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È il 13 gennaio 2015, a Gerusalemme. A Har Hamenuchot (il monte dell’eterno riposo), si celebrano i solenni funerali di quattro persone: Yoav Hattab, Yohan Cohen, Philippe Braham e François-Michel Saada. I quattro sono francesi. Sono stati assassinati a Parigi, in quanto ebrei, in un supermercato kasher, da un terrorista islamista, in seguito all’attentato, sempre di terroristi islamisti, alla sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Francia, Europa e Occidente sono rimasti scossi, sconvolti per l’accaduto (...).
A Gerusalemme, ai funerali dei quattro sono presenti il presidente d’Israele Reuven Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu e, in rappresentanza del governo di Parigi, la ministra Ségolène Royal. Tutti e tre gli esponenti delle istituzioni fanno un discorso. Rivlin dice: «Indipendentemente da quali possano essere le motivazioni perverse dei terroristi, è palese che i leader europei debbano agire e impegnarsi a prendere misure fermissime per restituire un senso di sicurezza agli ebrei d’Europa».
E aggiunge: «La Terra di Israele è terra di scelta. Vogliamo che scegliate Israele per amore d’Israele». Spiegazione: se volete venire a vivere qui e non più nella Diaspora perché là vi sentite poco sicuri, sappiate che la scelta deve essere dettata dall’amore, dalla speranza, dalla fede in un futuro, non dalla paura del presente. Royal sottolinea come i valori della Repubblica non siano solo quelli di Voltaire (la tolleranza), tanto invocati a proposito dell’attacco a “Charlie Hebdo”, ma anche quelli di Émile Zola, l’autore del “J’accuse!”, lo scrittore che ha saputo mobilitare l’opinione pubblica in difesa del capitano Dreyfus, vittima di una montatura antisemita. Anche qui, le parole sono importanti.
Notoriamente, l’affaire Dreyfus, portò Theodor Herzl, giornalista della “Neue Presse” di Vienna, alla conclusione che gli ebrei non potevano restare in Diaspora, perché l’assimilazione non avrebbe posto fine all’antisemitismo. Il sionismo come movimento politico nasce da quella convinzione. Però, spesso si dimentica (ed è quello che voleva forse dire Royal) che quell’affaire vede una reazione vigorosa della pubblica opinione democratica in Francia, che capisce quanto la resistenza all’antisemitismo (cosa all’epoca non ovvia) fosse legata alla difesa della Repubblica. Infine, giungono le parole di Netanyahu: «Credo che [gli ebrei] sappiano nel profondo del loro cuore di avere un solo Paese, lo Stato di Israele, che è la loro patria storica e che li accoglierà sempre a braccia aperte».
Lo stesso concetto, il premier israeliano l’aveva espresso parlando agli ebrei francesi a Parigi. Qualche mese dopo, a Firenze, davanti alla lapide che commemora le vittime della Shoah, nel giardino della sinagoga, non in presenza dei giornalisti (...), sempre Netanyahu disse: «Ora, con lo Stato d’Israele non succederà più». Lasciamo da parte Netanyahu. L’abbiamo citato perché, in fondo e con genuina convinzione, l’uomo rappresenta un’idea semplice: gli ebrei, ovunque nel mondo, corrono sempre e sempre correranno il pericolo di essere non solo perseguitati, ma sterminati, motivo per cui al di fuori dello Stato d’Israele la vita degli ebrei è priva di senso e senza futuro.
Notiamo invece quanto, sia per Rivlin che ovviamente per Royal, la presenza degli ebrei in Europa sia un fatto naturale, così come è del tutto ovvio che quattro ebrei francesi possano trovare l’eterno riposo a Gerusalemme. Quello che ci interessa è il lato simbolico dei funerali, il nostro punto di partenza. Intanto un dato, in apparenza tecnico. Le bare dei quattro sono state portate a Gerusalemme in un aereo. Ecco, sembrerà banale, ma all’epoca dei collegamenti aerei frequenti (sebbene interrotti dalla pandemia di Covid-19), a costi non elevati, il contatto, fisico, non solo immaginario e virtuale, fra chi abita la Terra promessa (usiamo di proposito un termine biblico) e chi vive nel resto del mondo - e viceversa - è facile ed è rapido.
Riguarda i vivi (gente che abita addirittura sia qui che là, ci torneremo), ma pure le questioni legate al lutto e alla sepoltura, quindi a istanze arcaiche e primarie. Farsi seppellire a Gerusalemme era stata per secoli l’aspirazione di molti pii ebrei. Semplificando: nella mappa dell’immaginario ebraico c’era al centro Eretz Israel, la Terra d’Israele, con Gerusalemme, il Monte del Tempio e il Sancta sanctorum, il luogo dove era deposta l’Arca dell’Alleanza. Porta del Paradiso quella, seppure metaforica. Si veniva a morire a Gerusalemme perché qui sarebbe stato ricostruito il Tempio e allora il tempo sarebbe diventato il tempo dopo il tempo nel regno del Messia.
Essere seppelliti a Gerusalemme significava avere la certezza di risorgere, fra i primi, nel tempo dopo il tempo, essere le avanguardie del Messia, perché qui avrebbe avuto inizio l’opera della Resurrezione. Per poter finire i propri giorni qui, occorreva però venire a piedi, in carrozze scomodissime, in nave, fra briganti, pirati, tempeste: lontani dalla famiglia e dagli effetti, solitari in attesa della morte. Ma non c’era solo la morte e il cimitero. Terra promessa e Gerusalemme erano pure la vita.
Però era una vita immaginaria. Il calendario ebraico seguiva da sempre le stagioni di Israele, ragione per cui, ad esempio, in Polonia l’inizio della primavera i bambini ebrei lo festeggiavano nei boschi pieni di neve e con temperature sotto lo zero. La festa riguardava la prima fioritura dei mandorli, alberi che questi bambini potevano vedere (forse) solo nelle fotografie o in un dipinto. La vita non immaginaria invece, quella fra le nevi e in mezzo ai gentili, molti la consideravano solo provvisoria. Una provvisorietà però di lunga durata, destinata a concludersi solo con l’avvento del Messia.
Quello che ci interessa qui è semplicemente dire: l’ebraismo era diviso fra due poli. C’era il polo Gerusalemme e l’opposto, la Diaspora. Poi è venuto il sionismo. La carica messianica è stata tradotta in un progetto politico e culturale laico (sebbene alcuni laici usassero un lessico religioso e alcuni religiosi utilizzassero idiomi laici parlando della fede), dove la contrapposizione Diaspora-Terra d’Israele era centrale e costitutiva. La contrapposizione però non riguardava più i sogni ma la realtà. La modernità nella sua versione positivista postulava quello che Herzl tradusse in una frase celebre: «Se lo vorrete, non sarà un sogno».
Ingegneri, agronomi, uomini d’affari, attivisti politici erano chiamati a lavorare per costruire una realtà nuova, all’avanguardia delle promesse della modernità. (...) Tutti quanti, i liberali e i socialisti, comunque, davano per scontata la «minorità» dell’ebreo e la sua subalternità, e ne trovavano la radice nella Diaspora. Diaspora era la malattia, Sion la cura. (...) Se è vero che gli israeliani sono oggi molto propensi a cercare e rivendicare le loro radici diasporiche, gli ebrei non israeliani non sono altrettanto disposti a identificarsi con Israele. Il movimento non è simmetrico, benché Israele resti importante per l’immaginario degli ebrei, ovunque, anche di coloro che con Israele non hanno un buon rapporto o non vogliono avere rapporto alcuno.
E c’è di più. Per certi versi si può sostenere che Israele è oggi una delle comunità della Diaspora, una comunità che ha deciso di darsi la forma di uno Stato. La cultura quotidiana di Israele è del resto permeata da quello che per i padri del sionismo era «la mentalità diasporica»: astrazione, mediazione, nevrosi, amore per le metropoli a scapito del lavoro della terra, cosmopolitismo. Pochi agricoltori e tantissimi avvocati, medici, imprenditori; mestieri tipici degli ebrei in Diaspora ai tempi della modernità. Israele è una nazione start-up.
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