Cara Europa batti un colpo prima che sia davvero troppo tardi
L'Ue oggi si trova davanti a un bivio: da un lato le divisioni, dall’altro la coscienza di un destino comune nel mondo
Con parole che hanno segnato una Pasqua impegnativa e anomala Papa Francesco si è rivolto direttamente all’Europa come se fosse un interlocutore certo e stabile capace di raccogliere un monito impegnativo e per molti versi inedito. Sì, l’Europa come spazio e come istituzione, principale destinataria di passaggi non scontati del messaggio Urbi et Orbi : «Oggi l’Unione Europeaha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative».
Un riferimento esplicito a una costruzione storica e alle sue responsabilità. Si tratta al tempo stesso di una straordinaria novità nei rapporti tra poteri e istituzioni e di una conferma di tematiche di lungo periodo. Il richiamo diventa esplicito quando Bergoglio richiama il conflitto strisciante tra le nazioni, il peso delle logiche di potenza. Per il vecchio continente «l’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni. Non è questo il tempo delle divisioni. Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone». Una pagina impegnativa che lascia alle spalle le diatribe irrisolte sulle radici culturali o filosofiche dell’Europa nel suo divenire scegliendo il confronto serrato con la costruzione storica continentale. Il farsi storia del minacciato ideale europeo conferma la centralità ritrovata dei nazionalismi come chiave di risposta alle inquietudini del mondo globale.
Una terribile indicazione che mette in causa le ragioni stesse del cammino del lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle. Se la costruzione europea rimane la risposta più alta e condivisa alle logiche di violenza e di guerra allora ogni strategia distruttrice di quella architettura privilegia il ritorno della nazione o se vogliamo usare un’espressione corrente e inflazionata del sovranismo identitario. Il confronto di queste settimane va ben al di là dell’emergenza del Covid 19, alcune voci autorevoli (penso a Delors, Habermas) hanno raccolto, amplificato e approfondito il monito di papa Francesco. La crisi di quello che possiamo chiamare l’ideale europeo si è acuita sotto il peso di almeno tre fattori che in un tempo recente hanno scosso le fondamenta dell’Unione.
Prima la crisi economica del 2007-2008 segnata dai salvataggi possibili a fronte di fallimenti annunciati di sistemi economici integrati e connessi, in seguito la cosiddetta emergenza migratoria come fattore destabilizzante utilizzato per agire sulle paure di tanti e sulle mancate risposte comuni a fenomeni inediti. Persino la composizione demografica continentale (bisognosa di nuove energie generazionali) viene sacrificata scegliendo in proclami e prese di posizione (spesso inapplicabili) la via della chiusura o della fermezza arroccata. E da ultimo la pandemia globale come emergenza comune. Un bivio ancora una volta tra la solidarietà possibile (ritrovata e condivisa) o le spinte insopprimibili del linguaggio della nazione. Il passato si riaffaccia pur in presenza di minacce sconosciute e di nemici nascosti. Non regge il paragone con le guerre come chiave di lettura adattabile al nostro tempo, mentre può ancora essere utile la prospettiva storica di un cammino che affonda le proprie ragioni nella sinergia possibile tra pace e benessere all’interno del perimetro di territori contesi e insanguinati per secoli. Sarebbe l’ennesima occasione perduta - per non dire di peggio - lasciare tale prospettiva alle parole del pontefice, ai suoi irrituali richiami alla storia del Novecento, alla condivisione che viene da lontano: «Dopo la seconda guerra mondiale, questo amato continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda».
Chiedere all’Europa di battere un colpo prima che sia troppo tardi significa difendere le ragioni di un itinerario comune senza nascondere le debolezze che tanto hanno pesato negli ultimi decenni, in particolare dopo la fine della guerra fredda. Molte speranze legate al 1989 e ai suoi possibili riflessi si sono spente o di frequente trasformate in sonore sconfitte. Basti il richiamo al cammino costituzionale spezzato o all’esito del referendum sulla Brexit. Indicatori diversi convergono nel segnalare una pericolosa assuefazione al progressivo inabissarsi dell’ideale originario. Troppe indecisioni, errori, calcoli miopi di parte che hanno condizionato protagonisti e comprimari. Il cortocircuito tra opinioni pubbliche nazionali e dimensione continentale non è una scoperta di oggi, né una sorpresa rivelata dal corona virus. Se nel 1975 il referendum confermativo dell’ingresso del Regno Unito (del 1973 nella Cee di allora) si chiude con una netta prevalenza dei Sì (17 milioni contro gli 8 contrari) il tempo di due generazioni ha rovesciato quel dato con un esito spesso accolto con sufficiente accondiscendenza. O ancora le analisi impietose sull’indebolimento progressivo del tasso di europeismo nella società italiana (20 punti in meno negli ultimi due decenni): il contributo straordinario per l’Europa (l’eurotassa per intenderci) viene relegato a un passato indistinto e perduto. E così per i dati dell’Eurobarometro del 2019, in controtendenza dopo anni segnalano il 43 % come livello di fiducia nell’Ue con un quadro delle performance euroscettiche che merita attenzione: dopo la Gran Bretagna (29%) quattro paesi che per motivi diversi hanno costruito le proprie fortune in relazione alle dinamiche continentali nella transizione alla democrazia. Due padri fondatori, Italia (fiducia al 38%) e Francia (32%) e due nazioni che hanno proiettato l’uscita da regimi autoritari nel solco di un europeismo da conquistare e difendere: la Spagna (39% di fiducia nella Ue) e la Grecia (34%). Indubitabile che ci sia un’erosione inarrestabile collocabile tra il trattato di Maastricht del 1992, il fallimento del processo di costituzionalizzazione (2005) e il prevalere del rigore economico come unico fattore di riconoscimento. Di converso appare robusto il sostegno degli europei alla moneta unica (62%). Un insieme di condizioni che ha favorito il diffondersi di un senso comune secondo il quale i passi avanti in termini di qualità della vita, garanzie e diritti fosse avvenuto malgrado il vincolo esterno e non grazie alle capacità virtuose di una stabilizzazione condivisa e consapevole.
Un rovesciamento dei termini iniziali che avevano costruito le condizioni per una ricostruzione impetuosa in una parte non marginale del vecchio continente. E così mentre il crollo del comunismo poteva rilanciare le ragioni di un’Europa più ampia e più forte, appoggiata sui due pilastri dell’economia e della politica, dell’integrazione e della democrazia, la realtà degli ultimi decenni non corrisponde alle speranza di allora né alle sfide del nostro tempo. Il sostanziale disequilibrio internazionale del dopo guerra fredda consegna una duplice e strana versione dell’Europa: una debole, fragile, divisiva attraversata dalle spinte nazionali o dalle logiche di potenza, un’altra sofferente ma potenzialmente centrale nel mondo globalizzato, fondata sulla condivisione di un destino comune e di una strategia. La tempesta di queste settimane spazza via ogni consolatoria chiusura dentro muri, confini invalicabili o certezze. È urgente voltare pagina per tornare a sperare. In un aprile di molti anni fa l’Italia piegata dalla guerra trovava la forza per ricominciare. In tanti si chiedevano senza retorica «Ce la faremo?». Ecco la risposta di Alcide De Gasperi (12 aprile 1947) che prendo in prestito dagli auguri pasquali della Fondazione trentina che porta il suo nome: «Ce la faremo? Rispondo: certissimamente, purché lo vogliamo. Con fermezza, con tenacia, con solidarietà. È inutile che una categoria voglia sopraffare l’altra per arrivare al traguardo. O tutti o nessuno. Ci vuole disciplina, solidarietà ed onestà».