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Mondo
maggio, 2019

Cuba è passata dalla Revolución allo smartphone

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Viveri e farmaci scarseggiano, ma gli abitanti dell’isola si danno da fare con i bed&breakfast, con i gadget e con le discoteche gestite dai nipoti del regime. E anche se il potere è in mano a Raúl Castro, il modello di vita capitalista ora domina

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Si butta giù dal letto appena vede filtrare dalle persiane il primo raggio di luce. Il mercato sotto casa apre all’alba. Manuel sa bene che altri pensionati come lui sono già in fila. Da qualche settimana i generi alimentari scarseggiano all’Avana. Quelli che arrivano sui banconi sono spesso i residui lasciati dai ristoratori che distribuiscono mazzette sotto banco per non lasciare vuote le dispense. Un giorno ci sono le uova, ma magari manca il riso. Quello dopo compare la farina ma latitano i legumi. La carne non c’è quasi mai. Nella coda hanno inventato scherzosamente il totocibo: cosa si potrà mettere in pentola oggi?

Anche dei farmaci più diffusi si stanno perdendo le tracce. Chi ha parenti in Florida se li fa arrivare con uno dei tanti voli che collegano quotidianamente Miami con L’Avana. Della penuria ne risentono pure i giornali: per ovviare alla scarsità di carta “Granma” (organo del partito comunista ) ha drasticamente ridotto il numero delle pagine.

Cuba rivede gli spettri della carestia in cui era sprofondata negli anni Novanta, dopo lo scioglimento dell’Urss. Senza il sostegno di Mosca il Pil crollò del 34 per cento, le esportazioni calarono dell’80 per cento. Il quadro oggi non è così drammatico. Durante le ore più buie del “periodo especial”, l’eufemistica etichetta che fu appiccicata al buco nero della “revolución”, non c’era quasi nulla da mettere sotto i denti. Al mercato Manuel, un ex professore universitario, con lo sguardo preoccupato, ricorda al figlio: «L’anno in cui stavi per nascere ero così dimagrito che dovetti aggiungere tre buchi alla cintura dei pantaloni».

Adesso i rifornimenti arrivano a corrente alternata. Scatenando perfino risse fra i consumatori in nervosa attesa. Si discute di un parapiglia esploso il giorno prima, in un altro quartiere, per l’aggiudicazione di un pollo. Un anziano militante chiede attenzione e legge ad alta voce su una copia sgualcita del “Granma” i passaggi con cui Raúl Castro (a quasi 88 anni ancora l’uomo forte del regime) non ha nascosto la possibilità di una nuova stagione di stenti: «È necessario essere attenti e consapevoli delle difficoltà a cui andiamo incontro e del pericolo che la situazione potrebbe aggravarsi nei prossimi mesi», ha ammonito l’ex líder maximo, con l’eloquio sereno di chi non deve preoccuparsi per la raccolta del consenso. «Non c’è il rischio di un ritorno alla fase acuta del “periodo especial”. Il panorama oggi è differente grazie alla diversificazione della nostra economia. Però dobbiamo sempre farci trovare preparati di fronte all’insorgere di qualche emergenza».
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L’attuale recessione, che paradossalmente contrasta con il volto trendy della capitale (nella città vecchia sono stati restaurati circa 900 palazzi), è dovuta all’ostilità crescente di Donald Trump. Che ha inasprito l’embargo, creando problemi pure agli squadroni Usa di baseball costretti a rompere l’accordo per l’ingaggio di una cinquantina di assi cresciuti nei vivai cubani. E adesso alza la voce reclamando che vengano restituiti ai vecchi proprietari fuggiti perlopiù a Miami gli edifici confiscati durante la revolución.

La seconda causa è l’abisso in cui è precipitato il Venezuela che riesce a assicurare solo in parte le forniture di petrolio in cambio di assistenza medica. Il governo dell’Avana è costretto a sborsare un miliardo di dollari l’anno (prevalentemente all’ente petrolifero messicano) per coprire il fabbisogno energetico. E, da quando si è insediato Jair Bolsonaro, non riceve più aiuti nemmeno dal Brasile. Così l’economia si è ridotta a mungere prevalentemente i filoni del turismo (quasi cinque milioni di visitatori l’anno) e delle rimesse dall’estero (tre-quattro miliardi di dollari l’anno di cui beneficiano circa un terzo degli undici milioni di cubani). Con tagli anche nei bilanci della scuola e della sanità, cavalli di battaglia del socialismo.

La nuova Costituzione, plebiscitata nel referendum dall’86 per cento degli elettori, si prefigge di quadrare il cerchio favorendo lo sviluppo del mercato e gli investimenti esteri senza rinunciare alle bussole ideologiche (saranno fissati tetti per l’arricchimento). Una grande operazione di cosmesi in cui scompaiono le parole comunismo (biodegradato in socialismo) e ateismo (scolorito dopo la visita di tre Papi in laicismo di Stato).

Per svecchiare i vertici ancora in parte controllati dagli ultraottuagenari eroi della Sierra si pone il limite massimo di 60 anni di età, con due soli mandati, ai candidati alla nuova carica di presidente della Repubblica che non sarà eletto dal popolo ma designato dal partito. Infine, per mostrare liberalità nel campo dei diritti civili, si rendono più elastiche le barriere erette dagli evangelisti e dai conservatori aprendo uno spiraglio per le nozze fra omosessuali difese da Mariela Castro, la battagliera figlia di Raúl. Il matrimonio non è più l’unione fra un uomo e una donna ma genericamente fra due persone. L’interpretazione autentica è rimandata a una futuribile riforma del codice di famiglia.

«In pratica rimane l’impronta marxista-fidelista», liquida la svolta José, studente di legge che sul web aveva sostenuto la campagna per il no alla Costituzione. «Il potere è consapevole di non reggere il passo della modernità ma conserva radici robuste nelle fasce meno evolute e nelle campagne. Secondo un sondaggio americano, pervenutoci via web, la maggioranza dei cubani ha ancora paura di esprimere liberamente la propria opinione pur avendo perso ogni illusione sull’efficacia di un sistema imbalsamato».

Il nodo cruciale è il miserevole livello dei salari condizionato dalla doppia valuta. I lavoratori cubani continuano ad essere pagati in pesos nazionali con cui possono andare al cinema, prendere l’autobus e comprare prodotti scadenti per integrare le insufficienti razioni alimentari mensilmente elargite dallo Stato attraverso la libreta . Ma per accedere alle merci di qualità servono i Cuc, la moneta equiparata al dollaro che è obbligatoria per gli stranieri. Il problema è che un Cuc vale circa 25 pesos nazionali. E che, con un cambio così penalizzante, gli stipendi medi si aggirano intorno all’equivalente di 25-30 euro. Fior di economisti dibattono da anni sull’opportunità di passaggio a un unico sistema e di un aumento degli stipendi fino ad almeno duecento dollari mensili. Una riforma che appare chimerica in una congiuntura così sfavorevole.

Miguel Diaz Canel, il presidente del Consiglio di Stato che nel marzo 2018 ha ereditato almeno formalmente da Raúl i bastoni del comando, si sforza di seminare ottimismo sfoggiando il sorriso che quand’era più giovane (oggi ha 59 anni) lo faceva vagamente assomigliare a Richard Gere. Compare quasi ogni giorno in televisione in maniche di camicia, viaggiando per tutto il paese e affrontando i problemi con le organizzazioni sindacali. Conclude immancabilmente le missioni con un rassicurante “risolveremo”. Sprizza la stessa energia di quando con piglio riformatore scalò i vertici del partito nella provincia natale di Villa Clara. Giovò alla sua immagine anche la passione per i Beatles, le motociclette e le nuove frontiere dell’informatica con cui usciva dal polveroso cliché del burocrate di partito.

Entrando nelle grazie di Raúl, che apprezzò da subito la sua affidabilità, ha raccolto il retaggio dei Castro senza aver mai partecipato all’epopea della revolución. Ma non si è più ritagliato margini di autonomia. Continua a pendere dalle labbra di Raúl che cumula le due vere cariche di potere: segretario (fino al 2021) del partito unico e comandante delle Forze Armate che controllano i due terzi dell’economia.

È stato Raúl a pronunciare il solenne discorso per il varo della nuova Costituzione senza mai cedere la parola a Canel. Qualche giorno dopo Raúl, intervenendo con Canel a una cerimonia speciale per la “quinze” (il rito del compimento dei quindici anni che segnano per le ragazze il passaggio dall’adolescenza alla gioventù), è stato immortalato dalle telecamere del Tg nazionale in un simpatico siparietto.

A una delle festeggiate, che lo stava ringraziando per la presenza, ha mormorato in tono paterno: «Dammi un bacetto». Incassata l’effusione sulla guancia, si è ricordato della presenza al suo fianco di Canel: «Adesso però, mi raccomando, dà un bacino anche al presidente». Il popolo, fin dall’insediamento, ha ironizzato sui poteri limitati di Canel chiamandolo “el lindo” o il “líder minimo” e mai “el jefe”. «Da qualche mese», racconta Jorge, un giovane musicista, «è considerato come un televisore senza telecomando. Che rimane nelle mani di Raúl».

Per sfuggire ai tentacoli della miseria nuovamente in agguato i cubani affinano la collaudata arte di arrangiarsi. I giovani, in particolare le ragazze, si affrettano a chiedere il passaporto per veloci incursioni d’affari a Cancun e a Panama. Comprano in quei porti franchi prodotti tecnologici a prezzi stracciati e li trasportano a Cuba sfruttando una concessione del governo. Che assegna a ogni cittadino una quota punti per l’importazione di merci, riscuotendo irrisorie imposte in pesos nazionali per ogni chilo di materiale in arrivo dall’estero. «Mi carico televisori al plasma, condizionatori, computer, ma anche capi di abbigliamento», racconta Laritza, una delle migliaia di “mulas” che fanno ogni mese la spola. «Poi li reclamizzo su Facebook e li rivendo a prezzo triplicato. La clientela è in costante crescita. Nei negozi specializzati quei prodotti costerebbero cinque volte di più».

All’Avana è tutto un pullulare di case in affitto su cui ha allungato velocemente l’occhio il marchio storico dell’Airbnb. «Le tasse sono alte», spiega Ramon, un ingegnere proprietario di un appartamento in un grattacielo davanti al Malecón (il lungomare). «Ma alla fine del mese riesco comunque a mettere insieme quei 500-600 dollari che mi consentono di evitare la povertà. Questo palazzo è diventato praticamente un albergo. Oltre la metà dei condomini si sono riciclati come affittacamere». Le tariffe sono basse: 40 Cuc (35 euro) a notte. E mettono in crisi i grandi alberghi che dopo il boom dell’afflusso americano avevano alzato i prezzi a dismisura. Le annesse boutique del lusso attirano ormai più sogni che clienti.

Con l’arrivo alla Casa Bianca di Trump, Cuba calamita molti meno yankee. Perlopiù appassionati del vintage americano, noleggiano gli almendrones (i vecchi macchinoni Usa di prima della rivoluzione, rimessi a nuovo) per tramortirsi di selfie nei santuari delle bevute battuti da Ernest Hemingway o negli alberghi-casinò frequentati dai boss mafiosi ai tempi di Fulgencio Batista. Ma la ricorrenza dei 500 anni dell’Avana (il prossimo novembre) continua a incentivare uno sviluppo edilizio che prevede la costruzione di una trentina di nuovi alberghi, fra cui una torre di 42 piani nel parco della famosa gelateria Coppelia che svetterà come l’edificio più alto del paese.

Sulle mammelle del turismo si sono fiondati i cuentapropistas (i circa 600 mila lavoratori autonomi). Nascono bar e ristoranti per ogni tasca e ogni palato. Spuntano negozi di tatuaggi, vetrerie, noleggi di bici. Calle Obispo, il salotto dell’Avana, è un bazar che inghiotte turisti anche con le sirene di insegne abborracciate (il ristorante “Via Venetto” non si cura troppo della purezza linguistica) o delle suggestioni della memoria (una barberia storica che risalirebbe al 1500). Deserte solo le librerie. In quella più classica una locandina indica i best seller della settimana: “Stati Uniti contro la nostra America”, che tocca un nervo scoperto della coscienza nazionale, e “Il telefono mobile”, nuovo totem del desiderio. Una lunga coda si snoda davanti alla sede della compagnia telefonica di Stato dove vengono venduti i pacchetti mensili per i collegamenti Internet. Con tariffe varianti dai 12 ai 50 Cc, teoricamente quasi inaccessibili per la maggioranza dei cubani.

La proliferazione dei punti di accesso al wi-fi sta plasmando un nuovo tipo di società, affacciata sulle realtà globali, più sensibile ai social network che ai miti rivoluzionari. «Il partito ha ancora la forza di portare un milione di persone in piazza per le celebrazioni del Primo Maggio», osserva Ramon, artista di avanguardia. «Ma è un rito che fa parte della tradizione. È l’intreccio di relazioni sviluppate nel tam tam dei cellulari che cambia rapidamente la mentalità. L’altro giorno 3 mila studenti si sono riuniti tramite Facebook davanti al Campidoglio senza chiedere permesso. Le stesse autorità si mostrano meno intransigenti verso i cortei di protesta. Il mese scorso hanno autorizzato per la prima volta una marcia di animalisti».

I giovani sono più intrigati dai feticci del consumismo occidentale (case confortevoli, gadget tecnologici, abiti eleganti) che dalla politica. Sordi anche alle campane dei vecchi dissidenti. Pure nello sport vengono sconvolte le gerarchie. Con il mondo a portata di display, Messi e Cristiano Ronaldo scalzano nella scala della popolarità i fuoriclasse del baseball.

Si indirizzano verso i format del primo mondo anche i costumi. I rampolli della borghesia rossa erano soliti radunarsi al Fantaxy, sofisticata discoteca gestita da un nipote di Fidel. Ma circolava troppa droga e le autorità non hanno esitato a chiuderla. Artisti e creativi nel week end si ritrovano alla Fabrica de Arte, un rudere della paleontologia industriale riadattato a centrale del divertimento colto.

Musica, balli, ma anche rassegne di cinema, festival teatrali, mostre d’arte e accanite discussioni davanti a un mojito sulle distopie di scrittori come Ahmel Echevarria e Jorge Enrique Lage che negli indici di gradimento stanno offuscando il realismo sporco di Pedro Gutierrez, il Bukowski cubano. Gli amanti delle sperimentazioni musicali e delle notti bollenti si arrampicano invece fino al Bar Roma, un nido ricavato dal dj Alain Dark all’ultimo piano di un edificio fatiscente nella città vecchia.

Il cubano con pochi mezzi trascorre le serate di fine settimana, come sempre, sul muretto del Malecón. Con gli amici, una bottiglia di rum, una chitarra che passa di mano in mano. E, adesso, con il cellulare nell’altra mano. Su qualche muro scritte sbiadite ricordano che 60 anni fa vinse la revolución. Oggi vince lo smartphone.

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