
Prima dell’arrivo del virus la quotidianità di Leonela, 36enne nativa americana e coordinatrice di programmi di ricerca per il Johns Hopkins Center for American Indian Health, si svolgeva proprio tra queste due realtà: Teec Nos Pos dove è nata, abitata da appena settecento anime, e Shiprock dove si trova l’ufficio in cui lavora da ormai quasi sette anni. «Ho visto le file fuori dai pochi negozi di alimentari e le code davanti alle aree di servizio. È stato surreale». Poi il panico da incertezza si è trasformato in consapevolezza: «Quando il governo della Navajo Nation ha imposto il coprifuoco, abbiamo avuto la reale percezione che il Covid fosse ormai tra noi».
Se in diverse parti degli Stati Uniti in queste settimane si inizia a vedere la luce in fondo al tunnel dopo la crisi sanitaria e in altre ancora l’ondata di proteste per la morte di George Floyd ha fatto quasi dimenticare la pandemia, c’è una comunità che sarà costretta a fare i conti con il Covid-19 ancora a lungo: i nativi americani. E a metà giugno la Navajo Nation, la più grande riserva nativa del Paese, ha superato gli Stati di New York e New Jersey per numero di casi da coronavirus ogni 100 mila abitanti.

Uno scenario che ha fatto luce su una realtà fatta di mascherine che scarseggiano, ventilatori che mancano e kit di protezione per gli infermieri che non si trovano. «Ma il paragone con New York e New Jersey non mi piace, lo trovo profondamente impreciso: noi non siamo uno Stato, siamo una nazione e abbiamo testato le persone della nostra comunità a un tasso molto più alto di New York e New Jersey, con cui tutti ci confrontano», spiega all’Espresso Jonathan Nez, presidente della Navajo Nation dal suo ufficio a Windor Rock, in Arizona. «Se il resto del Paese testasse la popolazione come abbiamo fatto noi, parleremmo di un’altra realtà».
In questi giorni sono stati tanti i giornalisti che si sono recati nella sua riserva per raccontare le difficoltà sanitarie della comunità nativa. Una comunità che si distribuisce su tre Stati, Arizona, New Mexico e Utah. E su un territorio di circa 71 mila chilometri quadrati, più vasto di West Virginia, Massachusetts, Hawaii e New Jersey, e che ha un suo braccio politico indipendente, rinnovato ogni quattro anni. Jonathan Nez ne è presidente dal 2019 e mai si sarebbe immaginato di dover affrontare una pandemia al suo secondo anno di mandato. «Siamo stati i primi ad annunciare lo stato di emergenza: quando ho visto i casi in California e Washington State ho capito che ci avrebbe colpiti», racconta oggi.
Molti in America credono che le famiglie native siano tra i diffusori del coronavirus perché la loro società è basata sul concetto di clan, di cui fanno parte diverse famiglie. Quando i nuclei familiari si incontrano per una serata di festa, i raggruppamenti di decine e decine di persone in casa non mancano. «C’è chi ci sta criticando per aver diffuso il virus anche perché non siamo abbastanza istruiti o educati», spiega Nez. «Ma non siamo stupidi. La realtà è che il virus ci è arrivato da fuori e che abbiamo iniziato una campagna educativa prima che il primo caso venisse registrato nella riserva», spiega il presidente.

In effetti, per le strade della Navajo Nation, una delle parole più ricorrenti è “dikos Ntsaaígíí-Náhást’éíts’áadah”, che nella lingua nativa significa, semplicemente, Covid-19. Sono centinaia i cartelli e gli avvisi che contengono informazioni su come evitare il contagio. Le famiglie, dalle località più centrali come Shiprock in New Mexico a quelle più remote nel deserto dell’Arizona, sono state messe al corrente della pandemia. È stato anche imposto per otto settimane, su tutto il territorio della Navajo Nation, un coprifuoco di 57 ore nei weekend, da venerdì pomeriggio al tramonto a lunedì mattina all’alba. E le analisi dicono che i risultati degli sforzi stanno pagando: «Le proiezioni dei medici dicevano che il picco ci sarebbe stato a maggio: se così fosse stato, sarebbe stata una strage, visto l’aprile che abbiamo trascorso», spiega ancora Nez. Anche perché solo un mese fa le unità di terapia intensiva erano in ginocchio e organizzazioni come Medici senza frontiere avevano inviato i loro dottori a supporto.
Le vittime sono aumentate esponenzialmente nonostante gli sforzi. «Ma abbiamo lavorato bene su test e tracciamento: c’è un impegno della comunità incredibile. Anche perché fare il tracciamento telefonico qui, dove in molte aree manca persino il segnale, non è facile». L’assenza di Gps, che nel mondo pre-coronavirus sarebbe passato sotto traccia, in queste settimane è diventato decisivo. Così come sono emersi i problemi sistematici della comunità nativa che il governo federale non ha mai affrontato: «Qual è la prima raccomandazione dei Centers for Disease Controls durante la pandemia? Quella di lavarsi bene le mani. Ecco, circa il trenta per cento delle persone della Navajo Nation non dispone di acqua corrente», spiega all’Espresso la professoressa Allison Barlow, da Baltimore alla guida del Johns Hopkins Center for American Indian Health e massima esperta nel Paese. «Le strutture ospedaliere in cui la comunità Navajo si cura sono federali, quindi hanno vissuto gli stessi ostacoli di tutti gli altri»: assenza di kit di protezione individuale, di posti letto e di terapie intensive.
Ma a questi problemi si sono aggiunte le questioni locali: «Sappiamo che il coronavirus fa male di più a chi ha malattie pregresse: i nativi americani sono tra le minoranze più colpite in termini percentuali da diabete, malattie cardiovascolari e tumori. Il covid ha fatto esplodere una situazione già esplosiva», continua la professoressa Barlow. Nonostante nel trattato di pace fra Navajo e governo federale del 1868 fosse garantita la copertura sanitaria gratuita e l’istruzione dei nativi, i fondi non sono mai arrivati come avrebbero dovuto.
Una beffa tra le tante, frutto di un “accordo” successivo a una mattanza militare e a una deportazione dei Navajo a Bosque Redondo con una marcia forzata di 300 miglia, nel corso della quale i più deboli - anziani, donne, bambini - morirono a grappoli. I nativi furono rinchiusi per cinque anni in un luogo malsano, spesso privi di cibo e della possibilità di coltivare. Fu un’altra morìa. E, ancora oggi, «il programma sanitario per le comunità dei nativi riceve pro capite meno finanziamenti di quello nelle prigioni e per chi vive in aree remote come queste è una condanna», dice la professoressa Barlow.
E a preoccupare ora è anche la questione economica. «Il motivo per cui queste comunità sono in crisi è duplice: sono venute meno le poche entrate che avevano e hanno pagato in modo salato le condizioni igienico-sanitarie in cui molte persone vivono», spiega all’Espresso il professor Eric Henson, di Yale University. «Il governo federale e le istituzioni locali devono tenere a mente che le organizzazioni native hanno una propria struttura e conoscono meglio di tutti le loro necessità: le istituzioni devono solo dare gli stimoli giusti». Alla situazione di crisi causata dal Covid si è già tentato di reagire.
Nella Navajo Nation, ad esempio, sono nate aziende artigianali che producono kit di protezione individuale e mascherine per gli infermieri, in modo sostenibile. E nonostante parchi, casinò e strutture turistiche siano ancora chiusi fino a luglio, le tribù navajo hanno costruito, in modo autonomo dal governo federale, stazioni con acqua corrente, stand con frutta e verdura fresche e aree con beni di prima necessità. In un territorio dove ci sono circa trenta negozi di generi alimentari per tutta la nazione, è uno sforzo straordinario.
«Stiamo facendo tutto quello che possiamo, anche perché le tribù native sono state le ultime a ricevere i fondi del Cares Act, sei settimane dopo la sua approvazione, e nemmeno tutti», denuncia il presidente Jonathan Nez. «Abbiamo dovuto minacciare per vie legali il governo federale per sbloccarli: tutto questo non è accettabile». Ma, spiega Nez, «non ci piangiamo addosso: abbiamo usato tutte le nostre leggi, alcune delle migliaia di persone Navajo che vivono fuori dalla riserva sono tornate per aiutare, abbiamo ricevuto donazioni: continueremo a lottare per chi ha avuto il virus».
Tra questi, anche una zia di Leonela, che continua la sua quarantena a casa con i genitori nel piccolo villaggio di Teec Nos Pos in Arizona: «Mia zia l’ha vista molto brutta, è in ospedale da settimane ma i medici dicono che ce la farà: sono stati giorni, questi, in cui ho controllato che casa sua fosse a posto e in cui ho riscoperto i miei valori, il piacere della mia famiglia», racconta Leonela del suo periodo di quarantena. Lo stile di vita della maggior parte dei nativi è legato, a doppio filo, alla terra in cui sono state coltivate intere generazioni di famiglie.
«La bellezza di questa comunità è che vivono nel modo sostenibile in cui l’esperienza Covid ci ha fatto capire di dover vivere: quali sono i business essenziali, che cosa ci tiene in vita, cosa non deve mancare», riflette la professoressa Barlow. Anche se la parola chiave per raccontare queste settimane di morte, crisi, caos e solidarietà all’interno della Navajo Nation è un’altra: resilienza. «Molti dicono che verremo spazzati via dal virus», dice il presidente Nez. «Io dico invece che abbiamo superato periodi duri come questo in passato».
E la memoria va appunto alla mattanza di 150 anni fa: quando le truppe del colonnello Christopher Carson - il famoso Kit Carson che ha ispirato tanti film, romanzi e fumetti - condussero contro i Navajos una guerra feroce. E il confinamento a Bosque Redondo, in condizioni disumane, fu un “lockdown” assai peggiore di quello attuale. «Supereremo anche la pandemia», dice Nez. «Ma è giunto il momento che la politica legiferi per le comunità native del Paese come mai ha fatto fino a ora».