Trincea, fucili e baionette: in Nagorno Karabakh la guerra è come cento anni fa
In cielo volano droni e cacciabombardieri, ma a terra si combatte tra bunker e metri conquistati o persi ogni giorno dalle truppe di Armenia e Azerbaigian. E un’infinità di rovine, vedove, rifugiati che sopravvivono nei seminterrati
Certo, in cielo ci sono i droni e i cacciabombardieri. Ma, qui, a terra, solo mitra, vecchi fucili, baionette e soprattutto trincee. La mattanza del Nagorno Karabakh mescola armi tecnologiche a scenari da Prima guerra mondiale.
Attraversando il villaggio di Akna, al fronte, ci si rende conto del terreno sul quale armeni e azeri si affrontano. Una volta cittadina fiorente, oggi è un ammasso di macerie. I ruderi degli edifici testimoniano i fasti di una volta. Ma in buona parte era già stata distrutta durante la prima guerra fra azeri e armeni fra il 1988 e il 1994. Ora la moschea cittadina è stata trasformata in un posto di comando armeno. Akna è situata proprio a ridosso del fronte. Sotto terra sono scavati bunker camuffati.
Ammassi di terra proteggono le vie percorse dai veicoli dalle quali si diramano varie trincee vere e proprie. Labirintiche, perché sembrano infinite e piene di deviazioni, segnalate con alcuni numeri per orientarsi. Facile perdersi. Ai lati dei canali, sui mucchi di terra, c’è del filo spinato insieme a barattoli di latta, che servono da allarme nel caso il nemico provi a entrare. Di notte una luce illumina il territorio circostante. I soldati sono pronti, le armi cariche.
David, 38 anni, è il comandante della postazione Gregory Avitysian, nome dato in onore di un soldato armeno morto durante la prima guerra. «Il pericolo più grande è l’artiglieria», dice, mentre il sudore gli bagna le guance e i lacci dell’elmetto. Comanda una decina di soldati, tutti volontari armeni fra i 18 e i 20 anni. Giovanissimi e cresciuti con il mito del dovere di difendere la propria terra. «Ogni armeno deve capire che le nostre famiglie iniziano e terminano qui. In questa linea. Dobbiamo difenderci», dice.
I soldati si danno il turno di guardia. Vivono in una cameretta, dove ci sono i fucili, un telefono a fili per comunicare con le altre linee e un’asse di legno con alcune coperte per riposare. Sulla porta, un’immagine raffigurante una rivoltella con delle sigarette al posto dei proiettili, dice “Fumare uccide”. Una stufa riscalda le notti, si va verso l’inverno. Artur, 20 anni, è un cuoco. «Quando la guerra finirà tornerò a fare il mio lavoro. Ma prima vado a portare dei fiori a mia mamma», sorride. Cucina su un fornello a gas, aprendo delle scatole di latta e riscaldando dei cereali. Tutto è calmo. L’apprensione è molta, ma il mantra di ogni armeno, in questi giorni, sembra essere “siamo pronti a morire”.
Poco più a nord, Hamlet, 25, è di guardia alla postazione Alik Hakupian: «Tutta la mattina ci hanno bombardato. Come fosse il primo giorno», dice. Vuole diventare prete ma ha dovuto interrompere gli studi in seminario per raggiungere il fronte. Nella piccola postazione, un cerino è acceso su una mensola insieme a qualche icona religiosa. Ma non c’è molto tempo per pregare.
«Vogliono distruggere le postazioni d’artiglieria dietro le nostre linee. Il nostro punto forte. Mentre ci bombardano provano ad avanzare con i carri e i soldati. Oggi siamo riusciti a respingerli», continua. Sono armati con kalashnikov e lanciarazzi. Sulle uniformi è pitturata una croce bianca: «È simbolico, ma anche un segno di riconoscimento. Dopo il crollo dell’Urss, i nemici e noi avevamo la stessa uniforme», dice Ludwig, 37 anni, il comandante.
Fra le linee nemiche, un mare di mine. Le trincee sulla linea centrale sono difficili da espugnare. E i tentativi azeri, in questa zona, finora sono stati vani. I combattimenti più aspri - dall’inizio delle nuove ostilità, lo scorso 27 settembre - sono avvenuti al sud, dove gli azeri sarebbero penetrati per molti chilometri. Non si capisce però di quanto esattamente. Le informazioni sono poche, incerte.
Hamlet e la sua squadra hanno perso già tre compagni negli scontri. Mentre lui parla, i colpi di mortaio cadono a qualche centinaio di metri da noi. «Siamo consapevoli tutti che senza la guerra non ci sarà mai la pace», dice. Il bilancio dei morti sale. Si dice che questo mese abbia fatto più vittime che in un anno durante il primo conflitto, quello dei Novanta.
La guerra nel Karabakh dal lato armeno si combatte in modo anacronistico. La legge marziale ha richiamato i militari e le riserve al fronte. Gran parte della popolazione maschile, dunque. Poi c’è la gente del posto, quella che abita vicino al fronte. Anche anziani, che sono rimasti nei bunker a sostenere chi combatte, legati alla loro terra.
«Vedi quelle montagne?» dice un uomo indicando le vette che attorniano la città di Stepanakert. «Io e loro siamo una cosa sola. Niente potrà separarci. Solo la morte». Non servono altre parole. Molti villaggi sono però stati abbandonati. Altri sono finiti sotto il controllo azero e difficilmente torneranno agli armeni. Una tragedia per chi ha perso tutto.
Ma la guerra è ingiusta da entrambi i lati. Armeni e azeri sono entrambi responsabili per aver fatto innumerevoli vittime civili. Gli attacchi d’artiglieria e con i droni hanno bagnato di sangue le strade del Karabakh ma anche di molte città azere. Non si ha un conto del danno umano esatto. Ogni parte si contraddice, accusando il nemico di violare i cessate il fuoco accordati e di usare terroristi o mercenari al fronte.
Stepanakert è la capitale dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, come gli armeni chiamano la regione del Nagorno Karabakh. Bombardata incessantemente dai droni azeri, è divenuta una città fantasma. Gli aerei senza pilota, quando passano, creano il panico. Si sente il rumore delle esplosioni, non si capisce da dove vengono ma bisogna correre al riparo. Le sirene suonano senza sosta. Spietati e imprevedibili, i droni hanno costretto la città a vivere nei sotterranei, nei bunker improvvisati o rispolverati dal conflitto precedente.
Nei sotterranei della palazzina d’epoca sovietica dove vive Karen, un uomo di 38 anni, si sono rifugiate molte persone, che aspettano ascoltando il rumore delle esplosioni. Qualcuno mangia al tavolino posto in un angolo. Di fianco, un altro tavolo serve per le stoviglie e preparare la cena. Un fornello a gas permette di scaldare una zuppa di riso, pomodori, qualche legume. Il cibo però comincia a scarseggiare.
Dal lato opposto, la tivù è sempre accesa, con le notizie sulla guerra. Il pavimento è di terra battuta, coperto da qualche pezzo di cartone. In un’altra stanzetta sono stipati molti letti. «Le vere eroine sono loro, le nostre donne», dice Karen. «Ci sollevano il morale e ci sostengono». Lui è un militare, come tutti gli uomini della regione del resto. Quando gli chiedo come sta andando la guerra risponde: «Non farmi queste domande». Tutto è molto confuso.
Vicino a Karen siede Rita, che prima era una avvocatessa di successo. Mostra le sue emozioni senza problemi: «Ci siamo abituati a questa vita. Abbiamo dimenticato le comodità. Ma vedere i nostri giovani morire è una tragedia. Noi non vogliamo conquistare nulla. Solo vivere in pace», dice: «Non ho paura di chiamarli barbari. Non solo usano i droni e armi proibite dalle convenzioni internazionali per uccidere civili, ma bersagliano pure il nostro patrimonio culturale».
Si riferisce alla chiesa di Shushi, bombardata due volte dai droni. Una chiesa bianca, adornata dai raggi del sole. Oggi, un ammasso di polvere, legno e mura incenerite. Rita ha le idee chiare: «L’unica soluzione al problema è il riconoscimento dell’indipendenza dell’Artsakh». Difficile che si avveri. Tuttavia ne è convinto anche Robert Avetisyan, rappresentante della autoproclamata repubblica negli Stati Uniti. «Il riconoscimento dell’Artsakh da parte della comunità internazionale è il presupposto per evitare altri scontri nel futuro e soffocare qualsivoglia aspirazione di conquista», sostiene.
In città non c’è traffico. Del resto, si vive sottoterra. Di notte le luci sono spente. Nessuno cammina per le strade. Il gas è stato tagliato per motivi di sicurezza. Chi è rimasto ha deciso di sostenere i propri familiari o la popolazione. Hovik, 50 anni, e Isabel, 38, due armeni di origine siriana, sono gli unici ad aver tenuto il loro ristorante aperto. «Io da qui non me ne vado, ci possono anche bombardare», dice Isabel. «Questa è la nostra terra, sarà la mia tomba», le fa eco Hovik. Con aiuti provenienti dall’Armenia, la coppia cucina un pasto gratis per chiunque voglia. «Siamo qui per aiutare». Solo otto anni fa sono scappati da Aleppo, dove imperversava la guerra civile. Ora sono qui, in un’altra tragedia.
In una fabbrica di tessili nascosta decine di persone lavorano per costruire sacchi a pelo ed equipaggiamento per i soldati. «Mio marito è al fronte», dice Anush, 35 anni. «Rimango qui aspettando che torni. Il nostro lavoro è infinitamente importante», aggiunge mentre cuce un gilet verde mimetico. Ci sono anche volontari venuti dall’estero, dove erano emigrati.
Come Arshak, 41 anni, che aveva un impiego a Mosca: «Niente è più importante dell’essere qui adesso», dice mentre passa ago e filo nella gomma piuma per cucire un sacco a pelo. Hamlet, 31 anni, è arrivato da Strasburgo con l’idea di combattere: «Sono pronto, ho qui tutto l’equipaggiamento. Se mi chiameranno partirò al fronte. Per ora aiuto con questi lavoretti».
Chi ha perso la casa, ha trovato rifugio anche nei sotterranei della cattedrale di Stepanakert. Sono molte le case ridotte ad ammassi di macerie dai droni o dai razzi azeri. Nel seminterrato della cattedrale, le persone hanno portato letti, panchine, sedie, tavoli. Ogni mattina l’arcivescovo celebra la messa con i profughi. Fra loro c’è Marina, 45, madre di due figli e un marito al fronte.
«Quando tutto è cominciato, mi sono rifugiata qui aspettando il loro ritorno. È difficile andare avanti in queste condizioni ma l’unica cosa che mi fa sopravvivere è sentire la loro voce al telefono per dirmi che stanno bene. Mio figlio ha ricevuto una medaglia al valore. Ha salvato il suo comandante durante uno scontro a fuoco. Ha solo 18 anni ed è già un eroe, sono fiera», afferma, mentre la sua voce sembra singhiozzare. Attacca una moka alla presa elettrica per preparare il caffè. «Spero che tutto questo incubo finisca presto. Abbiamo perso tutti i nostri averi e la nostra casa». Intanto i bombardamenti continuano. Sono meticolosamente precisi, ininterrotti. Nessuno sa né come né quando l’inferno finirà.