"Obama sottovaluta l’Is: possedere le armi è un diritto"
«Omofobia o no, la strage in Florida è connessa con il terrore islamista. Il presidente dovrebbe avere il coraggio di dirlo. E possedere armi in Usa è un diritto». Le accuse del generale ex consigliere della sicurezza nazionale James L. Jones
Bisogna chiamare le cose con il loro nome. La strage nel locale gay di Orlando con 49 persone uccise è radicale, è islamista ed è fondamentalista. Non so perché il presidente esiti». Il generale James L. Jones, 72 anni, ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, in passato comandante Supremo della Nato in Europa, con una carriera lunga quarant’anni nel corpo dei Marine, si chiede per quale motivo Barack Obama non abbia definito subito il gesto di Omar Mateen, 29 anni, origini afgane, il carnefice dei gay, come “radicalismo islamico” ma si sia limitato a “estremismo interno”.
Generale Jones, non lo fece neanche dopo la sparatoria di San Bernardino. E in questo caso si sta vagliando anche la pista omofoba. Sembra che Mateen fosse addirittura un gay represso. «Nei prossimi giorni le indagini chiariranno molti punti. Però è anche vero che Mateen ha giurato fedeltà all’Is e lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato. Le connessioni mi sembrano evidenti».
L’Fbi lo aveva interrogato e inserito in una lista di sorvegliati. Questo non gli ha impedito di comprare armi legalmente. Hanno ragione Obama e Hillary Clinton a puntare il dito contro la facilità di accesso alle armi in America? «Sarà un tema molto sensibile in campagna elettorale. Credo che nel nostro Paese possedere un’arma sia un diritto fondamentale. Se lo si impedisce con una legge, gli unici che avranno accesso alle armi saranno i delinquenti, che sapranno sempre come procurarsele illegalmente. Vietarne la vendita non metterebbe fine alle attività criminali o agli atti di terrorismo. Credo, però, che comprare un’arma dovrebbe essere più difficile. Bisognerebbe produrre un certificato che attesti, ad esempio, l’assenza di arresti o di problemi di droga o instabilità mentale».
Trump propone di vietare temporaneamente l’ingresso ai musulmani. In passato aveva parlato anche di tortura... «L’idea di chiudere i confini è ridicola, tra l’altro impossibile da mettere in pratica. Quanto alla tortura, sono fermamente contrario».
Come dovrebbero proteggersi gli Usa? «Abbiamo avuto varie tragedie del genere negli ultimi trent’anni. Dobbiamo cercare di prevenirle, evitarle totalmente è impossibile. Sul piano tecnico, la prima cosa da fare è potenziare i controlli per capire chi entra nel Paese e quanto tempo rimane. È, poi, arrivato il momento per gli Stati Uniti di avere un documento unico di identificazione nazionale (in America non esiste una vera e propria carta d’identità, ndr). Occorre rinvigorire la cooperazione internazionale. So bene, ad esempio, che lavoriamo a stretto contatto con gli italiani nello scambio di informazioni. Grazie alla collaborazione tra intelligence europea e statunitense, abbiamo sventato molti attacchi terroristici. Sul piano sociale, invece, dobbiamo puntare sulle nuove generazioni. La comunità islamica deve giocare un ruolo fondamentale. Serve una condanna forte. Ora abbiamo bisogno di sentir dire dai leader musulmani che quello che è accaduto è inaccettabile. L’estremismo radicale si combatte nelle scuole, all’asilo, in chiesa, nelle moschee».
Che conseguenze avrà questa tragedia sulla campagna elettorale? Trump e Clinton hanno approcci opposti. «Spero di sbagliarmi, ma credo che da qui alle elezioni assisteremo ad altri momenti di altissima tensione. La gente ha paura, vuole risposte. Questi eventi destabilizzano il pensiero collettivo. La destra estrema ne trarrà vantaggio, invocherà misure più dure. Il dibattito sarà molto aspro».
Tema connesso è quello dei rifugiati. Le visioni dei due partiti sono opposte. Intanto dei diecimila siriani previsti, fino a ora l’amministrazione ne ha accolti solo 2500. Obama riuscirà a mantenere la parola? «La percezione della gente è che la situazione sia fuori controllo. La destra sta canalizzando questa rabbia, il malcontento. Sono convinto che una riforma delle leggi sull’immigrazione sia irrimandabile, ma non dobbiamo dimenticare che siamo una nazione di rifugiati. Abbiamo bisogno di immigrati legali, possiamo offrire tante opportunità. Il governo deve assicurarsi che la nazione sia protetta e che entrino le persone giuste».
Se fosse ancora consigliere per la sicurezza nazionale, cosa suggerirebbe a Obama? «Di mostrare una leadership più forte all’interno delle organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato. Solo così sarà possibile affrontare in sinergia l’Is e tutti gli altri gruppi terroristici».
Anche Trump fa riferimento costantemente all’indebolimento della leadership. «Gli Stati Uniti non hanno più l’influenza e il prestigio che avevano a livello globale in passato. Ma la responsabilità non è solo dell’amministrazione Obama; abbiamo iniziato a perdere la nostra determinazione già negli ultimi anni di Bush. Purtroppo anche all’interno della Nato c’è stato un declino del coinvolgimento americano. Bisogna mostrare più coraggio, più forza, più impegno. Dobbiamo rinvigorire le alleanze. Ci sono segnali che vanno in questa direzione».
Ad esempio in Libia? «Sì, grazie all’impegno della comunità internazionale il Paese finalmente ha un governo di unità nazionale guidato da Fayez Serraj. Sono ottimista. Ora non possiamo permetterci tentennamenti, dobbiamo agire velocemente al fianco del nuovo governo».
La sconfitta dell’Is e la stabilità in Libia oggi sono una priorità per Italia ed Europa. Serraj ha escluso un intervento militare internazionale. È realistico pensare che riuscirà a unificare un Paese ancora diviso? «Se potrà contare sul sostegno internazionale non ci sono motivi per non credere che possa accadere. Dobbiamo aiutarli a ricostruire la sicurezza, le infrastrutture, l’economia. Dobbiamo mostrare alla popolazione che li attende un futuro migliore. Creando stabilità, sconfiggeremo l’Is».
Le ultime notizie sono positive: le truppe fedeli al governo hanno accerchiato Sirte, roccaforte dell’Is che ha perso terreno anche in Iraq e Siria. Possiamo sperare in una sconfitta totale del Califfato? «Possiamo riuscirci. Ancora una volta è una questione di leadership: Usa, Europa, Nato e Paesi arabi moderati devono agire uniti e con forza. Avremmo dovuto farlo molto prima se avessimo preso altre decisioni. In Siria è stato uno sbaglio non intervenire una volta superata la linea rossa (il riferimento è all’uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad, ndr), non imporre la no fly zone nel Paese. Se avessimo agito prima, la crisi dei rifugiati non avrebbe assunto queste dimensioni».