplice: «Non ho avuto un’adolescenza, non ho potuto studiare perché la mia famiglia non aveva denaro. Sono cresciuto vedendo intorno a me solo povertà e risentimento. Verso gli americani prima, poi verso il governo (quello sciita di Al Maliki, ndr). Io mi sentivo abbandonato, tutti ci sentivamo abbandonati. Quando gli uomini dell’Isis si sono avvicinati a me ho pensato solo che avrei potuto garantire una vita migliore alla mia famiglia. Non sono stato spinto da altre motivazioni».

Le parole di Sabhan non sembrano alimentate da un profondo credo religioso, dal progetto di un califfato islamico senza confini, anzi. Il termine che ricorre più volte nelle sue risposte è “denaro”. Con il denaro è stato convinto a giurare fedeltà ad al Baghdadi, per denaro ha deciso di reclutare altri giovani come lui. «Non sono stato reclutato in moschea, loro si avvicinavano a noi ragazzi nelle piazze, nei luoghi pubblici, conoscevano i villaggi e le condizioni della gente, sapevano chi di noi aveva bisogno di soldi, e ripetevano che avrebbero aiutato e difeso le nostre famiglie, che avrebbero garantito loro una vita dignitosa. E noi una vita dignitosa non l’avevamo mai avuta. Quando ho giurato fedeltà, ho giurato per i soldi, non per la fede».

Per Addi Abbas Sabhan l’Isis ha rappresentato una via d’uscita dalla povertà, l’orgoglio di poter aiutare la sua famiglia, ma anche la rivendicazione di un’identità, quella sunnita. Racconta che i reclutatori incitavano i ragazzi contro il governo sciita di al Maliki, fomentavano la loro frustrazione e il loro senso di ingiustizia. Alimentavano in loro il desiderio di rivalsa. Sabhan spiega che solo mesi dopo la sua affiliazione i miliziani hanno cominciato a parlare di sacrificio in nome del Jihad, della necessità di uccidere gli infedeli, i falsi musulmani, in nome della guerra santa. Del progetto di occupare tutto il paese.

«Volevano educarci al martirio. Dicevano “Uccidi per noi e ti guadagnerai il paradiso”. Eravamo tutti molto giovani perché è più facile convincere un giovane a immolare la propria vita per un’idea. Volevano giovani anche quando mi hanno chiesto di occuparmi del reclutamento degli abitanti di Kirkuk».

Eppure i funzionari curdi descrivono i combattenti dell’assalto a Kirkuk come adulti molto esperti e addestrati a una guerra urbana. Sostengono che tra loro ci fossero anche ex ufficiali del regime. Sull’addestramento militare, sulla presenza di foreign fighters, sulla nazionalità dei suoi capi, però, Sabhan scuote la testa e non risponde.

Le mura della prigione portano ancora i segni dell’attacco. Le facciate annerite sono chiare prove della ferocia dei due giorni di combattimenti. Addi Abbas Sabhan ha fatto da tramite tra i miliziani arrivati da Hawija e gli appoggi locali. Ha coordinato la cellula dormiente di Kirkuk. Racconta che le menti dell’attacco spiegavano loro che per costruire il califfato è necessario controllare l’economia, per questo Kirkuk e il suo petrolio erano importanti. Ed era importante dimostrare di poterci arrivare facilmente, nonostante la battaglia di Mosul.

«Abbiamo pianificato l’attacco per settimane. Eravamo un centinaio, tutti da Hawija, trenta di noi avevano addosso cinture esplosive. Anche io. Una volta arrivati in città ci siamo divisi in gruppi, più o meno di venti persone ciascuno e ogni gruppo doveva assaltare un edificio, protetto dagli abitanti di Kirkuk, dalla gente di qua che avevo procurato io. Avevamo la certezza che c’erano case che ci avrebbero accolto per piazzare i cecchini. Non è stato difficile trovare appoggio qui. Tanta gente odia i curdi, si sente oppressa».

Addi Abbas Sabhan alza lo sguardo verso il funzionario curdo seduto di fronte a lui, capisce di aver pronunciato una frase che può procurargli guai in quella prigione, incrocia lo sguardo ostile di tutti i poliziotti presenti e abbassa gli occhi tenendo la testa tra le mani. «Sono pentito», ripete più volte: «Ho ucciso ma sono pentito».
Addi Abbas Sabhan aveva paura. Dice che non sarebbe mai riuscito a farsi saltare in aria, che avrebbe voluto scappare e abbandonare l’Isis ma che aveva paura di ritorsioni. Difficile capire se davvero abbia combattuto per necessità, per rabbia, per timore di essere punito o per profonda adesione al progetto del califfato islamico. Certamente le divisioni settarie che hanno alimentato l’espansione del Califfato in Iraq sono lontane dall’essere superate.

L’attacco di Kirkuk, infatti, ha aggravato le profonde tensioni etniche già presenti in città. Amnesty International e le Nazioni Unite hanno accusato le autorità curde di aver cacciato centinaia di arabi sunniti e distrutto brutalmente le loro abitazioni come forma di rappresaglia. Il destino della città, che in Iraq chiamano la Gerusalemme curda, per sottolineare quanto sia irrisolta e decisiva la sua amministrazione, è il destino di tutto il paese. Incerto e pericoloso.

Le cellule clandestine sono le insidie di domani. Non dovrà stupire, infatti, se la risposta dell’Isis all’offensiva si tradurrà in diversi attacchi e attentati come quello di Kirkuk, a dimostrare che la minaccia può sopravvivere anche senza una capitale e a riprova del fatto che le cellule dormienti si reggono su un consenso ancora molto diffuso tra la popolazione. E su tanti giovani come Sabhan.

Oggi il miliziano rischia la pena di morte. Gli chiediamo se ha paura, alza gli occhi verso il soffitto e dice: «Certo. Tutti hanno paura di morire».

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