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Mondo
agosto, 2021

Afghanistan, gli ultimi giorni di Kabul

La capitale che aspetta l’arrivo dei talebani, la crisi umanitaria che assume la sua forma più brutale, le grida di dolore unite al pianto della fame. Il racconto della città che si arrende e le storie di chi è già condannato a morte(foto di Alessio Romenzi)

5 AGOSTO 2021, LAGHMAN
Dall’alto della collina arriva il suono dei combattimenti.
«Sono le dieci del mattino, è strano. Di solito combattono di notte, per questo siamo terrorizzati quando cala il sole: non sappiamo se saremo vivi la mattina dopo».


Zahidullah ha trent’anni, è stato nominato dagli anziani della comunità rappresentante per le famiglie scappate dalla provincia di Laghman, famiglie che oggi vivono in un campo improvvisato a Metherlam, otto chilometri dal loro villaggio, Alinghar. I talebani hanno preso il controllo di quattro distretti della provincia di Laghman pochi giorni prima e per tutti gli abitanti dei villaggi l’unica soluzione è stata scappare via.
Le crisi umanitarie di questi anni ci hanno abituato a immagini di campi per sfollati: le tende bianche delle agenzie delle Nazioni unite, i bagni chimici, i bidoni dell’acqua con i loghi delle Ong che si occupano della sanificazione, cancelli e recinzioni che proteggano le persone.
A Metherlam tutto questo non c’è.


Il campo sorge su una distesa di terra arida sul ciglio della strada principale che dal centro città conduce ai monti: da una parte le forze di sicurezza dell’esercito afghano che provano a resistere, dall’altra i talebani.
In mezzo i civili, siano essi abitanti della città o sfollati interni giunti qui dopo l’inizio dei combattimenti, dunque doppiamente vulnerabili.

 

Bambini sflollati nel distretto di Laghman


A Metherlam non ci sono tende ma lenzuola, lembi di stoffa, veli femminili tenuti in piedi da pezzi di legno. Le donne e i bambini si riparano cercando un frammento di ombra per proteggersi dalle temperature che possono raggiungere anche i 45-47 gradi.
Negli ultimi due mesi sono arrivate piu’ o meno duecento famiglie, approssimativamente 1.500 persone: alcune vivono accampate sui terreni, altre hanno trovato riparo negli edifici in costruzione.


La casa di Zabidullah, a Alinghar, era sulla linea del fronte, è stata danneggiata dai colpi d’artiglieria pesante. Come quella di Berhem, 60 anni. Mostra due fotografie, una ritrae casa sua e una il bestiame. Ha perso sia l’una che l’altro. Della sua vita di pastore non resta niente: «È una guerra sporca, più sporca di quelle del passato. Nessuno combatte nel nome dell’Islam, l’Islam è una religione di pace», dice.

 

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La comunità ha perso uomini, donne e bambini. Ogni tenda improvvisata ospita i sopravvissuti e la storia di una perdita. Le giornate sono scandite dai sacrifici per la sopravvivenza.


«Nessuno ci aiuta se non i vicini che ci portano cibo e acqua per i bambini quando possono. Ma qui non arriva nessuno a portare supporto», dice Zabidullah. Significa che non arrivano le organizzazioni umanitarie, né le Nazioni unite, troppo pericoloso.
Un’ assenza scritta sulle ferite degli adulti e sulla pelle dei bambini. Tutti sporchi, molti malati.

 

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«Come si lavano i bambini?».
«Non li laviamo, quando è proprio necessario li portiamo al pozzo dei vicini».
Fatima è stesa in tenda con due bambine, il marito è rimasto ucciso nei combattimenti.


«Che farò, ora, da sola?», una domanda che si ripete, un’eco in ogni tenda con donne sole e bambini.
Rahimullah, 35 anni, ha perso suo fratello, oggi tocca a lui prendersi cura della vedova e dei bambini. Habiba, 45 anni, invece si prende cura di suo marito Chenargul, che ha 50 anni ma ne dimostra 80, non parla, ascolta e piange. È gravemente malato, respira a stento, ma nel campo non arrivano neppure le medicine.


«Non ci sentiamo sicuri, la notte scorsa i talebani hanno attaccato i mezzi dell’esercito proprio qui, lungo la strada. Abbiamo abbandonato le nostre case per sopravvivere ma non siamo al sicuro. Se arrivano e ci catturano, se prendono le nostre donne, come possiamo difenderci? Non abbiamo un altro posto dove andare. Non c’è via di scampo in Afghanistan», dice Zabidullah.

L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, stima che dall’inizio dell’anno circa 400 mila afghani siano stati sfollati a causa dei combattimenti, portando il totale degli sfollati interni a cinque milioni di persone.


I numeri però sono difficilmente verificabili e molto fluidi, secondo l’Afghan independent human rights commission (Aihrc), solo negli ultimi tre mesi, dall’inizio dell’offensiva talebana, sarebbero invece 900 mila persone le persone sfollate solo da aprile a giugno, numero che rappresenta un aumento del 74 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.


L’80 per cento degli afghani costretti a fuggire è composto da donne e bambini.
Secondo un rapporto pubblicato il mese scorso congiuntamente dall’Ufficio delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr) e dalla Missione di assistenza delle Nazioni unite in Afghanistan (Unama), nella prima metà del 2021 sono state uccise e ferite più donne e bambini che nei primi sei mesi di qualsiasi anno dall’inizio delle registrazioni nel 2009.


I combattimenti hanno anche creato nuove sfide nel raggiungere le comunità bisognose di assistenza alimentare, in un Paese in cui 18 milioni e mezzo di persone hanno già bisogno di assistenza umanitaria.

MIliziani nella provincia di Parwan


7 AGOSTO 2021, KABUL
«Quando ho iniziato a studiare non volevo solo migliorare la mia vita, ma anche il mio Paese. Laurearmi qui è stato il mio modo di dire: voglio contribuire a un Afghanistan libero dall’oscurantismo. Ora siamo al punto di partenza».
Sono centinaia i giovani, ben vestiti, istruiti, in coda all’ufficio passaporti di Kabul.


Quando chiedi loro quali sono di mostrare i documenti che portano con sé, piegati con cura, chiusi in cartelle di plastica, la prima cosa che mostrano sono i certificati di laurea, i master, i corsi di lingua. Vogliono mostrare e dimostrare di aver studiato, che non avrebbero voluto partire, ma che ora non hanno scelta.


Abdel Tahir ha 26 anni, è arrivato a Kabul da Laskargah. Prima di raccontare la sua fuga, mostra la laurea, è un ingegnere.
Abdel Tahir parla ad alta voce, forse vuole che gli altri lo sentano o forse è solo un modo per sfogare la sua frustrazione.
Quello che ha visto a Laskargah è l’ultima cosa di cui vuole parlare: «Del futuro, dovremmo parlare del futuro ma la nostra vita è un costante passo indietro nel passato».


A Laskhargah suo padre aveva un’officina meccanica, distrutta dai combattimenti. Due giorni prima che Abdel Tahir fuggisse il loro vicino è stato ucciso dopo essere rimasto intrappolato in casa sua, occupata dai talebani.


Il padre ha messo in tasca di Abdel Tahir dei risparmi, dicendo: «Vai a Kabul e cerca di salvarti, almeno tu». E così la vita di Abdel Tahir è diventata la vita di uno sfollato. Ora vive in una stanza in affitto a Kabul, i soldi stanno finendo e non ha un lavoro e dice: «È iniziata la mia vita da miserabile».
Perché la guerra sta già facendo quello che fa sempre: far emergere speculatori.


Prima un biglietto da Laskargah a Kabul poteva costare 5 dollari, ora costa almeno 13 dollari. Aumentano i prezzi di ogni cosa: il carburante, il pane, la farina.
«Non voglio lasciare il Paese illegalmente ma non posso restare qui, vedendo i miei sacrifici e quelli della mia famiglia annientati da un gruppo di estremisti», dice Abdel Tahir.
Dall’inizio dell’offensiva, a maggio, migliaia di afghani provano a ottenere visti e passaporti per lasciare il Paese, ogni giorno 2 mila persone si mettono in fila all’ufficio passaporti per rinnovare i documenti, migliaia sono in coda di fronte alle ambasciate in attesa di un visto, soprattutto quella iraniana.


Anche Ghulam, 28 anni, è in coda dalle otto del mattino all’ufficio passaporti.
È scappato dalla provincia di Helmand, a Kabul vive a casa di uno zio.
«È la mia terra e questo ritiro delle truppe avrebbe dovuto essere un’opportunità per tutti, la prova che sappiamo prenderci cura del nostro Paese, soprattutto la mia generazione, cresciuta con l’idea che si potessero costruire e difendere diritti per tutti. Invece quell’opportunità è diventata una trappola. Chi avrebbe dovuto aiutarci ci ha tradito».


Parla della vita a Kabul da sfollato come di una vita da reietto, sempre in attesa dell’aiuto di altri, sempre costretto a chiedere qualcosa: «Non posso restare ospite a casa d’altri, la vita qui è troppo costosa e non posso permettermi di sostenere me stesso né tantomeno la mia famiglia. So che lasciare il Paese è solo questione di tempo, non esiste un posto sicuro in Afghanistan».


Ghulem ha provato a chiedere un visto per la Turchia, in tempi normali la procedura costava 140 dollari, oggi le procedure di visto solo bloccate.
L’unica via è comprarlo al mercato nero. Per seimila dollari
.

Secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nelle ultime settimane il numero di afghani che hanno attraversato il confine illegalmente è aumentato di circa il 30-40 per cento rispetto al periodo precedente al ritiro delle truppe internazionali a maggio. Almeno 30mila persone fuggono ogni settimana. La stragrande maggioranza dei rifugiati afghani registrati vive nei paesi confinanti: Iran e Pakistan, che ospitano due milioni e mezzo di persone anche se i numeri non ufficiali sono considerati molto più alti.

8 AGOSTO 2021, JALALABAD
Parwan Firozi ha 27 anni. È un giovane dal viso scavato, le rughe gli segnano la fronte. È magro, molto magro.
Arriva a Jalalabad da Laghman, dopo aver guidato per cinquanta chilometri.


Il suo villaggio è ormai da mesi sotto il controllo dei talebani, così come le strade che attraversano la campagna. Incontrarlo lì, quindi, non sarebbe stato possibile. Meglio qualche ora al sicuro, nascosti a Jalalabad. Nessuno deve vedere che incontra gli stranieri. Se i talebani lo sapessero, lo ucciderebbero, considerandolo un collaboratore degli infedeli.

 

Parwan, tornato in Afghanistan dopo aver lavorato in Germania, costretto a nascondersi perché considerato infedele


Parwan è il più giovane di sei figli.
Dieci anni fa, quando era ancora minorenne, la sua famiglia ha raccolto fondi per dargli la possibilità di viaggiare in Europa. Come spesso accade, il più giovane diventa il progetto di un intero gruppo familiare: Parwan sarebbe arrivato in Europa, avrebbe trovato lavoro e da lì avrebbe aiutato economicamente la sua famiglia di pastori e contadini: «L’insicurezza, la povertà e il nostro nemico interno, i talebani, mi hanno spinto fuori dal Paese», racconta, ricordando la paura e l’instabilità che la sua terra, l’Afghanistan, viveva già dieci anni fa.
Il padre gli ha dato soldi sufficienti per raggiungere l’Iran, dove già viveva e lavorava uno dei fratelli che ha pagato il resto: il viaggio con i trafficanti che lo ha portato dall’Iran alla Turchia e da lì all’Europa.
Destinazione Heilbronn, Eppingen, Germania.
Parwan chiede asilo, ottenendolo in fretta e inizia a lavorare, prima in un ristorante, poi come muratore e carpentiere.
Sempre in regola, lo sottolinea, sempre amato da tutti e da tutti rispettato. Per anni, dice, «non mi sono sentito sentito discriminato ma accolto». Ha studiato tedesco, si sentiva un cittadino tedesco, un cittadino europeo. «Avevo tutto, avevo tutto ciò che un ragazzo di vent’anni potesse desiderare. La libertà, un lavoro, degli amici».
La sua vita precedente è ferma nelle fotografie memorizzate sul suo telefono.


Guardando quelle fotografie è quasi impossibile riconoscere il volto del ragazzo che oggi è seduto in una stanza d’albergo a Jalalabad, spaventato dal primo rumore, sempre a guardarsi le spalle.
Nel 2018, mentre lavorava in un cantiere edile, ha perso due dita di una mano: «Si sono presi cura di me, ho avuto le indennità che spettano a un lavoratore in regola, ero un cittadino come gli altri», ricorda.
Poi improvvisamente tutto è cambiato.


Due anni fa è stato convocato dall’ufficio di polizia di Heilbronn: qualche multa non pagata, qualche rata delle tasse ancora da versare. Rischiava l’espulsione, gli hanno detto. Parwan, spaventato dalla possibilità di essere riportato in Afghanistan perde il controllo, insulta i funzionari pubblici, cerca di picchiarli.


«Avevo paura, quella non era più la Germania che mi aveva accolto anni prima, i sentimenti verso noi profughi erano cambiati. Lo sentivo dagli sguardi, gli occhi su di me non erano più quelli di un tempo. In pochi anni noi stranieri, anche gli esuli, gli integrati, siamo passati dall’essere parte di una comunità a essere ospiti indesiderati».


Il giorno dopo la sua convocazione all’ufficio di polizia, due soldati l’hanno prelevato da casa e portato all’aeroporto. Era arrivato l’ordine di espulsione. Parwan non ha avuto tempo di contattare un avvocato per provare a fare appello. Gli hanno consegnato una lettera con la decisione di rimpatrio e un biglietto, destinazione Kabul, insieme a lui altri 17 cittadini afghani.


«Sono partito da un Paese che consideravo ormai casa, e sono tornato a una vita sconosciuta. Oggi la mia esistenza è un buco nero».
Delle prime settimane dopo il suo ritorno, ricorda il rifiuto della comunità e dei suoi fratelli che vedono in lui non la tragedia della deportazione ma l’onta del fallimento, tornato al villaggio con un fallimento sulle spalle, senza soldi, senza lavoro.


Delle prime settimane ricorda il terrore dei talebani che aveva cercato di dimenticare. In due anni il suo corpo e il suo viso sono cambiati. Non resta niente del ragazzo che era, l’immagine delle sue fotografie a Heilbronn si è dissolta, oggi Parwan è un uomo che si sente ostaggio nel suo stesso Paese.


«I talebani hanno conquistato il mio villaggio, pochi mesi dopo la mia deportazione. Oggi cerco di uscire il meno possibile. Quelli come me, che hanno vissuto in Occidente, si nascondono. Siamo macchiati, siamo considerati infedeli».


Tornare al villaggio per Parwan è stato prendere una macchina del tempo, tornare all’oscurantismo da cui era fuggito: «Stanno convincendo le persone di essere magnanimi, provvedono ai bisogni della gente per rafforzare il consenso, ma non sono cambiati. I talebani sono gli stessi di dieci anni fa. Se non peggio. Radunano le persone nelle campagne, improvvisano tribunali islamici per giudicare coloro che considerano peccati e punirli». Alza i pantaloni, mostra i segni delle cicatrici che porta sulle gambe.
«Hanno sparato anche a me, perché mi sono rifiutato di combattere. Temo che la mia morte sia solo questione di tempo».

Il mese scorso, l’allora governo afghano di Ghani aveva invitato le nazioni europee a fermare le deportazioni alla luce dell’avanzata talebana.
«Dobbiamo espellere il più a lungo possibile», ha detto martedì scorso il ministro degli interni austriaco Karl Nehammer. L’Austria insiste sulle deportazioni anche dopo la presa di Kabul, suggerendo di istituire centri di espulsione.


L’Austria è stato uno dei sei Stati membri dell’Unione europea che la scorsa settimana ha messo in guardia la Commissione europea dal fermare la deportazione dei richiedenti asilo afgani respinti che arrivano in Europa.
Da allora, tre dei sei (Danimarca, Germania e Paesi Bassi) hanno invertito la rotta.
Ma l’atteggiamento europeo verso la grave crisi umanitaria afgana dimostra, una volta ancora, paura e incapacità di gestione.


Il giorno dopo la caduta di Kabul, Armin Laschet, candidato alla carica di cancelliere tedesco dell’Unione democratica cristiana (Cdu) ha dichiarato che la principale priorità dell’Ue dovrebbe essere quella di impedire ai rifugiati afghani in fuga di raggiungere l’Europa: «Il 2015 non dovrebbe ripetersi», facendo riferimento alla cosiddetta crisi che sei anni fa portò un milione di persone per lo più siriane ad attraversare la Turchia, la Grecia e i Balcani per raggiungere l’Europa. Analogamente, nel primo discorso pubblico dopo la presa del potere dei talebani, il presidente francese Macron ha detto: «Dobbiamo anticipare e proteggerci dai grandi flussi migratori irregolari».


«L’Europa sarà all’altezza», ha detto il premier Mario Draghi.
Intanto, l’Europa sta a guardare.
Prende le misure con i talebani al potere, ipotizza accordi con paesi terzi, i paesi confinanti per bloccare i profughi.
Una storia già vista.


L’Unhcr ha pubblicato il 17 agosto un avviso di non ritorno per l’Afghanistan, chiedendo un divieto di rimpatrio forzato dei cittadini afgani, compresi i richiedenti asilo la cui richiesta è stata respinta.
«Gli Stati hanno la responsabilità legale e morale di consentire a coloro che fuggono dall’Afghanistan di cercare sicurezza e di non rimpatriare forzatamente i rifugiati», scrive Unhcr.
Secondo i funzionari dell’Ue, dall’inizio del 2021, 1.200 persone sono state rimpatriate dall’Unione europea verso l’Afghanistan.

12 AGOSTO 2021, KABUL
I talebani hanno ormai circondando il paese, tengono sotto assedio le città. Controllano i valichi di confine, passaggi strategici perché conquistare i confini equivale a controllare i traffici che li attraversano.


L’aumento dell’inflazione si avverte soprattutto nella capitale, Kabul, città pensata per ospitare mezzo milione di persone ma che accoglie, oggi, piu’ di quattro milioni di abitanti.
Pochi tra gli sfollati quelli che possono pagare un affitto, è aumentata la domanda, sono aumenti i prezzi. Per molti non sostenibili.


Chi non può finisce in sistemazioni di fortuna, come quelle nella zona Pd5 alla periferia della città.
Insediamenti urbani che ospitano migliaia di persone, case di terra attraversate dalle acque di scolo.
Abdul Ghfar è arrivato da Lashkar Gah, nell’Helmand, il piede segnato dall’esplosione di un ordigno.
Nei combattimenti ha perso sua madre e da due settimane vive in una stanza con altre quattro persone, fuggite dalla parte meridionale del Paese come lui.


Non ha lavoro, non ha soldi, casa sua oggi è una coperta grigia stesa a terra, in una stanza piena di mosche che ha l’odore di una latrina.
Anche la gamba di Karham Kham è segnata dalla guerra, ma non da questa.
Ha perso l’uso della gamba durante la guerra civile degli anni Novanta.


Anche lui è scappato da Lashkar Gah da pochi giorni e vive nella zona Pd5 con i due figli e otto nipoti.
«È il nostro destino, è il nostro destino. Sono troppo vecchio per andare via, troppo stanco per vedere un’altra guerra, ma di loro, dei bambini, che ne sarà?».

Dall’inizio dell’anno, secondo i dati forniti dall’Unhcr, più di 550.000 afgani sono stati sfollati a causa dei combattimenti e della mancanza di sicurezza.
Solo nelle ultime settimane sono arrivate a Kabul trentamila persone dalle città controllate dai talebani.
L’escalation dei combattimenti ha anche reso più difficile e pericoloso per le organizzazioni umanitarie assistere le famiglie più bisognose, secondo Nrc (Norwegian refugee council), che ha affermato di avere difficoltà a fornire aiuti alimentari a 900 mila afgani, che equivalgono all’80 per cento dei progetti che hanno nel Paese, a causa del conflitto.


13 AGOSTO 2021, KABUL
Sono le prime ore del pomeriggio quando arriva la notizia della morte di Gino Strada. Medici, infermieri si fermano. Si fermano anche i pazienti, tanti come sempre nelle corsie dell’ospedale di Kabul.
Non si fermano le ambulanze, i feriti continuano ad arrivare dal fronte. Tre sono ragazzini.

 

Said Moh-Agha, 13 anni, dalla provincia di Helmand. mentre andava a casa un proiettile lo ha colpito alla schiena recidendogli il nervo spinale. Non può più camminare


Said Moh-Agha ha tredici anni, è stato trasportato da Helmand. Tornava a casa da scuola quando un colpo di proiettile l’ha ferito al bacino. Non potrà piu’ camminare.
Ma parla ancora.
Vorrebbe essere medico anche lui. Vorrebbe che non ci fosse la guerra.
Chissà che pensa mentre lo dice, lui che in Paese senza guerra non ha vissuto mai.

Dal 2010 a oggi i ricoverati con ferite da guerra negli ospedali di Emergency in Afghanistan sono aumentati del 170 per cento.

14 AGOSTO 2021, KABUL
Quando cala la sera, sul quartiere di Sarai Shamali, periferia nord della città, al traffico congestionato si aggiungono i camion, i pullman e i mezzi privati che trasportano gli sfollati.
Sui tetti delle auto buste, valigie e scatoloni chiusi di fretta e legati con le corde, coperte e elettrodomestici, le culle dei bambini.


Si fermano sul ciglio della strada nei pressi di una radura. I bambini scendono dalle auto con un telo in mano per accaparrarsi un pezzo di spazio, lo stendono. E quel telo diventa casa, lo spazio dove trascorreranno le ore seguenti, i giorni seguenti, forse le settimane e i mesi.

 

Mohammad Gul, fuggito da Lashkar Gah


Mohammad Gul è scappato da Kunduz con sua moglie e i suoi tre figli, la più piccola dorme disturbata dalle mosche mentre la più grande la bacia sulla fronte.
Era un venditore ambulante a Kunduz, la casa della sua famiglia è stata colpita da un razzo, Mohammad Gul ha raccolto i risparmi e due piccole borse con gli abiti dei bambini ed è scappato a Kabul.


«I talebani occupano le case dei civili, con i civili dentro. Impediscono alle persone di lasciare le loro abitazioni. Volevo solo salvare i bambini, ma ora che li ho salvati che ne sarà di loro».
A pochi metri, due donne coprono il volto, si sostengono e piangono.


Sono sole, perché i loro mariti sono soldati dell’esercito afghano rimasti a Kandahar.
Mentre arrivano notizie dei violenti combattimenti in città e della prigione di Sarpuza caduta nelle mani dei talebani che hanno rilasciato tutti i prigionieri, le donne si stringono le mani. La caduta della città è alle porte.


Dei loro mariti rimasti a combattere non dicono nemmeno: che ne sarà di loro? Come sapendo che la sorte per le forze dell’esercito afghano catturate dai talebani sia una sola: le esecuzioni sommarie.
La luce, in Afghanistan, ha mille sfumature di ocra, l’aria pomeridiana solleva vortici di sabbia sul campo profughi, si poggia sui volti emaciati dei bambini che attraversano il campo a piedi nudi, nelle acque di scolo.


Le donne anziane che non hanno più nemmeno la forza di piangere o lamentarsi.
Resta loro solo la forza dei gesti, la schiena che oscilla avanti e indietro, come cullata nell’illusione che tutto questo non sia vero.


Un’ombra si avvicina lentamente. Il burqa blu copre una silhouette che avanza, un passo dopo l’altro. La donna si ferma, le sue gambe sembrano non reggere più il peso della fuga.
La donna tiene in braccio un fagotto. È un neonato avvolto in un lenzuolo bianco, chiuso da corde di iuta.


È nato quindici giorni fa, nella Kunduz assediata.
Fawzia, questo è il suo nome, ha 22 anni, è arrivata al campo un giorno prima, sola con suo figlio.
Suo marito è stato ucciso dai talebani perché era un poliziotto delle forze di sicurezza afghane. Vedova, con un bambino appena nato non ha potuto fare altro che raggiungere le donne, altre mogli e altre vedove e lasciare Kunduz, che stava cadendo nelle mani dei talebani.

 

Fawzia, 22 anni, vedova, con in braccio il figlio nato quindici giorni prima a Kunduz


Gli uomini rimasti a combattere hanno affidato le donne agli anziani della comunità e ad un autista, per arrivare a Kabul e mettersi in salvo.
Una fuga durata tre giorni, due notti all’addiaccio a dormire nei boschi. Troppo pericoloso attraversare le strade sotto il controllo talebano.


Fawzia non sa dire dove fosse, di quei giorni ricorda solo il pianto di suo figlio. E la sete.
Ha speso i pochi risparmi che aveva per raggiungere Kabul, ma quando è arrivata al campo si è resa conto di non essere arrivata al sicuro.
Non c’è posto per dormire, non ha latte: «forse la paura, ha ucciso il mio latte», ripete. Non ha niente per cui vivere, dice tenendo il bambino tra le braccia come in uno stato di incoscienza.


«Non so cosa fare», dice più volte, mentre si allontana, così come era arrivata, senza aver svelato il volto, avvolta nel blu del suo burqa, mentre la sabbia ammanta la sua sagoma nella luce della sera.
Quando comincia a calare la sera sul campo, arrivano le auto di comuni cittadini. Qualcuno porta del pane, qualcuno dei biscotti per bambini, qualcuno distribuisce pasti confezionati.
A proteggere le auto poliziotti armati.


Gli uomini e i bambini urlano, si strattonano per una busta di pane, per una coperta in più.
I neonati piangono perché nessuno porta latte. Le donne che li stringono al petto, piangono di conseguenza, aprendo il palmo della mano senza nemmeno chiedere.
Chiedere non serve.


L’immagine della crisi umanitaria in Afghanistan ha già assunto la sua forma più brutale: le grida di dolore unite al pianto della fame.

15 AGOSTO 2021, KABUL
Kabul è caduta.
Mahmoud Omid ha 31 anni, vive a Kabul. Fino all’anno scorso era un interprete delle truppe statunitensi in Afghanistan. Quando gli chiedi di descriversi dice: «Sono nato e cresciuto in un Paese in guerra, e probabilmente morirò in un paese in guerra».


Ha lavorato per tre anni con le truppe americane. La sua base di lavoro era nel New Kabul compound nella capitale, ma ha preso parte ad alcune missioni operative in altre province come Kandahar e Helmand.


Nel 2019 Mahmoud ha partecipato a una missione delicata in una delle 11 divisioni di Kabul, ha contribuito a identificare un membro della Rete Haqqani e sventare un piano per attaccare i comandanti delle brigate delle forze speciali afghane e di quelle statunitensi.


Ha ricevuto una medaglia al merito e una targa che recita: «Il tuo supporto è stato cruciale e ha giocato un ruolo importante per il successo della missione dei nostri consiglieri, più di un semplice interprete, ci hai aiutato a capire e a rimanere vivi. Non possiamo ringraziarti abbastanza per il tuo tempo e cosa più importante per la tua amicizia»-
Omid ha chiesto un visto. La sua domanda è stata rifiutata.


Da maggio, dall’inizio dell’offensiva, ha vissuto chiuso in casa per paura di ritorsioni. Per paura di essere ucciso.


Quando, il 15 agosto, Kabul è stata conquistata, Mahmoud Omid è uscito di casa, era tra le migliaia di persone che hanno assaltato l’aeroporto Karzai di Kabul.


«Sono morto comunque», dice, mentre invia le fotografie delle persone intorno a sé rimaste ferite e uccise dai colpi d’arma da fuoco sparati per impedire che raggiungessero le piste dell’aeroporto. Poi aggiunge: «Aiutatemi se potete, fate qualcosa per tirarmi fuori da questo inferno, prima che ci massacrino».

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