«Il futuro della Somalia si costruisce adesso, l’Italia ha l’opportunità di ricucire le ferite coloniali aiutandoci ad uscire dall’instabilità causata dal terrorismo islamico, ma al contrario della Turchia (il presidente Erdogan ha visitato la Somalia 3 volte negli ultimi 5 anni ndr) non sta cogliendo le potenzialità del nostro Paese».
Senza troppi giri di parole Fadumo Dayib, candidata alla presidenza della giovane e travagliata Repubblica somala, lancia il suo appello al premier Matteo Renzi. Una vita in fuga come tanti suoi connazionali. Dalla Somalia al Kenya, passando per la Russia fino alla gelida Finlandia, lei che era abituata a sentire tra i suoi capelli il vento caldo del lungomare di Mogadiscio.
Negli anni ’90 Fadumo scappava dai Signori della Guerra, oggi a mettere in fuga migliaia di somali sui barconi nel Mediterraneo sono gli Al-Shabaab (La Gioventù in arabo). Integralisti islamici affiliati ad Al-Qaida che, da 10 anni, minano quotidianamente il processo democratico con attentati e sparatorie fino a sconfinare nel vicino Kenya. Un lungo filo rosso con un comun denominatore: la povertà che attanaglia l’ex colonia italiana.
Il 43% della popolazione vive ancora con meno di 1 dollaro al giorno, quasi tutti giovani under 30, la maggior parte disoccupati e, quindi, facili da indottrinare e arruolare tra le circa 10mila milizie islamiche in cambio di cibo e pochi spiccioli. Da Helsinki, dove Fadumo vive e lavora, è iniziata la lunga e difficile rincorsa verso la presidenza della Somalia, uno Stato che ha avuto le ultime elezioni democratiche mezzo secolo fa. Una campagna sui generis, molto social e poco porta a porta.
Non una scelta mirata, bensì forzata da chi la vorrebbe mettere a tacere per sempre sia nella vita virtuale che in quella reale. «Al-Shabaab ha minacciato di uccidermi perché sono donna, per la mia visione di Islam moderato. La religione deve ricostruire, non disseminare violenza e terrore. A gennaio ci sono quasi riusciti, mi sono salvata per poco, al contrario di bambini e mamme che ogni giorno vendono per le strade pomodori e patate per racimolare qualche spicciolo per vivere e diventano così vittime innocenti di una guerra che non hanno scelto di combattere. Uso Twitter, Facebook e i media tradizionali per far conoscere il mio programma politico e ricevo migliaia di messaggi di incoraggiamento, vorrei poter incontrare personalmente ogni somalo, ma avrei bisogno di un ingente apparato di sicurezza che l’attuale governo non mi garantisce. Essere ricordata come una martire della Somalia non avrebbe senso» - ha raccontato in un’intervista telefonica a L’Espresso.
Dagli anni ’90 ad oggi le missioni di pace targate Onu per provare a stabilizzare il Paese hanno miseramente fallito. Stesso epilogo per le operazioni guidate dagli Stati Uniti, passati ai droni dopo le scottanti sconfitte sul territorio, ben immortalate nel film Black Hawk Down di Ridley Scott. Neanche la combinazione Unione Africana – esercito somalo, rispettivamente con 22 e 35 mila uomini sul campo, sono riusciti a tenere a bada i circa 10mila integralisti islamici, facendo traballare la decisione di Bruxelles di rinnovare l’appoggio economico e logistico anche per il prossimo anno.
«Ci troviamo di fronte ad una guerra ideologica e non militare, altrimenti sarebbe inspiegabile che 57mila militari non riescano ad imporsi su 10mila guerriglieri. Anzi negli ultimi tempi gli attentati a Mogadiscio sono aumentati e gli Al-Shabaab hanno recuperato il terreno perso. Il commando americano in Africa (AFRICOM) sta pensando di coinvolgere i vecchi Signori della Guerra come ultima spiaggia per annientare gli jihadisti, un errore già commesso in passato che aumenterebbe ulteriormente l’instabilità nel Paese. Bisogna, invece, aprire una trattativa con i miliziani che accusano il governo di essere auto-referenziale e di aver abbandonato i giovani somali. L’unico modo per interrompere questa mattanza è dare loro un’alternativa di vita, creando posti di lavoro attraverso la rivitalizzazione dell’industria e dell’agricoltura. Così la loro falsa ideologia terminerà. Di pari passo dobbiamo sviluppare un esercito più coeso, non diviso in clan, meglio pagato e con armamenti sufficienti nel caso il processo di pace non andasse a buon fine» - sostiene la 43enne somala.
Analfabeta fino all’età di 14 anni, Fadumo ha da poco terminato il suo master ad Harvard in Pubblica amministrazione, dopo lauree e titoli legati alla gestione della salute pubblica, il lavoro che ha svolto fin da quando arrivò giovanissima in Finlandia. Per averlo vissuto sulla propria pelle, la 43enne somala madre di 4 figli, è a conoscenza del ruolo cruciale dell’educazione in un Paese dove l’81% della popolazione è ancora analfabeta e quasi 2 milioni di bambini non hanno accesso all’istruzione.
«L’Europa dice spesso di voler aiutare gli Stati africani in loco creando posti di lavoro per evitare l’esodo migratorio. Per far sì che non ci siano più migranti fra 20 anni bisogna iniziare dalle scuole. Gli unici che investono nell’educazione sono Qatar ed Arabia Saudita, che costringono i nostri bambini a parlare arabo e non somalo e li usano per diffondere la loro ideologia wahabita, la stessa che spesso sconfina nell’estremismo».
Figlia di somali migranti, costretta a vivere nei campi di rifugiati nel vicino Kenya, prima della lunga fuga verso l’Europa, Fadumo Dayib è un prodotto dell’immigrazione. Nessuno meglio di lei può comprendere le storie delle centinaia di somali che quotidianamente lasciano il loro Paese per cercare rifugio altrove. «Sto provando con il mio lavoro a cambiare la narrativa del migrante come elemento di disturbo. Mi piacerebbe che l’Europa iniziasse a considerare queste persone come un immenso capitale umano da poter sfruttare nei prossimi anni sia a livello locale per chi deciderà di restare, ma anche a livello internazionale. Una volta formati si potrebbero creare dei ponti che permettano di farli tornare negli Stati d’origine e costruire là i loro business, creando così sviluppo e forza lavoro e riducendo il numero di persone costrette a scappare in cerca di occupazione per non morire di fame. Mi piacerebbe che l’Italia fosse protagonista in questo processo, molti somali parlano ancora italiano. Se non sarà così, a partire da Novembre, con la chiusura del campo di rifugiati di Dadaab in Kenya, che ospita circa 500mila persone, l’Italia e l’Europa rischiano un’altra ondata migratoria di grandi proporzioni».
Tra le tante sfide che Fadumo Dayib è costretta ad affrontare e che la separano dalla possibilità di diventare la prima Presidente donna della Somalia c’è anche l’ostracismo di una classe politica composta per lo più da uomini e suddivisa in clan e che, nonostante le pressioni internazionali, non sembra intenzionata a cambiare l’attuale sistema elettorale che, di fatto, esclude la popolazione dalla possibilità di eleggere il proprio candidato.
«In Somalia non ci sono mai state elezioni, bensì selezioni, dato che 135 capi clan eleggono 14mila elettori che saranno gli unici ad eleggere i 275 membri del Parlamento, che a loro volta sceglieranno il Presidente. Un sistema oppressivo che marginalizza giovani e donne, legato ad un elite, perché sanno che se i somali potessero andare alle elezioni democraticamente nessuno di loro verrebbe eletto. Quando ho presentato la mia candidatura si sono sentiti sotto attacco ed hanno deciso di posticipare la riforma elettorale. In 4 anni il Presidente ha cambiato 3 primi ministri, uno più corrotto dell’altro, come da tradizione nella politica somala. Se il sistema elettorale non verrà cambiato, sarà eletto un altro capo di Stato corrotto, incompetente e legato alle decisioni dei clan. E allora ci riproverò nel 2020. Sono giovane, ho energia, tempo e pazienza. Non smetterò mai di lottare per la mia Somalia».