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Mondo
marzo, 2017

È morto Valéry Giscard d'Estaing. «Le mie proposte per salvare l'Europa»

Valéry Giscard d'Estaing (foto di Tommaso Bonaventura)
Valéry Giscard d'Estaing (foto di Tommaso Bonaventura)

È scomparso l'ex president francese all'età di 94 anni. Lo ricordiamo con questa intervista rilasciata nel 2017. «Vanno messe in comune le politiche economiche: deficit, tasse e debito. Il resto rimane alle singole nazioni»

Valéry Giscard d'Estaing (foto di Tommaso Bonaventura)
Un quadro di un paio di secoli fa che riunisce i re Luigi di Francia dal 13.mo al 16.mo. Pochi gradini ripidi e poi due enormi zanne di elefante africano ricurve, a cornice di un putto in pietra grigia. Sullo sfondo la vetrata da cui s'intravede un giardino all’italiana. Fin dall’ingresso è chiaro che questa casa del sedicesimo municipio di Parigi ospita un pezzo di Storia europea. Occupante incluso.

A 91 anni Valéry Giscard d’Estaing, eletto nel 2003 alla prestigiosa Accademia francese, è non solo il più anziano presidente francese ancora in vita ma anche uno dei pochi politici viventi che ratificarono nel 1957 il Trattato di Roma, l’atto fondante della Comunità economica europea, la precorritrice dell’Unione europea. E all’Europa lui ha consacrato i suoi anni di politica attiva: nel 2001 ha ricevuto la medaglia d’oro della Fondazione Jean Monnet per l’Europa, l’anno successivo il premio Carlomagno e nel 2006, insieme all’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, ha ricevuto il premio De Gaulle-Adenauer a Berlino.


L'EUROPA DI DOMANI SECONDO GISCARD D'ESTAING


Il prossimo 25 marzo saranno passati 60 anni dal giorno in cui al concetto di Europa, fino ad allora solo espressione geografica o, peggio, perenne campo di battaglia, potemmo accostare la parola “comunità”. Archiviato il passato di sangue, fu in quell’anno che francesi, tedeschi e italiani iniziarono a percorrere un cammino comune verso un futuro collettivo di pace e di prosperità che passava, nelle intenzioni maturate nel Dopoguerra, per la condivisione volontaria e graduale delle strutture economiche, politiche e sociali.

Nato nel 1926 a Coblenza, in Germania, da un ispettore delle finanze dell’amministrazione francese che al tempo occupava la regione della Renania, Giscard d’Estaing, o VGE com’è conosciuto in Francia, aveva poco più di trent’anni quando da parlamentare tra le fila dei repubblicani prese la parola durante la discussione sul Trattato di Roma. Chiese ai colleghi che dimostrassero «la stessa passione che avevano verso il trattato anche per la definizione di una politica economica comune che potesse rendere il mercato europeo possibile». Ne aveva 48 quando divenne presidente della Repubblica francese e spinse sull’acceleratore della costruzione europea insieme a Schmidt, con cui condivideva la stessa idea di Europa. Perché, ricordiamolo, la nostra Europa, fin dai primi vagiti, è innanzitutto il risultato dell’intesa tra politici francesi e tedeschi. Non a caso furono Giscard d’Estaing e Schmidt, le cui carriere politiche coincisero nel tempo, a formalizzare nel 1974 il Consiglio europeo, ovvero l’incontro formale e regolare tra capi di stato europei. «La più importante decisione dal trattato di Roma», l’avrebbe definita un paio di anni più tardi un anziano Jean Monnet, il Padre dell’Europa. Furono sempre loro, nel 1976, a decidere per l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo (la prima avvenne nel 1979) e nel 1979 a varare l’Ecu, il progenitore dell’Euro odierno. Primo passo verso l’unione monetaria.

Nel 2001, su suggerimento del cancelliere Gerhard Schröder, il Consiglio europeo chiese a Giscard d’Estaing di presiedere la Convenzione europea. Obiettivo: elaborare la Costituzione dell’Unione europea e darle un assetto capace di farla funzionare anche in versione “Extra-large”. Il testo fu firmato a Roma nel 2004 e avrebbe dovuto entrare in vigore nel 2006. Ma i tempi erano già cambiati. Prima i francesi, poi gli olandesi lo rifiutarono tramite referendum. Fu la prima grande battuta d’arresto del processo d’integrazione. Un cammino che negli ultimi 12 anni è diventato sempre più arduo e che rischia di arenarsi definitivamente sotto i venti del neoprotezionismo economico e della nuova retorica nazionalista e identitaria. Seppellendo il progetto comune stellato sorto dalle macerie nazionali delle due grandi guerre mondiali.

Signor presidente, come ha vissuto la nascita della Comunità economica europea negli anni del Dopoguerra?
«Allora desideravamo due cose: ristabilire la pace e rendere l’Europa, passo dopo passo, una potenza mondiale, sul piano economico e su quello politico, dello stesso livello degli Stati Uniti e, allora, dell’Unione Sovietica. Entrambe le dimensioni: quella economica e quella politica. Infatti, nel suo celebre discorso del 9 maggio 1950, Robert Schuman (il ministro degli Esteri francese che il 9 maggio 1950 propose la formazione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio, il punto di partenza verso la Comunità economica europea nel 1957 e poi l’Unione europea nel 1992 ndr) disse che la costruzione di una Federazione europea avrebbe dovuto avere un’organizzazione politica».

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Avevate in mente una prospettiva temporale per raggiungere il sogno della federazione economica e politica d’Europa?

«Negli anni della mia presidenza, tra il 1974 e il 1981, ero assolutamente convinto che avremmo fatto presto. Ebbi la fortuna di avere come collega alla testa della Germania Helmut Schmidt, con il quale instaurammo un’intesa preziosa. Nella storia letteraria francese del sedicesimo secolo due grandi intellettuali, Michel de Montaigne e Étienne de La Boétie, erano molto amici. Quando chiesero loro il perché di questa amicizia, Montaigne rispose: «Perché lui è lui e io sono io». Il parallelismo delle nostre due carriere è stato straordinario. Fummo nominati io presidente e lui cancelliere a distanza di soli tre giorni nel maggio del 1974. Nel 1981 io lasciai l’Eliseo e nel 1982 lui terminò il suo mandato. Lui era socialdemocratico e io del partito Repubblicano: dimostrazione che si può lavorare bene insieme se si è ragionevoli e realisti. Non abbiamo mai avuto antagonismi ideologici. Avevamo deciso che non ci sarebbero mai state dichiarazioni tedesche e francesi in contraddizione. Prima dei Consigli europei ci vedevamo, spesso ad Amburgo, dove aveva una casa in un quartiere residenziale modesto dal quale non si è mai spostato. Davanti a un boccale di birra decidevamo le posizioni comuni da presentare agli altri. Avevamo le stesse idee sull’Europa, un’Europa a nove membri, i sei Paesi fondatori più la Gran Bretagna, la Danimarca e l’Irlanda. Adesso siamo 28: l’Europa non è più governabile e non è governata».

Come abbiamo fatto ad arrivare, sessant’anni più tardi, ad un’Europa non più amata dai suoi cittadini, sentita come matrigna malvagia anziché benevola e protettrice?
«Fino alla caduta dell’Unione sovietica, l’Europa era abbastanza omogenea e poteva prendere decisioni comuni. Ma negli anni 1990 l’Europa si è divisa e da allora ci sono state due Europe. Giornalisti e opinione pubblica ancora oggi non riescono a distinguerle. I giornalisti chiamano Europa sia la zona Euro, ovvero l’Europa dei Paesi Fondatori che ha trovato la sua espressione nel Trattato di Maastricht del 1992, sia l’Europa a 28, ovvero l’Europa della Grande Espansione degli anni Duemila. Questa ha interessato i Paesi che erano nella sfera comunista, e dunque i paesi più poveri, con dei bisogni considerevoli. La negoziazione con loro non è stata portata avanti correttamente perché non è stato messo in evidenza che l’Europa è anche un progetto politico. Abbiamo permesso che si accontentassero solo di ricercare e ottenere vantaggi economici».

Una delle ragioni per cui gli stati dell’Europa dell’Est sono stati invitati a entrare in fretta è stata quella di sottrarli dalla sfera d’influenza russa e di ricondurli nel mondo occidentale...
«Si sarebbe potuto sottrarli a quella sfera d’influenza progressivamente. I paesi dell’Est hanno una vocazione a unirsi all’Europa, sono paesi europei, ma se i precedenti paesi membri ci avevano messo più di trent’anni per arrivare ad un’unione economica con aspirazioni politiche, questi non potevano mica farlo in due anni. Avrebbero dovuto restare indipendenti per una quindicina d’anni così da dotarsi di istituzioni proprie, creare delle nuove strutture rappresentative e sindacali, e uscire completamente dal regime comunista prima di entrare nell’Unione europea. L’allargamento rapido è stato uno sbaglio politico dell’epoca».

Che ruolo ha giocato Romano Prodi, unico presidente della Commissione europea italiano (periodo 1999-2004), nella Grande Espansione?
«Romano Prodi è un uomo brillante e molto caloroso ma ha accettato di portare avanti l’espansione europea senza fare alcuna riforma. È stato un errore storico che ha gettato le radici dei guai attuali. I cittadini del nucleo fondatore si sono trovati persi in un insieme disomogeneo. Il funzionamento del sistema era stato creato per sei Paesi e non è davvero cambiato con l’allargamento. Quando abbiamo fondato l’Europa credevamo che saremmo passati a nove ma non di più. Pensavamo agli spagnoli, ai portoghesi e ai greci, forse all’Austria ma a quel tempo era in una situazione difficile, in bilico tra Est e Ovest. Quell’Europa sì che avrebbe potuto funzionare. Avrebbe avuto 10-11 commissari e 600 deputati. Invece abbiamo l’Europa a 28».
Valéry Giscard d'Estaing (foto di Tommaso Bonaventura)

Perché è stato compiuto questo errore?
«Per debolezza politica. Gli Stati Uniti e i britannici spingevano verso l’allargamento troppo rapido e poco responsabile e hanno insistito a lungo persino per l’entrata della Turchia nell’Unione: una proposta irrealistica perché esistono, se non altro, enormi problemi d’identità. La signora (Margaret) Thatcher aveva addirittura annunciato che l’allargamento sarebbe finito nel 2000. Volevano indebolire l’Europa affinché restasse un mercato di libero scambio e non diventasse una potenza economica e politica. Così abbiamo dato vita a un allargamento per cui non eravamo preparati, senza che alcun governo proponesse una profonda riforma delle istituzioni. Abbiamo avuto un parlamento gigantesco e troppi commissari, ben 28, quando Jacques Delors, l’ultimo presidente in gamba della Commissione (decennio 1985-1995), ripeteva che il loro numero non avrebbe dovuto superare i 12. Il trattato di Nizza del 2001 è stato il peggior trattato europeo mai siglato perché ha previsto la Grande Espansione senza alcuna riforma».

Anche l’Euro non gode di ottima salute....
«I partecipanti al trattato di Maastricht in cui si è istituito l’Euro dicevano - tedeschi compresi - che non avremmo potuto avere una moneta comune senza una politica economica comune. Invece dal 1997 abbiamo seguito politiche molto diverse. La Germania si è riformata. I paesi che avevano l’abitudine di svalutare, come l’Italia e la Francia, hanno continuato a spendere come se potessero annullare le spese con la svalutazione. È stato un grande errore che ha avuto conseguenze gravi. L’economia italiana produce ottimi prodotti, con imprese piccole e medie. Io mi vesto in Italia, ancora oggi. Ma era abituata a svalutare ogni dieci anni per rimettere i prezzi al livello internazionale. Con l’Euro è finita questa possibilità. Italiani e francesi avrebbero dovuto adeguare la loro politica economica alla nuova realtà e invece hanno fatto il contrario. Abbiamo permesso che Grecia, Italia, Spagna e Portogallo si indebitassero eccessivamente. E lo abbiamo potuto fare perché i tassi di interesse erano anormalmente bassi. Adesso gli Usa alzeranno i tassi di interesse e noi saremo obbligati a seguire. I paesi più indebitati saranno quelli che finiranno per pagare di più».

Perché fu decisa l’introduzione di una moneta unica?
«Durante il mio settennato da presidente l’Europa ha attraversato grandi perturbazioni monetarie. Alcuni stati erano obbligati a svalutare e altri a rivalutare. Se non avessimo fatto niente il mercato comune dell’epoca si sarebbe disgregato. Negli anni Ottanta con Helmut abbiamo costituito un comitato per esplorare l’unione monetaria e abbiamo concluso che serviva una moneta unica, di cui abbiamo stabilito i modi di funzionamento. Fin dall’inizio era chiaro che, per funzionare, l’Euro avrebbe avuto bisogno di una politica economica comune. A questo fine sono stati posti i paletti del Patto di Stabilità su deficit e debito, che tutti hanno ratificato. Poi però il patto è stato applicato male perché i Paesi abituati alla svalutazione hanno pensato che avendo una moneta solida, non avrebbero corso rischi, e hanno attuato politiche finanziarie espansive. Sfortunatamente è stato anche il caso dell’Italia, grande paese fondatore, che si è lanciata nella spesa facile».

Insomma: l’Europa è morta?
«In realtà esistono due Europe: l’Europa a 28, che è una zona di libero scambio troppo burocratica, e la zona Euro, che è la ricerca dell’integrazione economica dell’Europa per portarla a diventare potenza mondiale. Sono due progetti diversi. Quello dell’Europa a 28 sarà sempre più un progetto tecnico del Grande Mercato che dovrà attraversare le prossime elezioni europee e subire le ire della popolazione. È molto fragile e in pericolo. L’altra Europa, quella dell’Euro, invece dovrà portare avanti un progetto di maggiore integrazione, ripartendo da Maastricht, l’ultimo buon trattato, e guardando avanti, verso un mondo che nel frattempo è cambiato profondamente. Non ha scelta. Vent’anni fa Francia, Germania e Italia erano potenze economiche di primo piano. Ora sono spinte sempre più in basso nelle classifiche mondiali. Dobbiamo aggregarci per tornare ad essere potenza economica globale, capace di sostenere la concorrenza della Cina e degli Stati Uniti. Se non lo faremo, l’economia se ne andrà altrove. Oggi siamo i primi importatori al mondo ma ricordiamoci che queste importazioni sono tutte a scapito del lavoro nazionale».

Che soluzione propone per la zona Euro?
«Un’iniziativa franco-tedesca che dovrà essere lanciata dal prossimo presidente francese con l’accordo della Germania. Né la Francia né la Germania possono portare avanti un progetto europeo da sole: una è troppo debole, l’altra troppo forte. La mia idea di integrazione si chiama “Europa”, per distinguerla dall’Unione europea. È un accordo tra i sei Paesi del nucleo fondatore del 1957 (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) con l’aggiunta di Spagna, Portogallo e Austria. I membri di “Europa” unificheranno il loro sistema economico: i loro budget, le loro imposte e, alla fine, il loro debito. Conserveranno invece politiche identitarie nazionali in ambiti come la cultura, l’educazione, la salute e il diritto. Credo che i cittadini tedeschi siano d’accordo con la proposta, mentre i francesi dovranno attendere il risultato delle elezioni presidenziali. Ma sono ottimista: al di fuori del Fronte nazionale e dell’estrema sinistra gli altri candidati francesi hanno tutti un programma filo europeo».

Ne faranno parte anche i Paesi Bassi nonostante la loro riottosità verso l’Europa?
«Gli olandesi hanno una politica complicata. Bisogna lasciarli fare. Dicono di no e fanno di sì».

E gli altri paesi della zona Euro?
«Continueranno con la loro politica. Non serve che abbandonino l’Euro ma non faranno parte dell’integrazione. C’è solo un Paese importante, la Polonia, che potrebbe entrare in futuro ma che al momento ha cambiato politica e si è allontanato dall’Europa».

La Grecia?
«La Grecia ha un’importanza culturale vitale per l’Europa. Sto leggendo un libro sul personaggio di Ettore, scritto da un’accademica francese straordinaria, Jacqueline de Romilly (seconda donna ad entrare nell’Accademia francese e grande studiosa del mondo greco antico ndr), nel quale risulta chiaro quanto noi europei siamo ispirati dalla storia mediterranea di quell’epoca. L’anno scorso ho visitato Ravenna, capitale dell’impero romano e città meravigliosa. Non si può parlare d’Europa senza l’Italia e la Grecia. Ma quest’ultima ha dei problemi di debito enormi, complicati dalle piccole dimensioni della sua economia».

Con che tempistica si potrebbe costruire “Europa”?
«Si partirà con l’armonizzazione delle imposte sul reddito, sul lavoro e sul patrimonio. Ci vorranno dieci anni ma si potrà cominciare molto presto. Solo in seguito ci sarà la messa in comune del debito. L’euro di oggi non funziona perché i greci da una parte e gli italiani dall’altra sono minacciati dal debito. Con la mutualizzazione del debito questo problema non si porrà più. In una terza fase scatterà un meccanismo di solidarietà finanziaria per i paesi più deboli della zona Euro, chiamiamoli dell’“Europa Bis”, come la Grecia».

“Europa” avrà un suo Parlamento a Bruxelles?
«Il parlamento europeo eletto a suffragio universale l’abbiamo fatto noi, io e Helmut, nel 1976. Il primo presidente fu Simone Veil, una magistrata deportata ad Auschwitz e poi liberata nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio 1945. Un simbolo. Pensavamo che sarebbe stata un’assemblea consultiva per i lavori della Commissione europea. Sfortunatamente nel tempo il presidente del parlamento e la Commissione si sono lanciati in una conquista del potere mentre il parlamento, che pur non lavora male, è ignorato dall’opinione pubblica e non svolge il suo ruolo equilibratore nel sistema burocratico di Bruxelles. Occorre nella zona “Europa” un’assemblea molto più piccola, nota all’opinione pubblica, fatta per due terzi di parlamentari nazionali e per un terzo di parlamentari europei perché discutano insieme e siano in contatto costante con i cittadini. La sede di “Europa” non potrà essere Bruxelles perché ci sarebbe troppa confusione. L’Unione europea a 28 rimarrebbe a Bruxelles mentre i paesi dell’Euro e quelli di “Europa” dovrebbero trasferirsi a Strasburgo, sul confine franco-tedesco».

Ma siamo sicuri che Paesi come l’Italia e la Spagna vorranno sottostare a un progetto tedesco dopo avere sperimentato l’inflessibilità di Berlino?
«La Germania, che non può essere criticata troppo perché è la nazione che ha fatto la migliore politica economica da vent’anni a questa parte, vuole che l’unificazione del debito sia accompagnata da un certo numero di riforme. Ha ragione. Non si può avere un debito comune tra Paesi con disavanzi interni troppo diversi. Non devono essere identici ma molto vicini. Il mercato del lavoro, l’età pensionistica, il sistema di welfare a sostegno della disoccupazione e via dicendo, anch’essi devono essere simili perché sistemi economici troppo diversi finiscono per mettere un Paese contro l’altro, come sta succedendo adesso».

Questo progetto riuscirà a sconfiggere i leader populisti che propongono l’uscita dall’euro e una politica protezionistica come soluzione alla crisi economica che dura da sette anni?
«Oggi gli europei sono molto demoralizzati e delusi ma bisogna ricordare loro qualche cifra: il prodotto interno lordo dell’Europa è il più grande del mondo, con una quota del 23,8 per cento del totale, maggiore di quello degli Usa e della Cina. In termini commerciali l’Europa è ancora la prima zona economica del mondo sia per importazioni che per esportazioni. L’attuale pessimismo è sul funzionamento del sistema, non sui risultati del sistema. Per non essere sopraffatti dai cosiddetti politici “populisti” servono un programma e una visione di rilancio del progetto iniziale dell’Europa. Se sapremo offrire un’Europa solidale dal punto di vista economico, del lavoro e del debito, i cittadini saranno favorevoli. Una tale “Europa” non solo è fattibile ma non è nemmeno troppo difficile da ottenere. Ritengo che, se la consultassimo, l’opinione pubblica direbbe di sì. Ma al momento non le abbiamo ancora proposto nulla».

Intanto la Gran Bretagna ha già lasciato la nostra Unione...
«È dal 1991, dal Consiglio europeo di Maastricht, che la Gran Bretagna si è posta ai margini del sistema. Non ha mai accettato la moneta unica e ha voluto essere esonerata dalla maggior parte delle politiche europee. Dunque la sua uscita non fa una grande differenza per l’Europa. Però molti britannici hanno interessi individuali nel sistema attuale. E noi non dovremo accettare che la Gran Bretagna conservi gli stessi vantaggi che aveva all’interno dell’Unione anche standone al di fuori. E non dovremo fare una lunga negoziazione, al massimo i due anni stabiliti. Non ce n’è motivo. Semplicemente la Gran Bretagna non applicherà i regolamenti europei. L’eccezione verterà su pochi argomenti importanti per entrambi, come la politica economica agricola, su cui la Gran Bretagna può obbligarci ad una negoziazione. Su quelle istanze bisognerà trovare un accordo».

Altrimenti una Brexit dura...
«Esattamente. Se non si arriverà a una conclusione prima dei due anni ci dovremo fermare e basta. L’opinione pubblica sarebbe probabilmente contraria a un prolungamento delle negoziazioni. I due anni scadranno nel 2019, proprio a ridosso delle elezioni europee, per cui sarebbe auspicabile che il processo di uscita della Gran Bretagna terminasse prima delle elezioni».

Tra il 2001 e il 2003 lei ha presieduto la Convenzione europea (con vicepresidente l’ex primo ministro italiano Giuliano Amato e l’ex premier belga Jean Luc Dehaene) che avrebbe dovuto dare un assetto nuovo all’Europa ampliata e varare la Costituzione europea. Invece i francesi l’hanno bocciata dando vita alla prima grande crisi dell’Unione...
«Era una proposta di Costituzione che non solo limitava il numero dei commissari a 13 ma che cambiava anche le regole di voto per evitare che i piccoli stati potessero imporre la loro volontà: adozione delle misure con il 60 per cento dei voti dei Paesi rappresentanti e almeno il 45 per cento degli stati membri. In Francia il referendum è stato bocciato perché condizionato da ragioni di politica interna: ha avuto luogo nel 2005, con un’elezione presidenziale alle porte. Il presidente in carica (Jacques Chirac) avrebbe voluto ripresentarsi e per avere la possibilità di essere eletto (per la terza volta ndr) ha lanciato un referendum sulla Costituzione europea della cui applicazione si sarebbe fatto garante, senza riconoscere che i francesi, in un referendum, non votano sull’argomento ma contro il potere vigente».

La costruzione di un’altra Europa dovrà passare necessariamente per l’economia o potrebbe ripartire da un’Europa della difesa, dell’ambiente e della solidarietà?
«Bisogna cominciare dall’economia perché, se non esiste un’economia comune, non si può avere una difesa comune o dei sistemi educativi simili. Ma è chiaro che l’economia non è la sola finalità dell’Europa. Occorre aggiungere al più presto anche una difesa e una sicurezza in comune. All’opinione pubblica però non si può domandare troppo. I cittadini possono capire a due o tre cose alla volta. Credo che possano comprendere oggi che gli stati europei sono troppo piccoli per resistere alla concorrenza della Cina e degli Usa: basterebbe spiegare loro il perché e fare osservare come il tasso di disoccupazione interno sia più che raddoppiato in questi ultimi anni. Ma i migliori politici non lo vogliono capire. In questo momento la loro comunicazione non pone l’attenzione sui grandi pericoli. In ogni caso, credo che gli stati d’Europa dovrebbero avere anche due o tre progetti da sviluppare insieme. Quando ero presidente abbiamo lavorato nel settore spaziale, sviluppando, tra le altre cose, i razzi Ariane. Forse adesso dovremmo puntare sul settore medicale o su quello informatico».

La sua “Europa” è l’ultima chance per l’Europa?
«Non è detto. Certo è che l’Europa come è oggi, se non farà ciò che suggerisco, avrà dei problemi enormi. Serve in fretta una soluzione».

Si ricorda i giorni in cui Parigi ratificò il Trattato di Roma?
«Fu un bel dibattito parlamentare nel quale, per la prima volta nella mia vita politica, presi la parola. Alla fine ratificammo con tre quinti a favore e due quinti contrari, questi ultimi tutti comunisti e gollisti. Il governo era rappresentato da Maurice Faure, il co-firmatario del Trattato di Roma per la Francia e uomo di talento. Terminò il suo discorso con una citazione del “Maître di Santiago”, un’opera teatrale francese del 1947 del drammaturgo Henry de Montherlant, che fece una forte impressione sui tutti i parlamentari: “Sulla soglia dell’era nuova, accetterete voi di entrare?”».

Una domanda antica. Che, nel sessantesimo compleanno del progetto europeo, è ancora sorprendentemente attuale.

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