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Quattro anni dopo invece non ride più nessuno. Perché Trump oggi è il presidente in carica e alimenta ogni giorno la prospettiva di mettere in discussione i risultati elettorali, con attacchi sempre più incendiari alla legittimità del voto per posta, che si prevede raggiungerà livelli record (causa pandemia) e sarà in gran parte favorevole ai democratici. Secondo il sito web Factbase, nel 2020 Trump ha dichiarato ben 91 volte che secondo lui «con il voto per posta le elezioni saranno manipolate e truccate». Una sorta di delegittimazione preventiva.
Durante un’intervista a Fox News del 19 luglio, quando gli è stato chiesto apertamente se accetterebbe un’eventuale sconfitta, Trump ha dato una risposta ambigua e confusa che ha disorientato tutti: «Bisognerà vedere… No, non mi limiterò a dire semplicemente sì… Non dirò no...». E ora, all’improvviso, l’America ha paura.
«Questo presidente cercherà di aggiudicarsi fraudolentemente l’elezione», ha dichiarato Joseph Biden, a novembre antagonista democratico di Trump, i cui collaboratori della campagna elettorale in linea generale avevano sempre evitato di fargli rispondere alle frasi più provocatorie del presidente. E perfino diversi repubblicani si sono dissociati dalla minaccia del loro leader di rinviare il voto, osservando che nemmeno il presidente Abraham Lincoln - sicuro di perdere la sua campagna per la rielezione in piena Guerra civile - cercò di rimandare le elezioni. «Nella storia delle elezioni federali non abbiamo mai saltato una convocazione alle urne e così dovremmo continuare a fare», ha detto Kevin McCarthy, leader dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti. E Mitch McConnell, senatore repubblicano di spicco, ha rincarato: «Non è mai accaduto che nella storia di questo Paese - in mezzo a conflitti, depressioni e Guerra civile - un’elezione federale già fissata sia stata rinviata. E di sicuro troveremo un modo per fare la stessa cosa anche il prossimo 3 novembre».
A prima vista, le minacce di Trump sono sembrate insensate, quasi allucinanti. Il presidente degli Stati Uniti non ha il potere di cambiare la data del giorno in cui si vota. Soltanto il Congresso ha tale potere e può esercitarlo solo per mezzo di una nuova legge. «Definirlo improbabile sarebbe minimizzare», ha fatto notare il New York Times. Anche nel caso in cui i risultati elettorali fossero messi in stallo dal caos ordito da Trump - evento temuto da molti - la Costituzione degli Stati Uniti prevede che il 20 gennaio abbia inizio una nuova presidenza. Se per allora non ci dovesse essere un vincitore certo, la presidenza passerebbe automaticamente alla Portavoce della Camera, che quasi di sicuro sarebbe ancora la rappresentante della California Nancy Pelosi o un altro democratico.
Eppure, la tangibile paura di una sconfitta da parte di Trump - che una volta lasciata l’attuale carica potrebbe essere perseguito con l’accusa di corruzione - e il suo disprezzo assoluto nei confronti del sistema statunitense di bilanciamento dei potere con il ramo giudiziario e il Congresso, ha reso inquiete molte persone. Ad accentuare i loro timori c’è l’evidente ammirazione che Trump manifesta per gli uomini forti stranieri come Xi Jinping in Cina, Rodrigo Duterte nelle Filippine e Jair Bolsonaro in Brasile. È risaputo che nel 2018 ha plaudito all’abolizione da parte di Xi del limite dei mandati dicendo: «Penso che sia una grande idea. Potrei quasi farci un pensierino…».
La deriva autoritaria di Trump - che ha dispiegato gli agenti della polizia federale paramilitare contro i manifestanti di Black Lives Matter, si è rifiutato di sottostare alla vigilanza del Congresso, ha liquidato di continuo tutte le critiche come fake news, ha accusato i media di essere «nemici del popolo», ha difeso le milizie armate di estrema destra che hanno minacciato esponenti democratici - preoccupa molto i suoi critici ed ex alleati, che ora nutrono profondi timori per il destino della democrazia americana. Uno di loro è l’ex avvocato personale di lunga data di Trump, quel Michael Cohen che due anni fa ha ammesso di aver pagato tangenti a due ex partner sessuali del presidente durante la campagna del 2016 affinché tacessero. Chiamato a testimoniare al Congresso, Cohen ha dichiarato che «tenuto conto della mia esperienza di lavoro per Trump, temo che qualora dovesse perdere le elezioni del 2020 non ci sarà mai una transizione pacifica del potere».
Proviamo a immaginare. È il 3 novembre, è sera avanzata e i network tv riferiscono che Trump è in testa con un sottilissimo margine negli Stati indecisi più cruciali come Florida, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Colorado. Le schede elettorali di milioni di americani che hanno votato per posta devono essere ancora contate. Le emittenti televisive trasmettono a quel punto scene di caos negli uffici postali del Paese, dove gli scrutatori (il cui numero è stato drasticamente ridotto negli ultimi mesi dalle autorità postali alleate di Trump) annaspano in un mare di schede. Poi, quando l’alba si avvicina, le tivù riferiscono che Joe Biden è passato in testa grazie alle schede arrivate per posta. A mezzogiorno, Fox News - emittente alleata del presidente - inizia a parlare di conteggi sospetti dei voti nelle roccaforti democratiche. I social media filo-trumpiani e i commentatori complottisti riprendono e rilanciano la notizia. Agenti russi, cinesi e iraniani si spacciano online per “patrioti” di Trump e fanno da cassa di risonanza, lanciando messaggi automatici a ondate.
All’ora di pranzo, Trump si presenta in televisione e afferma che i democratici e i loro alleati del “Deep State” (una presunta macchinazione segreta a opera di agenti della Cia, dell’Fbi e dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che Trump e i suoi seguaci cospirazionisti immaginano da tempo) hanno rubato le elezioni. Al mattino dopo, il risultato elettorale è ancora troppo incerto per essere reso noto. Subito, alcune milizie di destra imbracciano le armi e si dirigono verso i seggi dove i voti sono scrutinati e conteggiati. Alla fine della settimana, negli uffici postali e nei seggi, soprattutto nei distretti a maggioranza democratica, restano milioni di schede elettorali da aprire, leggere e contare. Iniziano a circolare voci di minacce di bombe e di omicidi di funzionari democratici. Il segretario di Trump per la Sicurezza nazionale accusa delle violenze e di tutto ciò gli “antifa”, una vaga associazione di anarchici di sinistra. In tutta la nazione si moltiplicano le dimostrazioni contro Trump. I suoi plotoni paramilitari iniziano ad agguantare i manifestanti e a ficcarli a forza all’interno di furgoni non identificati e privi di scritte.
Fantapolitica? Distopia? Forse sì, anzi speriamo di sì: ma è Trump in persona ad alimentarla, almeno in parte. Con il drastico crollo dell’indice di approvazione popolare del presidente, il consigliere del Partito democratico Norm Eisen il mese scorso ha raccontato al New Yorker Magazine che durante l’estate i tweet di Trump sulle irregolarità del voto hanno raggiunto livelli record. Non più tardi del 3 agosto, Trump ha puntato il dito contro il lento conteggio dei voti giunti per posta a New York e in altre consultazioni elettorali a livello statale nella prima parte dell’anno, descrivendoli come «voti falsi, immagino» e suggerendo che quelle elezioni «si rifacciano da capo». Poi Trump ha insistito dicendo di avere «il diritto» di emanare un ordine per la sospensione del voto per posta. In verità, ad avere autorità sulle elezioni sono i singoli Stati, non il presidente. La sua minaccia, però, è tale da infondere entusiasmo tra i suoi sostenitori, la maggior parte dei quali crede che il leggendario Deep State stia appoggiando sul serio i democratici. A marzo, Trump ha lasciato intendere che qualora le cose «arrivassero a un certo punto», i suoi sostenitori nelle forze armate, nella polizia e perfino tra gli iscritti ai club di motociclisti del Paese si schiererebbero dalla sua parte. Intanto il presidente si è creato anche un suo esercito di fedelissimi paramilitari nel Dipartimento per la Sicurezza nazionale, i cui agenti a luglio sono sbarcati a Portland, in Oregon, e hanno portato via alcuni dimostranti in furgoni senza scritte. «Posso assicurarvi che ho il sostegno della polizia, dei militari, dei “Bikers for Trump”. Ho dalla mia parte gente tosta, ma che non giocherà duro fino a quando non si arriverà a un certo punto: allora sì che le cose si metteranno male, davvero molto male», ha detto al sito di informazione di destra Breitbart.
Mike German, un ex agente dell’Fbi che negli anni Novanta trascorse molti mesi sotto copertura tra gli estremisti di destra e i suprematisti bianchi, è preoccupato: «Vedere la polizia che stringe le mani e si mette in posa con folle di estrema che agitano armi automatiche o sventolano la bandiera dei Confederati toglie il respiro», dice all’Espresso. Il presidente ha già «rafforzato il movimento suprematista bianco in maniera significativa», ma quando la polizia locale ha deciso di non reagire con la forza alla moltitudine armata di destra, di fatto ha «conferito a quella gente un potere pericoloso». In conclusione, sostiene German, «penso che nel caso in cui ritenessero che il Paese stia per scivolare verso una guerra civile, assisteremmo a episodi di grave violenza da parte dei gruppi suprematisti bianchi».
Questi scoppi di violenza, tuttavia, con ogni probabilità non sarebbero commessi dalla massa di habitué panciuti dei grandi show di Trump, come spiega all’Espresso il giornalista e scrittore Carl Hoffman che, per scrivere il suo nuovo libro (“Il circo del bugiardo”, un viaggio nei comizi di Trump) si è immerso per qualche tempo nella massa di persone che osannano il Presidente. «Il numero di quelli che commetterebbero atti di violenza per Trump è sopravvalutato, proprio come la violenza dei cosiddetti antifa di sinistra», dice Hoffman. «I fanatici che si presentano con le pistole in pugno sono pochi. E tra un ciccione che si atteggia imbracciando le armi e una guerra vera e propria, ce ne corre».
Secondo molti analisti, la democrazia americana si trova comunque davanti a una crisi esistenziale e dovrà affrontarla nel periodo compreso tra il 3 novembre e il 20 gennaio, il giorno del giuramento del nuovo presidente. C’è il rischio che per le strade si moltiplichino gli atti di violenza, che potrebbero indurre Trump a mettere fuori gioco le polizie locali e a dispiegare le sue unità di fedelissimi della Sicurezza nazionale. «Si tratta di una dinamica abbastanza tipica delle prese autoritarie del potere», dice Mike German, oggi al Brennan Center for Justice con sede a New York. «In un primo tempo, l’aspirante dittatore istiga alla violenza contro i suoi nemici politici, mentre la polizia gira la testa dall’altra parte. Quando poi l’opinione pubblica chiede che sia posta fine alle violenze, il despota esige più poteri per reprimere i delinquenti, mentre in verità usa quei poteri con maggiore aggressività ancora contro i suoi nemici».
Nel 1974, durante lo scandalo del Watergate, il presidente Richard Nixon rifletté che avrebbe potuto usare l’esercito per restare in carica. L’idea abortì perché gli uomini che lavoravano a stretto contatto con lui scelsero di restare fedeli alla Costituzione e non a lui. Ma lo staff di Trump farebbe la stessa scelta?
Ad ogni modo, anche una pacifica uscita di Trump dalla Casa Bianca non segnerà certo la fine del trumpismo. I cui milioni di seguaci, spiega Hoffman, credono sul serio che le mascherine siano «tutta una messinscena», che Hillary Clinton e l’ex capo della sua campagna elettorale John Podesta abbiano «stuprato dei neonati» dopo averne «bevuto il sangue» e che Trump sia stato mandato dal cielo a «erigere un muro per mettere fine al traffico di lattanti» .
(Traduzione di Anna Bissanti)