L’esodo di un milione e mezzo di siriani si è aggiunto a quello storico dei palestinesi. Il nord del Paese oggi è una infinita tendopoli per rifugiati che Beirut non può e non vuole integrare. Ma che non torneranno mai a casa (Foto di Alessio Romenzi)

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«Un conoscente è tornato in Siria, mi ha telefonato ieri. Ha detto: “Se hai da bere e da mangiare non pensarci proprio a tornare qui”».

Abu Dureid ha 43 anni, è seduto su un tappeto fuori dalla sua tenda nel campo profughi di Amna, regione di Akkar, nord del Libano, dove vive da cinque anni. Di fronte a lui il mare, alle spalle le montagne. Dietro c’è la Siria, casa sua. Ma per Abu Dureid la Siria e casa sua sono un ricordo da cacciare. Casa ora è una tenda che pian piano si è trasformata in una baracca, i tappeti hanno lasciato spazio a piastrelle trovate qua e là per diventare pavimento, al posto delle camere per dormire qualche materasso che divide con la moglie Umm Dureid e i quattro figli.
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Nella memoria del telefono le immagini del suo quartiere distrutto ad Homs, Abu Dureid ci vede poco, gli occhiali che indossa si tengono su con tre strati di scotch nero sulle aste. Ha un sorriso aperto e gentile su un viso scavato. Si vede che quel viso non è sempre stato così, che ha cambiato fisionomia, che le privazioni l’hanno modificato. Con un esercizio di immaginazione si trasforma nel volto sorridente e florido che è stato nella vita prima della pena. Il marchio della fatica di vivere è lì, a segnare un viso diventato improvvisamente rugoso. Di quella ruga inconfondibile che si chiama dolore. Sul viso porta la mappa di tutti i sacrifici: la fuga, l’esilio, l’umiliazione della vita nei campi profughi, la mancanza di lavoro, lo sfruttamento e la discriminazione. L’insofferenza del Paese ospitante che non ha i mezzi, i posti di lavoro, le infrastrutture - scuole, trasporti, ospedali - per fronteggiare un’emergenza che in quasi otto anni è diventata norma.

«A volte quando entro qui la scambio per una casa vera», dice Abu Dureid, mentre versa il the in piccoli bicchieri di vetro, «ma non è una casa vera. La nostra vita è sospesa, è una vita in attesa. Ma di che cosa? Io tornerei anche indietro, ma non c’è un posto dove tornare. E poi, chi sarei io tornando di là? Non sono più il giovane ceramista che è scappato portando con sé i suoi figli per salvarli dai barili bomba. Li ho salvati dalle bombe ma non dalla vergogna, li ho visti crescere in un campo profughi, sono cinque anni che li lavo in bagni che divido con altre centinaia di persone. Questa non è vita».
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Lo scorso 5 gennaio, alle cinque e mezza del mattino, i soldati libanesi hanno fatto irruzione nel campo di Amna, che è uno dei più estesi del nord del Libano - lo chiamano “il quattrocento tende” - e hanno arrestato trentadue persone. Sono entrati nelle baracche e nelle tende chiedendo documenti e permessi di soggiorno, ma la maggior parte dei rifugiati siriani non ha documenti in regola. Secondo l’Unhcr nel 2017 oltre il 72 per cento dei siriani in Libano non possedeva il permesso di residenza legale: costa troppo, serve un’occupazione e quindi una lettera di accompagnamento di un datore di lavoro, ma senza permesso di soggiorno è impossibile avere accesso ai servizi pubblici, ricevere un certificato di nascita, o semplicemente muoversi, attraversare un checkpoint senza il terrore di essere arrestati.

«Sono arrivati prima che sorgesse il sole», racconta Abu Dureid. «Le donne hanno cominciato a urlare, i soldati a loro volta gridavano che volevano i documenti, lanciavano le nostre poche cose sul pavimento, hanno preso giovani e anche anziani malati. Dicono che lo fanno per ragioni di sicurezza, la verità è che vogliono che andiamo via».
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Raid e arresti arbitrari come quello d’inizio febbraio sono sempre più diffusi negli insediamenti informali, è la strategia del logoramento. Le famiglie sono terrorizzate, la vita quotidiana è una scommessa: da quando hanno tagliato gli aiuti umanitari, chi prima aveva una piccola casa è tornato nei campi o si è spostato nei garage. Il trasporto per mandare i bambini a scuola ha un costo non sostenibile, a malapena si mettono insieme il pranzo e la cena. È il messaggio che arriva ovunque, in Europa come in Libano, in forme più o meno violente e più o meno subliminali, ai profughi: qui non vi vogliamo, e se non ve ne andate volontariamente vi mettiamo in condizione di farlo per forza.

Il Libano è grande come l’Abruzzo, ha una popolazione di quattro milioni e mezzo di persone e ospita un milione e mezzo di siriani che si aggiungono ai 250 mila palestinesi presenti nel Paese (questo fa del Libano il paese che ospita la più grande popolazione di rifugiati pro capite al mondo).

I bambini siriani sono 550 mila, ma i numeri precisi sono fermi all’inizio del 2015, data in cui il governo di Beirut ha imposto all’Unhcr di smettere di registrare gli arrivi. Il Libano non ha firmato la convenzione di Ginevra, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi strutturati, e per questo il problema dell’accoglienza è stato - anche - un problema di parole: come li chiamiamo? Profughi? Visitatori?
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Semplicemente: sfollati. Più provvisorio. Torneranno a casa loro, pensavano tutti all’inizio della guerra. Non sarà un’altra Shatila, non li terremo qui per sempre come i palestinesi.

Assimilare un milione e mezzo di siriani nella società libanese non è pensabile, il sistema di divisione del potere nel Paese si fonda su una ripartizione delle cariche governative su base religiosa (sunniti, sciiti, drusi, maroniti e altre 14 confessioni) le cui proporzioni derivano da un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani erano la maggioranza. Se tutti i musulmani, profughi nel Paese, venissero censiti, i già precari equilibri religiosi e di conseguenza politici rischierebbero di frantumarsi. Assimilarli non è pensabile anche perché il Libano deve fare i conti con una situazione economica che va peggiorando, il 30 per cento dei cittadini vive in condizioni di estrema povertà, in un Paese che stenta a garantire elettricità 24 ore al giorno.

La pressione per rimandare i rifugiati in Siria è sempre più forte, sempre più frequenti i casi di incendi dolosi negli insediamenti informali, tende date alle fiamme, così come piccole scuole di legno dove i bambini esclusi dal sistema scolastico trascorrono i pomeriggi.

Alla fine di gennaio il ministro degli Esteri libanese Gebran Bassil, durante un summit con altri Stati arabi tenuto a Beirut, ha invitato la comunità internazionale a prendere provvedimenti per incoraggiare i siriani a tornare a casa: «Chiediamo alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità», ha detto, aggiungendo che «il coordinamento del Libano con Damasco è inevitabile e fondamentale, per ottenere il maggior interesse del Paese e porre fine alla crisi dei rifugiati e prendere parte alla ricostruzione della Siria».
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Ricostruzione di cosa, dicono tutti quando nomini la possibilità di tornare indietro. Se chiedi a un siriano com’era casa sua, dall’altra parte delle montagne, raccogli ogni volta la medesima reazione. Un automatismo del dolore. Un sospiro di esitazione, qualche secondo di silenzio, un sorriso accennato che illumina il viso di chi parla: casa, casa mia era bellissima - dicono tutti. E poi il gesto inconfondibile della perdita: il palmo della mano destra che sfrega la mano sinistra: è andato, tutto perduto.

E ancora le braccia che mimano un crollo. Bomba, tutto distrutto. Reagiscono tutti allo stesso modo.

Per i pochi che hanno ancora un pezzo di terra, un mattone da rivendicare lo spettro è la Legge 10, approvata dal governo di Damasco lo scorso anno, che prevede che una volta individuata una “zona di sviluppo” le autorità debbano notificarlo ai proprietari della terra che hanno trenta giorni - un mese - per raccogliere i documenti e reclamarla. Secondo il Consiglio Norvegese dei Rifugiati meno di un siriano su cinque è in possesso dei documenti di proprietà, distrutti anche loro. Significa che chi ha ancora qualcosa è destinato a perderlo per sempre, che quella terra finirà in mano di Assad e dei suoi alleati, in una ridefinizione urbana ma soprattutto etnica del Paese. Intere aree che erano un tempo a maggioranza sunnita si stanno ripopolando di sciiti, così come porzioni immobiliari situate nei pressi di siti religiosi sciiti come Sayydah Zaynab e Ruqayaah a Damasco sono ormai nelle mani di proprietari iraniani, così Teheran sta ripopolando alcune aree con famiglie sciite di Hezbollah per consolidare la sua influenza in Siria.
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«A Qusayr, casa mia, non possiamo tornare, il regime ci arresterebbe tutti. E poi non resta niente, Hezbollah ha preso tutte le nostre terre. Costringono la gente a vendere quello che gli resta, se gli resta qualcosa. Ormai è tutto finito, inutile fare resistenza». Abu Khaled è scappato da Qusayr, ha 53 anni e vive in un campo informale nell’Akkar con i nipoti e le figlie. Quando dice «inutile fare resistenza» esprime una stanchezza comune a molti, si vede nell’abbandono delle tende, un tempo curate, per mantenere l’illusione di una vita decente, e oggi abbandonate, circondate di immondizia.

Un figlio è morto ucciso dalle bombe di Assad, di casa sua non resta niente. Sulla parete bianca di quella che oggi è casa - una stanza fredda di mattoni di cemento - ha appeso la foto di suo figlio, di Khaled, circondata da fiori finti, rossi. Il suo quotidiano altare della memoria.

«A me non resta che il ricordo, so che non potrò morire a casa mia. Ma quando parlo con i miei nipoti, quando li metto a dormire, gli racconto di casa nostra, del grande salone dove mangiavamo anche in venti. La casa per noi è il luogo della comunità, non è solo un posto in cui dormire, è il passato che dura nel tempo. Oggi casa è solo un racconto. Per questo parlo ai bambini della Siria, insegno loro che questo è un passaggio, che lì è il luogo del ritorno. Che quella dovrà essere un giorno la casa cui tornare. Oggi qui non siamo niente, io sono nessuno».
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Ed è proprio così, perché il campo profughi è il posto dell’anonimato, tutti sono qui ma nessuno abita questo posto. La perfetta espressione del non-luogo, per dirla con Marc Augé, dove non si stabiliscono luoghi di relazioni, legami, tutto quello che contribuisce a creare identità. Il campo profughi è simbolo del provvisorio che diventa definitivo. Simbolo di un esilio che non ha fine. E in esilio per salvarti devi dimenticare chi sei stato, cosa hai avuto, come hai vissuto prima della fuga e cercare di resistere alla sporcizia, alla mancanza di igiene, all’abbrutimento costante, quotidiano.

Habitat for Humanity è un’organizzazione umanitaria internazionale, i suoi operatori e ingegneri cercano di umanizzare tende e garage, di rendere gli alloggi più familiari, portare acqua corrente, cercare di creare in ogni casa un bagno e una cucina, quello che possa restituire dignità a vite abbandonate, in un Paese che li respinge, ma anche un Paese che affitta ai siriani tuguri, squallide baracche, garage senza finestre, capannoni di lamiera a 200, 250 dollari al mese. Più le spese.

Najah ha 52 anni, vive con i genitori e la sorella in una stanza con bagno, in una cittadina nella valle della Bekaa, sud del Libano.
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«A Daraa avevamo una casa enorme, un grande salone e il giardino. Sapessi come mi manca il giardino. La casa è una madre. È la tua memoria, è quello che ti protegge dalla morte», dice mentre sua madre si prende cura dell’anziano padre, malato, che fatica a respirare, non può andare in bagno e Najah lavora per comprare i pannolini, l’anziano padre che non può curarsi il diabete. Non ci sono soldi. E non esce da quella stanza da più di tre anni.

«Prima ci garantivano degli aiuti per pagare l’affitto, 260 mila lire libanesi (circa 150 euro) e un supporto per le cure mediche, oggi dicono che i soldi stanno finendo. Dicono che anche la guerra è finita. Ma perché, questa non è guerra?».

Il debito medio delle famiglie siriane è aumentato da 800 dollari nel 2016 a più di mille dollari nel 2018. Secondo le Nazioni Unite alla fine del 2017 il 76 per cento dei rifugiati in Libano viveva al di sotto della soglia di povertà, l’88 per cento non aveva un accesso adeguato al cibo e solo il 12 per cento dei ragazzi tra i 17 e i 19 anni aveva finito la scuola elementare.
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A dieci minuti da Chtoura vive una comunità di 50 persone, arrivano tutti dalle campagne di Aleppo, famiglie di contadini. Tra loro 27 bambini, nessuno va a scuola, il trasporto per raggiungerla costa troppo. Vivono nel fango, in capanne fredde, se piove si allaga tutto. Gli ingegneri di Habitat for Humanity hanno portato acqua corrente, e allestito le cucine. Manca tutto. Non c’è legna, per scaldarsi le donne bruciano plastica e scarpe vecchie. I bambini lavorano nei campi. Per ogni capanna pagano 130 dollari al mese. Che per sette capanne fa 900 dollari. Più le spese. «Quando piove e nevica ci mettiamo tutti stretti in una stanza, proviamo a scaldarci e non pensare», dice Zamzam, 30 anni, 6 figli, tre dei quali nati qui, in esilio. «Non abbiamo niente, nemmeno le scarpe per i bambini. Se riusciamo a comprare i pannolini e gli assorbenti dobbiamo lavarli, costano troppo. La guerra ti uccide, è vero, ma ti uccide in fretta; anche la vergogna ti uccide, ma più lentamente».

Zamzam sorride sempre. Le manca l’odore di casa, dice. Ma non ci pensa mai. Dice che la compassione è la cosa che la fa sopravvivere. Sapere che nella miseria condivide il suo dolore con altri. «Non penso mai a come sarà, non penso mai a come è stato. Penso soltanto a come avere ogni giorno qualcosa da mangiare», dicono tutti, nel loro eterno presente di profughi. Dove casa loro è una tenda fredda, e la casa che è stata semplicemente non c’è più.

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