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luglio, 2019

Chi è Ruth Bader Ginzburg, la giudice che impone all’America i diritti delle donne

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Prima da avvocato, poi dalla Corte suprema, è diventata un potente simbolo contro le ingiustizie di una società maschilista. E a 80 anni è per tutti “RGB”, come il titolo del film sulla sua vita

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Mai, nemmeno davanti alle reazioni più apertamente maschiliste dei giudici, al loro sarcasmo nelle cause sui diritti violati delle donne, al loro arrivare a negare l’esistenza delle discriminazioni di genere e la profonda arretratezza giuridica della società americana di allora - i suoi inizi in ambito legale coincidono con i primi anni ’70 - : mai gridare, mai lasciarsi sopraffare dalla rabbia. Questo è stato, ed è ancora, il mantra interiore di Ruth Bader Ginzburg, prima avvocata e poi, dal 1993, giudice della Corte Suprema, negli epici sessant’anni del suo tracciato professionale.

Non era certo autorepressione di una reazione, peraltro maledettamente legittima, la sua, no. Si trattava di una strategia sapienziale. Era cosciente che sarebbe stato autolesionista e strumentalizzabile perdere il controllo, che solo esercitando una forza non violenta, profondamente consapevole del proprio pensiero come della legge, del vissuto delle donne come della storia del Paese, solo con arringhe cesellate parola per parola, e attraverso un implacabile avvicinamento alla mente e all’emotività dei giudici, sarebbe stato possibile incidere colpo su colpo sulla barriera di pietra eretta da secoli di asfissiante patriarcato.
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Così è avvenuto. Negli anni, prima vincendo cause su cause, poi assumendo un ruolo unico e autorevole all’interno della Corte, Ruth Bader Ginzburg ha cambiato letteralmente il mondo per le donne statunitensi, intraprendendo una gigantesca opera di disinnesco delle mine che il sessismo imperante aveva disseminato nella società anche con il pervasivo contributo di leggi federali e statali, pur in contrasto con l’impianto egualitario della Costituzione.
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«È una strega, una vipera, un mostro, una disgrazia assoluta per la Corte Suprema, è antiamericana, uno zombie…». Questa una collana degli epiteti usati dai suoi detrattori. Di fatto, oggi, dopo un’intera esistenza a lottare per la piena espressione dei diritti delle donne, e dopo aver superato gli ottant’anni, i suoi interventi pubblici - in tv, nei teatri, nelle università - sono gremiti di persone che l’ammirano come voce imprescindibile nel Paese, mentre in rete, in barba alla pressoché totale invisibilità mediatica delle donne anziane, danzano invenzioni grafiche che la contemplano come una supereroina.

Ma è possibile conoscere in modo più approfondito - dall’interno e fuori dagli Usa - la storia di Ruth Bader Ginzburg, respirare la sua presenza umana, guardare nei suoi occhi, indagare le radici di questa sua forza altra rispetto all’inclinazione patriarcale americana alla guerra, forza come di pianta capace di fondere il magnetismo della terra e la levità del cielo, trasformando spietatamente il reale?

Volendo intraprendere una tale ricerca, una magnifica guida può essere rappresentata da “RBG”, di Betsy West e Julie Cohen, documentario tra i candidati all’edizione scorsa degli Oscar, uscito nella sale italiane il 15 luglio. Così eccola. Com’è adesso, mentre conversa “con noi”, seduta di tre quarti su una poltrona istituzionale, i capelli scuri legati sulla nuca, gli inconfondibili occhiali, il corpo appena incurvato e fattosi ancora più sottile, la dolce fermezza della voce, l’eleganza.

«Non chiedo favori per il mio sesso, tutto quello che chiedo ai nostri fratelli è che smettano di calpestarci», dice, citando la sua amata Sarah Grimké, abolizionista e attivista per le donne nell’Ottocento. Poi la vediamo in una foto da bambina - nasce a Brooklyn nel 1933 - o in una da liceale, radiosa con l’acconciatura a onde anni ’50, o con la fierezza della prima toga, ma sempre, in tutte le immagini di lei attraverso gli anni, quello che non muta è lo sguardo: grandi occhi blu, smart and charming, occhi capaci di bucare il tempo e l’obiettivo, di contemplare le cose in lontananza.

«I miei genitori non avevano i mezzi per andare al college ma mi hanno insegnato ad amare il sapere», sono sue parole pronunciate nel ’93 al Confirmation Hearing alla Corte Suprema (Audizione di Conferma come giudice associato, ndr).
Tailleur bluette di moda allora, immancabili orecchini, dalla pienezza dei suoi sessant’anni, abbracciando il suo percorso fino a quel momento, Ruth Bader Ginzburg si racconta in prima persona in un discorso che, con gli interventi di amici, colleghi e avversari, dei due figli e della nipote, diventa la partitura testuale del film.

Una famiglia di immigrati ebrei, la sua: il padre, originario di Odessa, aveva conosciuto l’esclusione dalle scuole russe; la madre, cui la unisce un legame fortissimo, la lascia dopo anni di sofferenze dovute al cancro: lei ha 17 anni, è il giorno del suo diploma. Se nella fiaba di Vassilissa (da “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estés), la ragazza, prima di restare orfana, riceve il dono materno di una bambola che l’aiuterà a sentire se stessa, quella di Ruth le trasmette due lasciti cruciali: «be a lady» (non farti agire da emozioni distruttive), e «be independent».

Ecco la prima delle radici irriducibili della sua energia. Altra colonna portante del suo mondo: il marito, Martin Ginzburg, conosciuto l’anno in cui perde la madre. Lui ne ammira subito l’intelligenza. Lui - cui Ruth tributerà pubblico riconoscimento - non si sentirà mai minacciato da lei, anzi farà di tutto per sostenerla, anteponendo gli obiettivi della moglie; a differenza di tanti uomini dell’epoca, diciottenne, è già convinto che il lavoro femminile, in casa o fuori, sia importante quanto quello maschile.

Si ameranno per cinquantasei anni, superando una prima malattia di lui, che muore nel 2010, lasciandole una struggente lettera, e unendo, con irresistibili duetti, lo humor dirompente dell’uno alla serietà riservata, ma più che sensibile all’ironia, dell’altra. «In casa nostra i lavori sono equamente distribuiti: papà si occupa di cucinare, la mamma di pensare», dirà di loro la figlia Jane. Di contro la società americana di quegli anni è tutt’altro che friendly verso le donne. E Ruth scopre sulla pelle viva, prima all’università (a Harvard, dove arriva madre di una bambina di un anno, nella sua classe sono 9 ragazze su 500 maschi) e poi, dopo la laurea alla Columbia nel ’59, da giovane avvocata che gli studi newyorkesi si rifiutano di assumere in quanto donna.

L’aver conosciuto di persona il sapore amaro della discriminazione, unitamente al clima autoritario di quegli anni ossessionati dalla “paura rossa” e dai processi che prosciugano la linfa liberale della Costituzione, per non dire di un contesto fatto di migliaia di leggi federali sessiste (il marito è il master della comunità, è possibile licenziare una donna perché incinta, lo stupro domestico non è reato), diventano tutte micce che accendono «la sua ardente passione per la legge».

Scorre così il fiume dei materiali d’archivio, foto, video e gli audio originali delle cause: amplissimi, oltre a quello privato di lei. Donne al lavoro, in casa e non, segretarie, contadine, operaie: non c’è aspetto della vita americana in cui non siano discriminate. In quegli anni, da quella consapevolezza, emerge prepotente la rivolta dei movimenti femministi. Anche Ruth è attanagliata dallo stesso desiderio di incidere sullo stato atrocemente ingiusto delle cose, ma non è la strada dell’attivismo, quella che sceglie.

Dopo aver tenuto un corso universitario su “genere e legge”, ricerca, da avvocata, i dibattimenti che giungono alla Corte Suprema. Dal ’73 con la causa Frontiero v. Richardson, che vede una sottotenente dell’aeronautica essere discriminata dai colleghi maschi per ragioni di indennità, inaugura un domino vincente di confronti e inchioda l’attenzione dei giudici con la forza di argomentazioni omnicomprensive, che toccano la storia delle donne e gli abusi da loro subiti in America fin dalle origini. Chiede che la discriminazione sessuale sia equiparata a quella razziale, racconta come sia essere una cittadina di serie B. Per mostrare che la discriminazione di genere colpisce tutti e tutte, difende poi un vedovo cui, in quanto uomo, era stato negato il sussidio sociale paterno. Brani dall’opera lirica, intanto, da sempre una sua formidabile passione, fanno roteare le statue dei padri fondatori. Un ritmo trascinante scardina i punti di vista sugli abbaglianti edifici neoclassici della legge.

Il numero ideale di donne alla Corte Suprema? Nove, risponde in un recente incontro con studentesse di legge, che vedono in lei un’icona di donna autorevole ed efficace, qualcosa di cui il mondo ha un incredibile bisogno: pensiamo, tra le italiane, all’esempio di Tina Anselmi, di Liliana Segre o anche di Ilaria Cucchi, solo per citare alcune figure, da ambiti molto diversi. Eppure, fino alla riforma della magistratura federale di Carter, che nell’81 apre alle donne e agli afroamericani, nove era il numero di uomini previsti per il più alto grado di giudizio negli Usa. Nominata, seconda donna nella Storia, alla Corte Suprema da Clinton (che prende la sua decisione dopo aver conversato con lei per soli quindici minuti), Bader Ginzburg si pronuncia pubblicamente in favore dell’aborto.

Con il confronto Bush-Gore rispetto ai dubbi risultati delle elezioni del 2000, comincia l’era del suo dissenso, segnato da uno specifico colletto gioiello, l’accessorio femminile che, insieme alla collega Sandra Day O’Connor, ha fatto unire alla toga rituale. Se, con gli anni di Bush, si modificano gli equilibri politici all’interno della Corte, il suo coraggio le permette di caricarsi spesso il peso dell’opinione dissenziente, ora in materia di parità salariale di genere, ora contro l’abolizione della legge sulla discriminazione razziale di voto. Rimasta unica Demetra in un pantheon di divinità maschili, fa dunque risuonare il suo parere contrario per tutto il Paese, modificando concretamente le leggi, mentre in rete si moltiplicano gadget con la sua effigie. Allora lei, icona “sensata”, si diverte a guardare la sua imitazione televisiva e si autocompiace del suo “nome rap”: per tutti è ora universalmente nota come “Notorious RBG”, “la famigerata” (dall’omonimo libro di Irin Carmon e Shana Knizhnik).

Oggi, dopo aver messo in guardia rispetto alla possibile elezione di Trump (ed essersi scusata, solo perché era inappropriato definirlo pubblicamente “faker”, impostore…), mentre tutti si chiedono quando lascerà e impazziscono nel vederla in palestra a fare flessioni - ha cominciato nel ’99 dopo il primo dei due tumori che ha affrontato -, lei continua a stare fino a notte fonda alla scrivania, a incontrare giovanissimi, a interpretare piccoli ruoli parlati e in costume nelle opere liriche, a stupire con battute da enfant terrible, facendo venir giù il teatro. Minuta e fortissima, guardando verso le registe, con cui ha intessuto un magnifico «rapporto confidenziale», e verso di noi, RBG, ancora per niente stanca, ci lascia dicendo: «Riflettendo sulla mia lunga vita, questi potrebbero essere tempi duri, ma pensate com’era». Il congedo è solo nel film.

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