Ci incontriamo ad una pompa di servizio di Downtown Miami. E’ circa mezzogiorno e c’è la solita temperatura tipica del Sud della Florida, che non conosce inverni né stagioni. Ci mettiamo quasi subito in marcia, dopo che ognuno ha caricato le sue cose in camper, e il primo dettaglio a saltare all’occhio, entrando nella living del veicolo, è il cartello rosso “Make America Great Again”.
La nostra destinazione è Washington DC. Faremo una sosta stanotte per riposarci in North Carolina e poi punteremo dritti verso la capitale di questa enorme nazione che ha appena eletto un milionario come suo commander in chief. E’ proprio da lui che stiamo andando. Andiamo a vedere il nuovo presidente eletto, Donald J. Trump, insediarsi alla Casa Bianca.
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“Ce l’abbiamo fatta! – Matthew, il nostro driver 38enne, sorride entusiasta mentre avvia il grosso mezzo carico di bandiere e cartelli – Siamo riusciti ad eleggere il miglior Presidente che gli Stati Uniti d’America possano mai avere”. Gli altri compagni di viaggio applaudono il momento della partenza facendo partire un coro ascoltato centinaia e centinaia di volte ai rally. Una sola parola ripetuta finché non manca il fiato: “TRUMP, TRUMP, TRUMP, TRUMP, TRUMP, TRUMP”.
“Abbiamo lavorato tanto per arrivare fin qui – interviene quasi subito Gary, 25 anni, come a voler riepilogare cosa stiamo facendo – abbiamo tolto tempo al nostro lavoro, alle nostre famiglie, alla nostra vita. Ma adesso tutto torna. Non ci credevamo fino all’ultimo e invece ce l’abbiamo fatta!”.
Questo gruppo di amici in viaggio ha fatto parte attivamente di una campagna elettorale che si è davvero svolta dal basso. Hanno sventolato cartelli agli incroci nelle ore di punta, hanno distribuito adesivi nei parcheggi, hanno organizzato “sign waiving” e proteste, hanno partecipato a ogni comizio che l’allora candidato Trump ha tenuto nello stato della Florida. Ma soprattutto, hanno creduto nelle parole di quet’uomo. Ad ogni singola parola, tanto da ritenerlo un salvatore: “Donald Trump è l’unica persona che può salvare questo paese dalla distruzione – riprende Matthew mentre l’Interstate 95 corre fuori dal finestrino del nostro camper – farà con l’America quello che è riuscito a fare con le sue società”.
Dopo neanche un’ora dalla partenza viene attaccato un telefono col bluetooth e cominciamo a sentire attraverso le casse dell’autoradio la diretta di Fox News. Sarà il nostro sottofondo perenne per il prossimo migliaio di chilometri. “Bisogna sapere quali news ascoltare – attacca Gary – i media liberal sono completamente corrotti, riportano solo notizie false. Per questo i democratici restano sempre della loro idea, gli viene fatto continuamente il lavaggio del cervello e credono a tutto quello che sentono in tv”.
Mentre ascoltiamo il confronto tra la nuova squadra di governo e i senatori, esce fuori il discorso del climate changing. “E’ una bufala messa in piedi dalla Cina – Gary sta cercando un’intervista da mostrarci che lo dimostra – è tutto organizzato per metterci fuori gioco”. Non ci sono scioglimenti di ghiacciai né orsi polari denutriti che tengano, lo ha detto Infowars (che è il sito di notizie che i Trumpers consultano come fosse la Bibbia).
Ci fermiamo a sud di Charlotte, nella Carolina del Nord, dove trascorriamo la notte in un campeggio, per poi ripartire la mattina successiva con le prime luci del mattino. Sulla strada ci fermiamo a fare colazione in un tipico diner della provincia americana, quelli coi sedili di pelle appiccicaticci e le tazze di caffè riempite di continuo.
Ispirati dal contesto, parliamo di lavoro. Delle possibilità che gli Usa offrono, dell’offerta lavorativa in questo momento, del salario minimo garantito. “Bisognerebbe toglierlo – argomenta Matthew, che nella vita è un imprenditore nel mercato immobiliare – uccide la competitività e fa scappare le nostre aziende a produrre all’estero”. Interviene anche Gary, che dopo la laurea è ancora in cerca del lavoro dei suoi sogni e nel frattempo fa il tassista con Lyft, argomentando come sia assurdo pensare che abolire il minimum wage possa favorire lo sfruttamento: “E’ un modo per stimolare i giovani a migliorarsi – sostiene – se non siamo soddisfatti dobbiamo rimboccarci le maniche e cercare altro”.
Finito di mangiare, riprendiamo il cammino. Mancano poche ore di viaggio e l’atmosfera si fa sempre più impaziente. Fino a Washington non stacchiamo mai orecchie e occhi dalle notizie (quelle vere) e continuiamo a discutere di tutto quello che Trump ha promesso in campagna elettorale.
Impossibile non nominare uno dei temi più caldi in assoluto. “Vorrei potermi comprare un mattone – dice Matthew bevendo il caffè appena versato in autogrill – ma non di quelli col tuo nome che vendono su Internet (ebbene sì, si può ricevere a casa un mattone ricordo con incise le proprie generalità sotto alla scritta “Build the Wall”), vorrei che il mio facesse parte di quel muro che Trump costruirà per proteggerci dai trafficanti di droga, dai delinquenti e dal terrorismo”.
Arriviamo a Washington che è ormai sera, ci registriamo ad un rv parking situato a nord della città e tutto già ci parla di lui. Nello shop all’interno della reception del camping c’è qualsiasi gadget possibilmente immaginabile, oltre ad una gigantografia a dimensione naturale di Trump.
Washington DC, il mattino dopo, è completamente militarizzata. Per l’Inauguration Day è stato disegnato un perimetro di recinzioni e checkpoint, intorno al Capitol Building e alla White House, entro il quale è impossibile accedere con l’auto. Domani ci sarà la cerimonia di insediamento e per avere un biglietto di ingresso alle aree riservate della National Mall si doveva partecipare, nei mesi scorsi, ad una sorta di lotteria cui ci si poteva registrare tramite l’ufficio del Senatore o rappresentante locale del proprio Stato di provenienza.
Chi ne è rimasto sprovvisto, come noi, ha dovuto presentarsi con un giorno di anticipo e attendere pazientemente in fila fuori dalla House of Representatives, per poi riuscire ad avventurarsi all’interno degli infiniti corridoi abitati da centinaia di uffici rappresentanti, appunto, gli Stati che compongono questo Paese. C’è chi ne è uscito vincitore sventolando l’agognato cartoncino e chi ne è uscito speranzoso augurandosi di essere richiamato più tardi dall’addetto alla lista d’attesa. Matthew e Gary visitano tre diversi uffici rappresentanti lo stato della Florida prima di ottenere gli inviti per il nostro gruppo. Giocano la carta dell’attivismo, dell’impegno profuso, mostrano perfino i loro profili Twitter come testimonianza dell’ostinata fedeltà nei confronti della missione che hanno scelto.
Torniamo in camper per prepararci al ballo ufficiale, il Deploraball. Il nome è liberamente ispirato al soprannome che i fedeli di Donald si sono auto-affibbiati, dopo che la candidata democratica Hillary Clinton li aveva definiti “a basket of deplorables”. Negli armadi ci sono dei tuxedo ad attendere i nostri, che diventano ogni ora un po’ più impazienti. Mentre siamo in un Uber Black alla volta del National Press Building, dove si terrà l’evento, l’entusiasmo si mischia con la commozione. Sembra quasi ci stiamo recando ad un ingresso in società, e forse, per certi versi, è proprio così. Fuori dall’evento si sono riunite un centinaio di persone a protestare. Hanno megafoni, musica, cartelli e molta rabbia. Davanti a loro sfilano coppie in smoking e pelliccia, la tensione cresce e cominciano a volare bottigliette di plastica. Poco dopo la polizia interviene con gli spray al peperoncino ma la folla si disperde solo per un momento, per poi ricompattarsi poco dopo e continuare a piantonare la 14a strada di Washington DC.
Il giorno dopo è il grande giorno. Ci svegliamo praticamente all’alba, prendiamo un taxi fino a dove riusciamo ad arrivare e camminiamo fino a raggiungere uno dei checkpoint per accedere al perimetro di sicurezza. Per farlo ci si deve mettere ordinatamente in fila, ma c’è qualche piccola coda solo per accedere ai settori più vicini al palco. Quel palco dal quale, tra pochissime ore, Donald J. Trump presterà giuramento come 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Percorrendo Maryland Avenue, completamente recintata dal lato adiacente la Casa Bianca, ci troviamo catapultati nella giornata che per molti americani, come il nostro gruppo arrivato da Miami, rappresenta una svolta epocale (mentre per molti altri è l’inizio di un incubo che divora gli otto anni di “yes we can”).
Soldati in mimetica, agenti dei servizi segreti con tanto di scritta sul giubbotto anti-proiettile, cani poliziotto, cavalli con le stelline della bandiera dipinte sul dorso, elicotteri parcheggiati in mezzo alla strada e autobus di linea posizionati di traverso a mo’ di barricata. I venditori ambulanti, anche qui come ai rallies, vendono spille, cappellini e magliette con l’immancabile scritta “Make America Great Again”, ma anche con quella “Made in China” se si vuole polemizzare con le politiche anti-globalizzazione del nuovo president-elect che dichiara a gran voce quanto sia necessario riportare il lavoro manifatturiero negli Stati Uniti.
I metal detector sono ovunque e gli officers controllano scrupolosamente anche le macchine fotografiche chiedendo di accendere e scattare una foto per dimostrare che non siano ordigni camuffati. Il settore silver, dove entriamo con il biglietto faticosamente guadagnato il giorno prima, non è particolarmente affollato, anzi. Inizia la cerimonia e così la sfilata di tutti gli ex presidenti accompagnati dalle ex first ladies. All’arrivo della Clinton, dalla nostra zona parte un lunghissimo “buuu”. Arriva infine lui, Donald Trump, e alla sua vista scattano gli abbracci, i selfie e le dirette Periscope. Tutti attendono il suo discorso, la sua dichiarazione di trionfo, le sue parole di viittoria. E sono quelle che tutti si aspettano (e che molti dei presenti hanno già sentito recitare come un mantra).
Cambia solo il tempo verbale: in campagna elettorale erano coniugate al futuro, ora invece il tempo è presente. “Le ricchezze saranno ridistribuite agli americani e non vi lascerò mai da soli – dice Trump – riporteremo qui il nostro lavoro, assicureremo i nostri confini e riavremo indietro i nostri sogni”. Matthew commosso strilla “Great!”, mentre Gary abbraccia una ragazza conosciuta poco prima come se fosse Capodanno. L’entusiasmo generale li travolge ancora di più quando la folla scoppia in un boato dopo che Trump dichiara, in quella sua maniera sempre ben confezionata a forma di slogan pubblicitario, le due nuove regole fondamentali da seguire: “Buy american, hire american” (“Comprare prodotti americani, assumere dipendenti americani”).
Uscendo dal cancello, Gary e Matthew discutono dei passaggi migliori del discorso, mentre ripercorriamo le strade recintate fermandoci ad acquistare cappellini, felpe e sciarpe a marchio Trump. Vogliamo raggiungere le gradinate per vedere la parata, ma i militari non fanno che rimbalzarci ai checkpoint che ci permetterebbero di raggiungere Pennsylvania Avenue, dove molti hanno già trovato una buona posizione per veder sfilare l’auto presidenziale.
Al terzo tentativo capiamo il motivo: sono iniziate le proteste e i servizi segreti hanno isolato l’area interessata di modo che chi è dentro la recinzione non possa uscire e trovarsi dall’altra parte delle barricate, nel vero senso della parola. Per raggiungere una delle gradinate posizionate lungo il percorso di un miglio e mezzo tra il Capitol e la White House, dobbiamo circumnavigare la zona rossa per diversi chilometri, assistendo agli scontri come se fossimo in un acquario, anche se la sensazione è che a nuotare in acque senza vie di uscita ci siano i protester arrivati da tutta la Nazione.
Matthew attacca briga con un ragazzo poco più che ventenne che indossa una maglietta con su scritto “Fuck Trump”, ma a separarli c’è una rete di ferro. Mentre fuori dal security perimeter vengono infrante vetrine, incendiate auto e arrestate 217 persone, all’interno il Presidente Trump e la first lady Melania percorrono un centinaio di metri a piedi, prima di salire in auto per concludere il tragitto. Anche qui, la nostra gradinata non è così affollata e ha cominciato a cadere qualche goccia di pioggia, ma il nostro gruppo non rinuncia al selfie d’ordinanza mentre la parade scorre alle sue spalle.
Ci riavviamo verso la parte est della città, dopo esserci fermati a mangiare un panino comprato da un food truck. Matthew indossa la nuova felpa con il numero 45, come i presidenti degli Usa fino ad oggi. Prima di lasciare DC, un’ultima foto con la tipica posa di Donald, quella col pollicione in su. Dietro di noi, in lontananza, Capitol Hill. Matthew guarda Gary e gli altri ripetendo la prima frase pronunciata appena ci siamo messi in viaggio quattro giorni fa: “Ragazzi, ce l’abbiamo fatta”.
Ce l’hanno fatta davvero.