«Noi non abbiamo nome. Se volete, chiamateci George Floyd»
Una notte con i manifestanti di Flatbush, quartiere a sud di Brooklyn. In una battaglia di sassi, bottiglie, pietre. Teaser, spray al peperoncino, manganelli e auto della polizia incendiate
Sono le sette di sera di sabato 30 maggio. La seconda notte di scontri a New York. La terza di proteste nella città che non dorme mai. La quarta in tutto il Paese, dove si manifesta contro l’ennesima morte ingiusta di un cittadino afro-americano qualunque, George Floyd.
Quel video amatoriale ha fatto il giro del mondo. Ed è pensando a quel corpo inerme che perde conoscenza, supino, sotto il ginocchio bianco dell’agente di polizia a Minneapolis, che gli scontri si fanno più forti.
A Flatbush, quartiere a sud di Brooklyn, si marcia da tre isolati lungo Bedford Avenue, in modo pacifico. Ci sono canti. Ci sono slogan. A un tratto un’esplosione, in coda al corteo. Si corre indietro a vedere. C’è una macchina della polizia di New York sventrata.
Inizia il finimondo. [[ge:rep-locali:espresso:285345274]] Altre vetture della NYPD prendono fuoco come fiammiferi, la prima tra Church Avenue e Bedford, a dieci minuti dal borghese quartiere residenziale di Park Slope. Agenti caricano manifestanti, senza troppo guardare. Da una parte si lanciano sassi, bottiglie di vetro, pietre. Dall’altra si usano i teaser, lo spray al peperoncino, i manganelli e gli arresti.
Gli agenti hanno la divisa sporca di sangue. Le persone sono a terra ovunque.
A essere colpito (e a uscirne quasi indenne) è un ragazzo afro-americano di Flatbush. Ha 23 anni. È vestito con una felpa e pantaloni neri. Un poliziotto durante gli scontri lo ha colpito all’avanbraccio, dove tre lividi ora si fanno spazio sulla sua pelle. Come ti chiami?, gli chiedo. «Non te lo dico, perché potrei avere qualsiasi nome», la risposta.
Poi ancora, gli occhi spaventati, i lacrimogeni ovunque, il rumore degli elicotteri nel cielo, il cordone della polizia a due passi. «Non riesco nemmeno a guardarlo, quel video. Ma il prossimo potrei essere io. George sarebbe potuto essere ognuno di noi, non abbiamo nome in queste proteste». [[ge:rep-locali:espresso:285345262]] La polizia sgombera la via con la forza. Il ragazzo senza nome inizia a scappare. Seguono esplosioni, scontri, attacchi e vetri. Ci saranno ovunque, nella Brooklyn dove vivono quasi novecentomila afro-americani. A Bedstuy. A Flatbush. A Crown Heights. Davanti al Barclays Center. In fondo a East New York. Sono le 72 ore di Brooklyn, dove ragazze e ragazzi senza nome manifestano contro la morte di uno come loro. L’ennesimo.