I combattimenti sono ancora più intensi dopo il ritiro dela Nato. E al confronto armato tra governo e talebani si aggiungono le milizie che controllano intere aree del Paese

L’Afghanistan si trova nella situazione peggiore della sua storia. La ragione principale è il ritiro della Nato, fuggita in un momento in cui i combattimenti non fanno che intensificarsi e ogni giorno muoiono centinaia di afghani. Il fatto peggiore da digerire è che ora, senza un attore forte come gli Usa, governo e talebani faranno fatica a trovare un accordo. Non c’è fiducia fra le parti e nessuno sa come andrà a finire». L’analista Nasratullah Haqpal ama ripetere questo concetto: quando le cose sembrano collassare l’incertezza offusca ogni tipo di proiezione futura. «L’incertezza per il futuro ha ripercussioni sull’economia, la vita sociale, l’educazione e la sicurezza. In questo caso il principale responsabile è il governo americano che lascia gli afghani nella situazione di 20 anni fa. Se c’è qualcuno che ha la capacità e la responsabilità di trovare un accordo fra governo e talebani, sono loro».


La dichiarazione fatta da Joe Biden un mese fa, secondo cui gli Usa «non sono andati in Afghanistan per fare “Nation-building”» ha fatto infuriare gli afghani: «Siamo forse noi afghani ad aver invitato gli americani e la Nato? Hanno occupato il paese dicendo che volevano sradicare il terrorismo, portare la prosperità e la democrazia», continua Haqpal. «Dov’è la democrazia? E La prosperità? Se non sono venuti per fare “Nation building”, allora sono rimasti per ucciderci? Sono riusciti a dividere la popolazione più che mai. E ora che dovrebbero risolvere il problema scappano, addossando la colpa agli afghani». Una cosa che rende tutti unanimi in Afghanistan è la gioia nel vedere gli stranieri lasciare il paese. Tutti hanno perso fiducia nei loro confronti, giudicando l’operato e il lavoro di 20 anni di presenza come inutile. Un fiasco totale costato trilioni di dollari.
Il riflesso di tutto ciò si manifesta nel ritiro affannoso delle forze Nato degli ultimi mesi. In particolare, l’abbandono inatteso della base aerea di Bagram. È successo venerdì 2 luglio, in mezzo alla notte, quando l’ultima compagnia di soldati americani è decollata dalla pista, lasciando sguarnita la base, senza avvertire gli afghani. «Ci siamo accorti che erano partiti dopo due o tre ore. Nessun afghano aveva il diritto di entrare nella zona. La notte abbiamo sentito i rumori degli aerei. Una cosa normale, come ogni notte. Quando abbiamo notato che era stata smantellata, abbiamo colmato subito il vuoto mandando i soldati a controllare il perimetro», racconta il generale Mir Asadullah Kohistani, divenuto comandante di tutta la base aerea dopo la partenza americana. Un comportamento criticato che però Kohistani tiene a difendere: «Siamo militari. Abbiamo dei codici per proteggere le missioni. Gli americani ci avevano avvertito che sarebbero partiti, ma senza darci un giorno e un’ora esatti».


L’abbandono di Bagram è stata una sorpresa, anticipando di quasi due mesi l’11 settembre, data simbolica annunciata da Biden come limite per completare il ritiro. Soprattutto per i miliardi di dollari investiti per sviluppare la base, il simbolo dell’occupazione Nato e una vera e propria cittadina che ospitava circa 70 mila persone, con centinaia di voli alla settimana, 3500 edifici e tutte le infrastrutture di un normale centro urbano. Bagram oggi è deserta, silenziosa. Girare per le sue strade, osservare la segnaletica e l’architettura, richiama più una cittadina remota e desertica del Nevada in decadimento. C’è da immaginarsi quindi la sorpresa delle forze afghane nell’assistere a tale spettacolo: tutto vuoto, niente elettricità, negozi svuotati di ogni bene. Una città fantasma. Fra le forze afghane c’è fierezza e amarezza: «Siamo fieri di poter controllare la base, ma gli americani ci hanno traditi. Lasciare l’Afghanistan sì, ma non Bagram», commenta un sergente. Senza dimenticare i dubbi circa le capacità delle forze afghane di mantenere il controllo sulla base, visto che nelle provincie faticano a resistere agli attacchi dei talebani. «I Talebani hanno annunciato che avrebbero attaccato, ma la difenderemo a ogni costo. Chi controlla Bagram, controlla l’Afghanistan».
Questi timori derivano dalla situazione militare. L’esercito è stato criticato per le sconfitte subite sul campo oltre alle migliaia di diserzioni e perdite. I Talebani hanno conquistato molto territorio, accerchiando le principali città e conquistando i principali valichi di frontiera, mettendo alle strette il governo e la popolazione. Tuttavia, Haqpal dice che secondo «alcune teorie, l’esercito si sarebbe ritirato da territori difficili e remoti per concentrarsi sulle città. I soldati sono demoralizzati perché non credono nei loro leader, non perché non sono ben armati o addestrati».


Ma lo scacchiere afghano non si limita a talebani contro governo. Oltre a una guerra mafiosa collaterale e conflitti fra gruppi tribali, c’è un dettaglio che molti non hanno voluto vedere per molto tempo e che oggi rappresenta un vero pericolo: per contenere gli attacchi incessanti dei Talebani, da ormai più di un anno governo e servizi segreti hanno fatto ricorso alla creazione e alsostentamento di centinaia di milizie, chiamate oggi forze di insurrezione popolare. In mano ai molti signori della guerra diventati improvvisamente paladini democratici nel governo, controllano interi territori, rischiando di diventare la spina nel fianco di qualsiasi possibile soluzione politica. Da anni ormai, molti politici corrotti a Kabul, parlamentari ma anche alti ranghi del governo, armano le milizie o le sostengono in base ai propri interessi. Le appoggiano spesso anche con il benestare di Stati terzi, impauriti di perdere privilegi e potere, con il possibile ritorno dei talebanii. Solamente a Kabul ci sono interi quartieri dove l’esercito e la polizia non hanno giurisdizione.


Uno sviluppo preoccupante che negli ultimi due mesi ha visto un peggioramento. Con il deterioramento della situazione, infatti, migliaia di civili hanno raggiunto nuove milizie, spesso senza saper combattere. Per ora affiancano l’esercito governativo ma rimane un punto interrogativo: «Bisognerà vedere se queste milizie si allineeranno con il governo oppure seguiranno i loro leader su base etnica, come in passato. Possono essere sia un grande appoggio che un pericolo per la stabilità del governo», commenta il professore Fahim Sadat. Haqpal è molto negativo: «Come nel passato, queste milizie commettono abusi. Uccidono per il beneficio di pochi e potrebbero far scoppiare una guerra interetnica diventando un attore incontrollato in un conflitto fra esercito governativo e talebani». Il parlamentare della provincia di Parwan Abdul Zaher Salangi, lui stesso parte di una milizia, la vede però differentemente: «Sono essenziali. La gente dovrebbe avere le armi e combattere i talebani. Dopo l’arrivo della Nato, i programmi di disarmo nelle province non hanno fatto altro che regalare territorio ai talebani. Ora la Nato se ne va, lasciando l’inferno agli Afghani».


Se nelle provincie i cannoni tuonano, paradossalmente a Kabul, nell’ultimo mese, la situazione si è calmata con meno esplosioni e meno bombe magnetiche sulle macchine. Ma è una calma apparente. I prezzi dei viveri di base sono alle stelle e non si capisce se il governo crollerà, se ci sarà un accordo con i Talebani oppure se questi prenderanno le città principali con la forza. Moltissimi cercano di scappare dal paese (circa 5 mila passaporti sono emessi ogni giorno). «I Talebani sanno di non essere in grado di controllare le città. Non conquisteranno Kabul», dice Haqpal. «Se prendessero Kabul con la violenza, cosa che avrebbe un costo umano altissimo, perderebbero sicuramente molta legittimazione. Sembra piuttosto che vogliano mettere pressione per avere più potere sul tavolo dei negoziati di fronte alla comunità internazionale». Fahim aggiunge che «sono forti nel conquistare, ma come si è visto in varie occasioni, non riescono a mantenere una regione e a gestirla. Ora vogliono capitalizzare il momento del ritiro americano». 
Fra chi prima vedeva nei Talebani un movimento di liberazione, oggi, con i molteplici abusi dei diritti umani, la distruzione di moschee, e le violenze contro soldati e civili, molti si stanno ricredendo. Anche se la leadership talebana di Doha nega e condanna gli atti criminali delle truppe sul campo, la fiducia viene meno. Nel campo governativo invece, i politici a Kabul - come il presidente Ghani - sono nel panico, minacciano giornalisti e attivisti, arrestando chi critica il loro operato. Tutti sembrano fare i propri interessi. «I Talebani, reprimendo, mostrano che non hanno le capacità di governare. Mentre il governo, oltrepassando ogni limite della costituzione democratica che dice di difendere, mostra il suo vero volto», tuona Haqpal.


Ma una certezza sembra risiedere in una frase di Salangi: «Non ci sarà pace fintanto che la comunità internazionale non la vorrà. Ci impongono una guerra e noi dobbiamo combatterla». In Afghanistan lo sanno benissimo tutti: che sia con milizie, governo o talebani, è una guerra per procura. Gli interessi degli stati regionali e della comunità internazionale hanno molto peso. Tutti gli attori sul campo sono delle pedine, carne da macello, che sembrano più che altro sostentare un’economia di guerra piuttosto che difendere le loro idee. Il caos sta lacerando l’Afghanistan e gli afghani. E la causa risiede molto in 20 anni di false promesse.