Gli Stati Uniti sono i primi al mondo per numero di casi e vittime. Tra i primi a ricevere il vaccino ci sono gli operatori sanitari di ospedali e case di riposo. Ma ancora due americani su dieci non vogliono l’iniezione

Tra gli oltre 600 mila americani che hanno ricevuto il vaccino da Covid-19, oltre al Presidente eletto Joe Biden che lunedì in diretta dal Delaware si è sottoposto all’iniezione, ci sono gli operatori sanitari.

Jenni lavora in un reparto di terapia intensiva nel Kentucky, nel sud-est degli Stati Uniti, dove i nuovi casi sono tra i più alti nell’intero Paese.  È stata tra le prime a ricevere una delle 30mila dosi di vaccino distribuite a partire da metà dicembre. Dall’inizio della pandemia gli Usa contano circa 320 mila decessi e 18 milioni di casi totali. Secondo i dati forniti dal Cdc - Centers for Disease Control and Prevention -, un organo federale che si occupa di sanità pubblica, la scorsa settimana è stata una delle più scoraggianti, con 3600 morti nella giornata record di mercoledì 16 dicembre. 

«L’ospedale in cui lavoro sta somministrando il vaccino al personale dei reparti di terapia intensiva, del Pronto Soccorso e delle unità Covid» spiega Jenni. Dopo qualche domanda di routine sul suo stato di salute - se fosse incinta, se avesse allergie e se avesse mai avuto reazioni allergiche ai vaccini - un addetto gliel’ha somministrato: «Non è stato obbligatorio, stava a noi decidere se farlo o meno. Molti miei colleghi hanno fatto la mia stessa scelta, ma non tutti». Oltre agli operatori sanitari, le prime dosi sono rivolte agli ospiti e ai dipendenti delle case di cura. Sviluppato dalle aziende Pfizer e BioNTech, questo vaccino è il primo ad essere approvato dalle autorità di regolamentazione degli Stati Uniti, e offre un’efficacia del 95 per cento. Venerdì il Paese ha autorizzato anche quello della statunitense Moderna, che inizierà ad essere spedito domenica. Secondo un sondaggio del Pew Research Centre - un centro di ricerca con sede a Washington - il numero di americani che oggi si sottoporrebbe al vaccino è cresciuto rispetto a Settembre, ma ancora due cittadini su dieci sono contrari.

Il presidente Joe Biden ha fissato l'obiettivo di vaccinare 100 milioni di persone - quasi un terzo della popolazione degli Stati Uniti - entro i primi 100 giorni dall’inizio del suo mandato, che partirà ufficialmente il 20 gennaio. In quella data chiederà inoltre ai cittadini americani di indossare la mascherina per 100 giorni. Per ora non esiste una politica federale sulle restrizioni e sta ai governatori decidere quali imporre ai cittadini: per esempio ad oggi sono 37 gli Stati in cui vige l’obbligo di indossare la mascherina in pubblico.

Uno studio della rivista sanitaria Health Affairs ha sottolineato la necessità di non abbandonare le restrizioni: con i casi attuali, per ridurre l’indice di contagio Rt, serve mantenerle non solo fino all'arrivo di un vaccino, ma soprattutto per l’intero periodo in cui verrà distribuito. «È molto frustrante quando arrivano dei pazienti che si rifiutano di indossare la mascherina o dicono che il virus non esiste, o che ha un tasso di mortalità molto più basso di quello che crediamo. La loro opinione cambia solo quando le loro condizioni si aggravano» spiega Jenni.

Nel suo reparto di terapia intensiva qualche settimana fa sono arrivati due fratelli, entrambi con il Covid. Erano appena tornati da un viaggio insieme all’intera famiglia: su 15 di loro, 8 hanno contratto il virus e uno dei due fratelli è morto. «La differenza è che le prime due ondate - in Usa la prima è stata in primavera, la seconda in estate e l’attuale viene chiamata “the autumn surge” - erano molto meno gravi, ma la gente ormai si è stancata di seguire le norme». Casi, ricoveri e decessi hanno raggiunto il picco per poi attenuarsi prima ad aprile e poi ad agosto. Il picco di questa ondata autunnale ancora non si vede. Con l’arrivo delle basse temperature le persone hanno iniziato a raggiungere amici e conoscenti in spazi chiusi, quindi poco ventilati, contribuendo alla diffusione ancora più rapida del virus. La situazione in primavera era grave a New York, dove Jenni ha lavorato da aprile a giugno, in Texas, dove è rimasta nel mese di luglio, e poi si è diffusa ovunque, senza distinzioni. Per questo Jenni è tornata in Kentucky, dove le hanno fatto un “crisis contract”, un tipo di contratto molto comune dovuto anche alla mancanza di personale nelle strutture ospedaliere, un fenomeno già esistente prima della pandemia.

Monica, che ha 23 anni e fa la travel nurse, è esattamente la figura che gli ospedali cercano per sopperire a questa mancanza. Come altri 25mila nel Paese, Monica si sposta di città in città a seconda dell’emergenza sanitaria e vi rimane da un minimo di tre mesi a un massimo di un anno. Dall’inizio dell’emergenza ha lavorato in due ospedali diversi in Georgia, dove ad agosto era stata raggiunta una media di 3mila ricoveri giornalieri per Covid-19. «Essere una travel nurse mi spinge ad adattarmi a situazioni diverse, perché non tutti gli Stati hanno lo stesso sistema sanitario e non tutti gli ospedali operano allo stesso modo». La paga è molto alta per chi come Monica viaggia per andare incontro alle necessità degli ospedali. «Dove sto lavorando adesso, in New Mexico, mi hanno raddoppiato lo stipendio per farmi rimanere. Abbiamo dovuto sospendere per due settimane le operazioni non essenziali, perché la situazione è davvero al limite».

Molti dei casi che stanno arrivando provengono dalla Navajo nation, una riserva in cui vivono circa 175mila persone. A giugno il tasso di mortalità all’interno della riserva per il Coronavirus era di 154 persone su 100mila, rispetto alle 123 nello Stato di New York. «Le famiglie stanno a stretto contatto ed è molto comune che varie generazioni vivano nella stessa abitazione, rendendo questi spazi molto affollati» spiega Monica. L’arrivo delle festività non farà altro che peggiorare le cose.

«Gli americani sono persone abitudinarie e non amano rompere le tradizioni, soprattutto quelle legate alla famiglia. Molte persone si riuniranno perché si sono stancate di vivere nella paura».

Emma, che fa l’infermiera nello Stato del Tennessee,  nel Sud degli Usa, spiega che tutti coloro che stanno tornando alla normalità «Credono che non si potrà chiudere tutto per sempre, che il virus non deve limitare le loro vite». Il suo orario di lavoro in media varia dalle 12 alle 14 ore, ma spesso le supera. L’emergenza, a differenza di quanto successo a Monica, non le ha portato alcun tipo di incentivo in busta paga: «Solo adesso, dopo quasi dieci mesi dall’inizio della pandemia, stanno iniziando a darci qualche extra per le ore di straordinario» spiega. «Ed è dura perché rischiamo la vita, soprattutto in questa ondata». Secondo il Guardian sono circa 2900 gli operatori sanitari statunitensi morti combattendo il Covid-19: 460 sono infermieri.