Il ciclone è agli sgoccioli, ma la stagione di straordinaria siccità che ha colpito decine di Paesi farà scontare un vero calvario. L'ultimo raccolto è saltato e le scorte del precedente stanno terminando. "Venticinque milioni di persone rischiano di non avere cibo ancora fino ad aprile"

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Dal Corno d'Africa alla Namibia, El Niño ha fatto saltare i raccolti e dimezzato l'acqua in decine e decine di villaggi rurali che vivono di agricoltura. Il ciclone è agli sgoccioli, le piogge sono attese per ottobre, ma la terrà non darà frutti prima del prossimo aprile.

Intanto i granai per le riserve sono vuoti o quasi, il bestiame sopravvissuto è stato già svenduto ai mercati locali. E se il terreno riarso non dovesse trattenere gli acquazzoni, c'è il rischio che pericolose inondazioni mandino a monte anche la semina di ottobre. Un effetto a catena.

"La questione è molto semplice: 25 milioni di persone nell'emisfero australe del continente africano rischiano di non avere cibo ancora per altri nove mesi". Marco Guadagnino, portavoce dei Programmi Internazionali di Save the Children, appena tornato in Italia dallo Zambia, racconta a L'Espresso lo stato delle aree rurali della provincia dell'Ovest, al confine con l'Angola, tra le più colpite dalla furia dell'evento. Un arcipelago di capanne che sopravvive nella Savana distante chilometri dai primi centri abitati. Mille diverse tribù, dai mille colori e rituali, ma la stessa terra a scandire un fragilissimo ciclo vitale.

"Hanno perso due raccolti, da un anno e mezzo non piove, ho parlato con gli agricoltori, nessuno ricordava niente del genere in passato, forse i più anziani qualcosa di cinquanta anni fa". Già, perché El Niño parte ogni cinque anni dal Perù, surriscalda le acque del Pacifico e stravolge i ritmi climatici di intere aree del globo. E' un fenomeno ciclico e si può prevedere, ma stavolta le proporzioni catastrofiche hanno spazzato via ogni aspettativa. E nelle regioni dell'Africa meridionale temperature record e siccità ai massimi storici hanno messo in ginocchio chi già lottava contro fame, sete, malaria.

Nakabunze, nel distretto di Sioma, è un villaggio nella zona più povera dello Zambia. A un'ora di macchina dalla prima cittadina, a dieci chilometri a piedi dalla prima fonte d'acqua. Qui da mesi 320 famiglie stanno centellinando pasto dopo pasto le riserve di granturco del 2015. Le porzioni di chicchi, prima essiccati, poi pestati nei mortai, trasformati in farine e poi in una densa minestra del colore della terra, si riducono sempre di più. Perché l'ondata di calore straordinaria ha bruciato l'ultimo raccolto, e le riserve che dovevano bastare per un anno dovrebbero in teoria coprirne due. "Non è un obiettivo possibile – spiega Guadagnino – gli abitanti ci hanno mostrato le scorte, sono già alla fine, le stanno razionando ma basteranno fino a ottobre".

Qualcuno si ingegna per mettere a tacere la fame. "Succede che le donne usino fogliame, fatto bollire con l'acqua, come antidoto per frenare l'appetito. Lo abbiamo visto fare in un altro villaggio del Mozambico, all'inizio pensavamo fosse un rimedio naturale per il mal di pancia che spesso colpisce i bambini malnutriti".

I pochi animali allevati sono stati venduti ai mercati locali, a prezzi stracciati data l'altissima offerta, o sono morti agonizzanti sulle strade. Il mais è l'unico alimento della zona, le alternative servono per lo più da condimento. "Gli operatori formati da Save the Children cercano di insegnare alle donne a cucinare anche qualche altro prodotto che non sanno di avere o non sanno che possono mangiare. Le foglie di una pianta, frutti che magari sono a pochi metri dalle capanne, qualche tubero. Sempre prodotti locali, mai importati da fuori".

Avviene in condizioni ordinarie, si chiamano "cooking demonstration", lezioni di cucina a costo zero per arricchire, seppur col minimo, pasti sempre uguali e mononutrienti, inserite all'interno di progetti di cooperazione che interessano l'intera area sud africana, dove la piaga della malnutrizione (2,7 milioni di bambini in condizioni gravi secondo le ultime cifre disponibili) è già il quotidiano.

Ma nel deserto lasciato da El Niño non basta. Ora mancano gli ingredienti di base. E manca l'acqua. I pozzi se presenti non funzionano. Le fonti, timidi ruscelli evaporati al sole, sono lontanissime dai villaggi. Dalle capanne di Nakabunze si raggiunge il fiume a piedi camminando lungo distese di terra senza vita per più di un'ora, poi si torna indietro con il peso delle taniche piene. Un viaggio massacrante che impegna anche i bambini.

"Nei periodi di forte carestia come questo aiutano la famiglia in tutti i lavori che servono per il sostentamento della comunità". Così tra i banchi di scuola si vedono sempre meno. A un'ora a piedi dal villaggio è a disposizione uno dei sei centri per la prima infanzia realizzati nell'area da Save the Children. Cinquanta bambini dai 3 ai 6 anni possono imparare a leggere, scrivere, contare, giocare, interagire con i coetanei. Una fondamentale finestra sul mondo che El Nino rischia di chiudere.

"Abbiamo registrato gravi conseguenze sul piano della frequenza scolastica" denuncia ancora Guadagnino. I più piccoli restano a casa, e non solo perché servono come forza lavoro. "Lui l'anno scorso andava a scuola – racconta Dorothy agli operatori, indicando un bimbo di 7 anni – ora lo teniamo a casa perché non ci sono i soldi per comprargli le scarpe, le penne, i quaderni. Preferiamo così". Un'altra mamma tiene il figlio con sé perché "a scuola lo prendono in giro, si addormenta sempre, è debole, non abbiamo abbastanza cibo, ora si è ammalato".

Di Nakabunze ne troviamo a centinaia. Dallo Zambia allo Zimbawe, dal Malawi, al Botswana, dal Lesotho al Mozambico, l'incubo del ciclone che ha ribaltato gli equilibri naturali di milioni di persone non ha risparmiato nessuna periferia. Dovrebbe avere i giorni contati. Il cielo, secondo le previsioni, regalerà la pioggia fra ottobre e novembre, restituendo le condizioni ambientali per la nuova semina. Ma il prezzo dei cereali è salito alle stelle, e le comunità non hanno più moneta per acquistare i semi.

E' una corsa contro il tempo in tutto l'emisfero australe del continente. Gli aiuti servono oggi. "Parliamo di colture che hanno bisogno di sei mesi per crescere, il mais si può piantare solo a ottobre. E' necessario che gli Stati e i donatori portino interventi definitivi adesso, sementi e voucher da immettere sui mercati locali per far ripartire almeno l'economia di piccola scala". Un appello lanciato da Save the Children e dalla Comunità per lo Sviluppo dell'Africa Australe (Sadc), in concomitanza con il varo di un piano d’azione dal Regional Inter-Agency Standing Committee (Riasco).

A inizio luglio l'ultima riunione dei leader delle Nazioni Unite, per esortare governi e comunità internazionale a prendere misure urgenti per il ripristino dei mezzi di sussistenza distrutti da El Niño nel sud della Terra, dal corridoio arido dell'America centrale, all'Asia sud orientale, alle isole del Pacifico, Africa australe in testa. E l'emergenza tempi è in cima all'agenda: muoversi ora permetterà alle comunità di avere input agricoli sufficienti per affrontare la prossima semina.

In parallelo ad azioni di prevenzione, perché l'acqua in arrivo dai cieli potrebbe non essere solo una manna. Gli esperti hanno annunciato il probabile manifestarsi de La Niña, alter ego de El Niño, fenomeno climatico opposto che porta precipitazioni sì ma ne aumenta la portata. I villaggi già in sofferenza non reggeranno acquazzoni violenti e imprevedibili. E' l'Onu a fornire stime drammatiche: senza interventi immediati le persone colpite sul pianeta potrebbero raggiungere i 100 milioni.